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23/01/2016

 

Sud Sudan, la Chiesa ferita non perde la speranza

di Davide Maggiore

 

La guerra scoppiata due anni fa non ha risparmiato neanche le strutture religiose. Mentre vacilla la tregua tra governo e ribelli, i missionari restano con la popolazione: “Dio non ci abbandona”. E i vescovi invitano il Papa a visitare la loro terra

 

Mesi di trattative e nove diversi accordi sottoscritti non sono bastati. Anche con un cessate il fuoco formalmente in vigore da agosto il Sud Sudan resta una nazione in guerra, a due anni dai primi scontri che opposero i militari fedeli al presidente Salva Kiir e i ribelli passati al seguito del suo ex vice, Riek Machar. Due anni di un confitto fatto di molti fronti, di città passate più volte da uno schieramento all’altro, di migliaia di morti - impossibile, ufficialmente, dire quanti - e 2,4 milioni di persone costrette a fuggire, chi all’estero, chi in altre parti del paese.  

 

Da Juba, la capitale, padre Daniele Moschetti ha visto il conflitto cominciare e poi espandersi nel paese, non risparmiando nessuno. Né i civili, compresi donne e bambini, né le Chiese che erano state al fianco della popolazione per decenni, durante un altro conflitto: quello che aveva portato alla secessione dal Sudan e alla nascita della nuova nazione. Chiese presenti, nel silenzio, anche durante le ultime ostilità. “Ad Ayod i miei confratelli hanno seguito la popolazione, quando la città è stata completamente distrutta in un attacco” spiega il sacerdote, superiore dei missionari comboniani e presidente dell’associazione dei superiori religiosi sudsudanesi. “Old Fangak invece si è rivelata imprendibile per l’esercito regolare e quindi è diventata un punto d’incontro per gli sfollati, ma è a Leer che abbiamo pagato di più la guerra”, prosegue. La città dello stato di Unity è stata attaccata e occupata due volte, oltre ai missionari l’hanno dovuta abbandonare anche le organizzazioni umanitarie. “Sono rimasti solo i muri delle case: per sette anni ci eravamo impegnati per avviare un centro per la formazione professionale, una scuola tecnica per i giovani. In pochi giorni tutto è sparito… è qualcosa che manda in crisi”, confessa Moschetti.  

 

Anche le ultime settimane hanno confermato che le fazioni in lotta non si fermano nemmeno davanti alle strutture religiose. Ad essere stata attaccata e saccheggiata a fine dicembre è stata una casa del progetto Solidarity with South Sudan, in cui abitavano alcune suore. Nelle parole del superiore comboniano c’è incredulità: “Il senso dei valori si è perso da molto tempo, in questi anni gli attacchi sono stati vari e si è raggiunto un livello di violenza impossibile da descrivere; i fratelli sono andati contro i fratelli”. Dinka, Nuer, Zande, Shilluk: i nomi delle popolazioni entrate a far parte dei due schieramenti si susseguono nel racconto del padre, che descrive una situazione ancora critica. Le trattative di pace infatti sono di nuovo bloccate: raggiunto l’accordo sul nuovo governo di transizione, ora la divisione è sulla riorganizzazione amministrativa locale che il presidente Kiir vorrebbe imporre. Intanto, nello stato di Western Equatoria, finora pacifico, sono iniziati scontri che stanno portando altre centinaia di persone a fuggire, soprattutto verso l’Uganda. L’Onu parla di almeno 15.000 profughi. 

 

“Anche noi ci chiediamo come sia stato possibile arrivare a questo. - ragiona il religioso - Le violenze derivano anche da un rispetto della persona quasi inesistente: le zone dove sono avvenuti gli episodi più gravi sono quelle in cui l’istruzione è ai livelli più bassi del mondo; quando si scatenano simili pulsioni violente, in queste condizioni, è difficilissimo controllarle”. L’impegno della Chiesa, dunque, è innanzitutto per costruire la pace a livello di base, cominciando dove è possibile: nei campi per sfollati, nelle parrocchie, persino nelle carceri. Ad oggi sono una sessantina gli operatori che sono stati formati in queste comunità, per lavorare sulle tecniche di cura dei traumi della guerra e addestrare a loro volta persone che possano proseguire il compito. E a Juba, nel prossimo futuro, dovrebbe sorgere un centro specializzato, con lo stesso scopo. “È un compito immane - riconosce Moschetti - per cui ci vorranno anni se non decenni e ricominciare sempre da zero è difficile. Ma come missionari ricordiamo i nostri predecessori che non hanno mai perso la speranza per le nuove generazioni. Tutti i leader politici passano, mentre il Signore ha in mano la Storia: Dio non ci abbandona”. 

 

Intanto Paulino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba, ai microfoni di Radiovaticana riferisce le parole del Papa all’invito a visitare il Sud Sudan, rinnovatogli dai vescovi del Nord e del Sud Sudan ricevuti il 20 gennaio in udienza. «Sono pronto -ha detto Francesco all’arcivescovo -. Vorrei, vorrei, vorrei, ma alla fine lasciamo tutto nelle mani del Signore».  

 

Con papa Francesco, ha riferito il vescovo all’emittente pontificia, hanno parlato della pace in Sud e Nord Sudan, «pace della quale abbiamo tanto bisogno», e del problema delle vocazioni. «La questione della pace - ha detto mons. Paulino Lukudu Loro - resta ancora la priorità per tutti e due i Paesi, specialmente per il Sud Sudan, perché siamo in guerra. Senza pace la religione avrà delle difficoltà. La pace in Sud Sudan è ancora la priorità. Poi, come dicevo, la Chiesa deve affrontare la questione delle diocesi vacanti e di crearne altre perché c’è molto bisogno di questo; c’è anche la questione del sostentamento del nostro clero locale? Abbiamo tanti problemi; non possiamo sostenere il nostro clero. Sono queste più o meno le nostre priorità».  

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