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13 gennaio 2017

 

Come il B’nai B’rith ha infiltrato e condizionato il Concilio Vaticano II

di Francesco Lamendola

 

Abbiamo già parlato di come la dichiarazione Nostra Aetate abbia introdotto nel Concilio Vaticano II il principio del dialogo inter-religioso e della pari dignità di tutte le religioni, colpendo al cuore, con ciò stesso, la pretesa della Chiesa cattolica di rappresentare la sola via verso la Verità, e non semplicemente una delle varie, possibili vie (cfr. il nostro articolo Ma cosa significa dialogo inter-religioso?, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 19/12/2016); ci resta da parlare dei retroscena di quello sconcertante documento, che ha rivoluzionato duemila anni di sacro Magistero e la stessa teologia cattolica, e di quanta parte vi ebbero il cardinale Bea, uomo-chiave di tale operazione, e la loggia paramassonica giudaica B’nai B’rith, fondata nel 1843 e tuttora viva ed estremamente attiva.

Scrive Epiphanius, nel volume Massoneria e sette segrete. La faccia occulta della storia, Napoli, Controcorrente Edizioni, 1990, 2002, pp.847-853): Non si può trattare del B’nai B’rith senza un breve excursus nel campo dove, con credibile certezza, esso ha raccolto i risultati più vistosi, ponendo le premesse definitive per l’azione secolare della Controchiesa, dopo un lungo e metodico lavoro di penetrazione e conversione agli ideali terreni ebraici della Chiesa cattolica, approdato nel Concilio Vaticano II.

Scriveva all’uopo Elia Eberlin: Israele compie infaticabilmente la sua missione storica di redenzione della libertà dei popoli; (è) il Messia collettivo dei diritti dell’uomo. Parlare di un Messia, e quindi di un dio, collettivo, è proclamare […] la sola realtà della divinizzazione dell’uomo e di conseguenza dell’unica religione dell’Umanità. Con tutte le conseguenze che questo comporta: “L’Umanità nella sua totalità è allora il solo Dio personale e/o il Cristo è la realizzazione o la perfezione di questa persona divina”. È un cammino “attraverso il caos del mondo verso il Cristo-cosmico”, proclamava l’eretico Teilhard de Chardin col plauso e sostegno di un cardinale di Santa Romana Chiesa, il gesuita Henri de Lubac.


Non s’intende qui descrivere e commentare gli intrighi che hanno dato vita alle due principali , assolutamente rivoluzionarie e sconvolgenti, Dichiarazioni “Dignitatis Humanae” e “Nostra Aetate” del vaticano II […]. Ebbene prima della discussione e dell’approvazione dei due documenti succitati venne fatto circolare fra i Padri del Concilio uno scritto anonimo intitolato “L’azione giudaico-massonica nel Concilio”, che però, a dire di mons. Graver, “fece poca impressione”. Lo scritto intendeva mettere in guardia i Padri contro un’azione condotta dal B’nai B’rith mirante, attraverso il gesuita cardinale Bea, ad un pronunciamento del Concilio nel senso di scagionare il popolo ebraico da ogni responsabilità sulla morte di Cristo, da imputarsi invece a tutta l’umanità, anche se palesemente in contraddizione con l’insegnamento del Divin Maestro (Mt. 22, 1-14)e col racconto dei testimoni della Sua  Passione e della Scrittura. Un’approvazione in tal senso avrebbe avuto come logica conseguenza di fare apparire i quasi venti secoli di cristianesimo come un’era di persecuzione ingiusta e senza fine da parte dei cattolici nei riguardi degli ebrei: un debito incommensurabile e imperdonabile che avrebbe richiesto da parte cattolica un lungo e proporzionato itinerario di riparazione.  Il 19 novembre 1963 il quotidiano francese “Le Monde” annunciava: “L’organizzazione ebraica internazionale B’nai B’rith ha manifestato il desiderio di stabilire relazioni più strette con la Chiesa Cattolica. Tale ordine ha sottoposto ora al Concilio una dichiarazione nella quale si afferma la responsabilità dell’intera umanità per la morte di Cristo. Se tale dichiarazione verrà accettata dal Concilio – ha dichiarato Label Katz, Presidente del Consiglio internazionale del B’nai B’rith – le comunità giudaiche cercheranno i mezzi per collaborare con le autorità della Chiesa. Azione intrapresa e portata a termine da parte ebraica soprattutto ad opera di tre personaggi: Jules Marx Isaac, scrittore e storico francese affiliato al B’nai B’rith, principale teorico e promotore della campagna contro l’insegnamento tradizionale della Chiesa; Label Katz, allora presidente del B’nai B’rith, e Nahum Goldmann, presidente del Consiglio Ebraico Mondiale. Ad essi se ne affiancarono altri, come il massone polacco Joseph Lichten, agente dell’ADL [Anti-Defamation League], operante in stretta collaborazione col cardinale Bea, membro della Commissione internazionale per le relazioni religiose col Giudaismo, delegato a Roma per il B’nai B’rith e che sarebbe stato presente in veste di delegato del Congresso Mondiale Ebraico alla cerimonia per l’intronizzazione del connazionale Giovanni Paolo II; Marc Tannenbaum, unico rabbino presente al Concilio (1926-1992) appartenente all’American Jewish Committee e sponsor di rilievo di Lucien Trust.
Il susseguirsi degli avvenimenti è noto: il 20 novembre 1964, nel corso della terza sessione conciliare, l’assembla dei vescovi, arcivescovi e cardinali, approva a larghissima maggioranza uno schema concernente il nuovo atteggiamento della Chiesa Cattolica nei riguardi degli ebrei e del giudaismo. Sotto la copertura di un necessario ecumenismo all’insegna della fraternità e delle comuni origini, gli ebrei da “perfidi”, come per molti secoli erano stati definiti nelle preghiere del Venerdì Santo, divenivano i “fratelli maggiori” dei cattolici, riconoscendo in tal modo che la Chiesa per due millenni si era ingannata e doveva ora procedere a fare ammenda. La decisione, ratificata il 4 ottobre 1965, era per un cattolico di allora sbalorditiva, come incredibile appare a tutt’oggi che i Padri conciliari avessero potuto ignorare l’esistenza dell’ebraismo talmudico moderno. I 1.651 Padri conciliari avevano così votato la riforma dell’insegnamento cattolico di sempre, conformemente alle direttive di Jules Isaac (e quindi del B’nai B’rith) che nei suoi libri e in ogni sua lettera, resi pubblici e in libera vendita, non facevano mistero di considerare:
L’evangelista Matteo uno spudorato mentitore e falsario specie là dove narra la Passione evidenziando le responsabilità giudaiche nella morte del Nostro Signore Gesù Cristo; i Padri della Chiesa come bugiardi e aguzzini che avevano diffuso nel mondo l’odio per gli ebrei su base teologica e quindi precursori di Hitler e i suoi scherani; la Chiesa come il più pericoloso focolaio d’infezione antisemita la cui secolare dottrina aveva inculcato l’odio per la razza ebraica sfociato logicamente nella Shoà di Auschwitz e dei 6 milioni di morti vittime dei nazionalsocialisti.
Né mostravano, i reverendi Padri, di conoscere il pensiero di insigni autori talmudici, anche recenti, come Elia Benamozegh, quando affermava: “La religione cristiana è una falsa religione che si presume divina. Non v’è per essa e il mondo che una via di salvezza, tornare a Israele”; o quella di A. Memmi: “La vostra religione è agli occhi degli ebrei una bestemmia e una sovversione. Il vostro Dio è per noi il Diavolo, vale a dire il condensato del male sulla terra” […].
Bisogna giocoforza ammettere che qualcosa nel Vaticano II si era svolto in modo molto strano…
Perno di tutta l’operazione tesa a rovesciare le millenarie posizioni della Chiesa sull’ebraismo fu il cardinale Agostino Bea (1881-1968), alfiere preso i Padri conciliari delle idee che Jules Isaac aveva esposto nel suo […]libro “Jésus et Israël” – peraltro ampiamente confutato fin dal 1949 dal domenicano padre Pierre Benoit nella “Revue Biblique” […]. Bea, già dal 1961, e col placet di Giovanni XXIII, aveva fondato e presieduto il novello “Segretariato per l’Unione dei Cristiani”, organismo che, oltre ad un riavvicinamento con gli ebrei, perorava il decentramento del potere nella Chiesa mediante forme di collegialità democratica. Cosa, si è visto, perfettamente realizzata.

Questi, dunque, nelle loro linee essenziali, i retroscena – allora, peraltro, praticamente di pubblico dominio, dato che la stampa internazionale, come si è visto, ne parlava apertis verbis – di tutta l’operazione che portò i Padri conciliari ad approvare le due dichiarazioni Dignitatis Humanae e Nostra Aetate, le quali rivoluzionavano, e, sostanzialmente, scardinavano la dottrina della Chiesa su questioni non solo pastorali, ma altresì teologiche, d’immensa rilevanza; retroscena che permettono d’intravvedere una penetrazione strategica del giudaismo nel cattolicesimo, per iniziativa di membri del B’nai B’rith, o ad esso vicini, e con la mediazione essenziale del discusso cardinale gesuita Augustin Bea (cfr. il nostro precedente articolo È in atto un disegno intenzionale per distruggere la religione cattolica?, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 02/02/2016). Il fatto che Giovanni XXIII lo abbia voluto alla presidenza del Segretariato per la Promozione dell’unità dei cristiani, ossia di un organismo che non esisteva affatto, ma che è stato pensato, voluto e fondato appunto da Bea (il 5 giugno 1960) è già un poco anomalo; se poi si aggiunge che Bea era stato, per molti anni, rettore del Pontificio Istituto Biblico, e che a lui si deve l’abbandono dell’esegesi biblica tradizionale, stabilita da Benedetto XV con l’enciclica Spiritus Paraclitus del 1920, che aveva condannato la teoria delle “apparenze storiche” di padre Lagrange, alla quale, invece, per impulso di Bea, si verificò un “ritorno”, la cosa comincia ad apparire decisamente strana. In pratica, il brusco cambiamento di fronte del cattolicesimo nei confronti del giudaismo, che implicava, oltre tutto, una relativizzazione della verità assoluta di cui la Chiesa si è detta, per duemila anni, depositaria in nome di Gesù Cristo, fu decisa da due persone: papa Giovanni XXIII e il cardinale Bea, strenuo sostenitore dell’amicizia con il giudaismo e, pertanto, della rimozione di qualunque barriera e di qualsiasi ostacolo sulla via di una completa normalizzazione dei rapporto fra le due religioni. Solo che, date le premesse e dato anche il momento storico, non si trattava, né poteva trattarsi, di un incontro paritario, basato sulla buona volontà di entrambi e sulla disponibilità reciproca a dialogare e ad aprirsi, bensì di un mea culpa unilaterale da parte del cattolicesimo, e di una implicita ammissione di responsabilità, da parte della Chiesa, nelle persecuzioni e nelle sofferenze che gli ebrei hanno subito nell’arco di due millenni, culminate nella tragedia genocidiaria sotto il regime nazista. In pratica, riconoscendo che i cosiddetti fratelli maggiori non avevano responsabilità specifiche nei confronti della morte di Gesù Cristo, era come se la Chiesa avviasse e sottoscrivesse il proprio suicidio: tanto per cominciare, sconfessando i quattro Vangeli, dai quali emerge chiaramente che la condanna a morte di Gesù, pur eseguita dai Romani, fu fermissimamente voluta dal Sinedrio e dai capi del popolo giudeo; ma i Vangeli sono il fulcro della Rivelazione e della fede cristiana. Si arriva così all’assurdo: Gesù è stati crocifisso, ma non si sa bene da chi e perché; manca poco che si venga a dire che è morto di raffreddore (cfr. il nostro precedente articolo: Ma quante contorsioni per attenuare il ruolo dei “fratelli maggiori” nella morte di Gesù, pubblicato su Il Corriere delle Regioniil  06/11/2016). Inoltre si getta un’ombra sul Magistero della Chiesa nei confronti del giudaismo, in un immenso arco di tempo (del giudaismo come religione e non degli ebrei in quanto popolo, sia ben chiaro: perché la Chiesa non è mai stata antisemita, sempre ha difeso gli ebrei ingiustamente perseguitati, e anche nella tragedia della Seconda guerra mondiale, incalcolabile è il contributo che essa ha dato per sottrarne alla morte il maggior numero possibile), e si riconosce, sia pure implicitamente, che essa ha una gravissima colpa morale nei loro confronti. E questo senza che il giudaismo abbia mai riconosciuto, a sua volta, i propri torti nei confronti del cristianesimo, non solo per la morte di Cristo, ma anche per la persecuzione dei primi cristiani, a cominciare da santo Stefano, e poi su, lungo i secoli, fino alle invasioni arabe della Siria, della Palestina e dell’Egitto; per non parlare di ciò che autorevoli rabbini ed esponenti della cultura giudaica, sulla scia del Talmud, hanno scritto e detto, anche recentemente, contro il cristianesimo e contro i cristiani, insultando Gesù stesso (il vostro Dio è il diavolo…): cose che nessun esponente della Chiesa cattolica si sognerebbe mai di fare o dire nei confronti di Mosè, o del giudaismo, o di qualunque altra religione, pur riconoscendone le profonde differenze e, in definitiva, l’impossibilità di arrivare ad una qualsiasi forma di “accordo”. Ma questa è la normale dialettica dei distinti, e non ha niente a che fare con l’intolleranza, l’antisemitismo o il disprezzo dell’altro. Il fatto è che per dialogare bisogna essere in due; e bisogna che questi due si trovino in analoghe disposizioni di spirito. Ma se uno dei due è pronto a riconoscere tutte le sue colpe, e anche qualcuna di più, mentre l’altro non ne ammette nessuna; se uno dei due “disarma” e si offre indifeso, mentre l’altro è più che mai pronto a sferrare il colpo mortale, allora si può facilmente immaginare cosa accadrà. Ora, la domanda è: il cardinale Bea e Giovanni XXIII non potevano immaginare nulla di tutto ciò? Eppure, il gesuita messicano Joaquin Saenz y Arriaga, al Concilio, aveva distribuito materiali sui contatti segreti avvenuti fra Bea e il B’nai B’rith. I Padri conciliari, però, non ne tennero conto… Come mai?

 

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