Esistono le guerre giuste?
di Giuseppe Casarrubea


La dottrina di Walzer i paradigmi militari dell’America
di Carlo Ruta


http://casarrubea.wordpress.com
4 marzo 2011

Esistono le guerre giuste?
di Giuseppe Casarrubea

Con il libro “Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dal Vietnam all’Afghanistan”, uscito per i tipi di Mimesis Eterotopie, Carlo Ruta pone una questione centrale nell’era della globalizzazione. Non riguarda, in astratto, i conflitti e la loro natura, le questioni più o meno plausibili che essi sollevano, ma l’analisi critica della teoria di Michael Walzer in una sua opera ormai classica, “Guerra giusta e ingiusta”. Una lettura critica da parte di un intellettuale americano che ha come campo di osservazione l’istituzionalizzazione delle logiche di dominio di un Paese democratico come l’America.

La questione iniziale che Ruta affronta, prende lo spunto dalla necessità di sapere se la dottrina del filosofo politico “sia stata in grado di intercettare, dopo il Vietnam, le istanze dell’America ufficiale”. Ma non solo di questo si tratta. Traspare, già dal titolo, una contestazione di fondo che ha radici umanistiche e legalitarie lontane nel tempo.

L’uomo si è, infatti, sempre interrogato sulle ragioni della guerra e, nel corso della sua storia si è dato risposte sempre compatibili con il suo bisogno di dominio. Alla domanda se sia giusta una guerra, risponde di sì se ciò gli serve. E’ sempre stato così dall’epoca delle caverne alla recente presa di posizione dei paesi occidentali sulla Libia.

Dunque queste prese di posizione evidenziano le varie legittimazioni che della guerra si sono avute nel corso della storia e il dato di fondo che ci possano essere guerre “giuste” laddove la causa che le promuove abbia una sua ragion d’essere nella fede, nella difesa dei modelli di civiltà. Insomma nell’eterna storia paranoica del male contro il bene e nel diritto a ricorrere alle armi in via preventiva, pur di non soccombere.

Ragioni di ordine sottilmente psicologico che hanno fatto le vicende umane dall’epoca dei patriarchi del Vecchio testamento, dai padri della Chiesa ai nostri giorni. Costantino vinse le sue guerre nel segno della Croce e l’Europa conquistò il Nuovo mondo allo stesso modo commettendo atroci stermini.

Stando alle stesse logiche, già alla fine della seconda guerra mondiale, gli Usa hanno avviato un allargamento del loro orizzonte politico, imponendolo a modelli di cultura diversi, utilizzando parametri ideologici. La guerra è stata soprattuto uno scontro della democrazia contro i modelli di dittatura comunista. Il caso del Vietnam è solo un punto di partenza nell’analisi di Walzer, preso in esame da Ruta. Divergente rispetto al comune sentire dell’opinione pubblica che avverte la guerra come “una caduta morale” e comincia a parlare di “guerra sporca”.

Scrive il nostro autore: “Walzer argomenta che la guerra giusta è possibile a determinate condizioni e che la convenzione bellica, lungi dall’essere un inutile orpello, può costituire un espediente razionale per imbrigliare i conflitti fra Stati, allo scopo di ricondurli il più possibile a una dimensione morale”.

E’ un tema, questo, che sollecita diversi altri filoni di lettura. Ad esempio quella dei pacifisti, per i quali la guerra è sempre un crimine. Nel caso della “teoria dell’aggressione”, però, il filosofo americano afferma che gli Stati, di fronte a una guerra di aggressione “godono di due diritti fondamentali: l’integrità territoriale e la sovranità politica”. Spiega così che “l’aggressione giustifica tanto una guerra di autodifesa quanto una guerra di rivendicazione del diritto violato”. E’ il caso della guerra del Terzo Reich nazista, dell’aggressione americana in Vietnam, o dell’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa di Breznev .

In generale, scrive Ruta, gli Stati nella storia hanno sempre potuto giustificare le proprie aggressioni sostenendo i propri diritti e giustificando la guerra con i torti degli altri., fino all’accettazione dell’attacco preventivo, necessario a eliminare la minaccia dell’aggressione. Materia, questa, che trova le sue prime argomentazioni teoriche nella diffusa cultura del giusnaturalismo di epoca secentesca (Ugo Grozio) prima ancora che l’illuminismo desse nuove basi alla nozione del diritto internazionale.

Un vero e proprio prodotto delle società borghesi in ascesa e alla ricerca dei propri fondamenti ideologici e cultuali capaci di rispondere alle situazioni imposte dalla storia contemporanea. E’ il caso di ciò che scrive Walzer a proposito della guerra scatenata da Israele contro i Paesi arabi confinanti, o della dichiarazione di guerra da parte degli Usa contro l’Iraq di Saddam Hussein (2003). A questa data si arriva attraverso un lungo percorso che porta gli Usa di John F. Kennedy a sostenere lo stesso principio dell’attacco preventivo a proposito del conflitto con l’Urss per la questione dei missili atomici a Cuba, alla guerra nel Vietnam, fino ad arrivare all’attacco della Nato nel Kossovo e, nel 2001, all’ Afghanistan.

L’analisi di Ruta è scrupolosa e certosina, probabilmente sollecitata da ragioni umanitarie e dai disastri che si aprono continuamente nel mondo a causa dello scarso potere di dialogo tra i popoli e spesso per l’insufficienza o i ritardi di intervento delle stesse Nazioni unite di fronte a conflitti imprevisti, o cronicizzati. Essa prende in esame una sorta di manuale dei profili giuridici della guerra, smontandone le ragioni più dottrinarie finalizzate a legittimarla laddove questa è sempre un male estremo e irreparabile.

In questo senso trova una sua esatta giustificazione l’azione di guerriglia come “risposta necessaria alle logiche della guerra convenzionale più che alla tradizione della “guerra giusta”. Pur nella sua semplicità, Ruta, insomma, ci dà una riflessione complessa e attuale, specialmente in un tempo, come quello che abbiamo davanti, in cui rivoluzioni e sconvolgimenti vari pongono al centro la questione non solo della legittimità della guerra tra di Stati, ma anche quella delle guerre intestine che stanno travagliando il mondo. Ad esempio quello arabo.

Tema, questo, che l’esame storico ci aiuta a meglio definire, se si pensa al terrorismo algerino contro la dominazione francese, ai vari Fronti di Liberazione nazionale che esistono nel mondo, a cominciare dalla lotta palestinese per la propria terra, dalla guerra di liberazione cubana, condotta da Fidel Castro e Che Guevara contro la dittatura di Batista.

Secondo Walzer le “risposte militari” (ad esempio quelle di Truman contro i giapponesi a Hiroshima e Nagasaki), “furono inopportune e terroristiche, computabili quindi come crimini”, in assenza di una assoluta necessità a fare uso delle bombe atomiche. “Le ragioni di Walzer nell’argomentare in negativo – scrive Ruta- si possono ben comprendere. Dovrebbero essere resi ammissibili, se non legittimi, atti militari che ripugnano alla coscienza, laddove siano derivanti da uno stato di necessità”. Anche nel mutato quadro globale la dottrina di Walzer resta coerente con se stessa. Anzi. Scrive l’autore del libro:

“Nella mutata situazione geopolitica, la dottrina di Walzer fa scuola del resto ben oltre i confini dell’establishment. […] Norberto Bobbio giustifica la guerra all’Iraq del 1991, ritenendola una articolazione della legittima difesa del Kuwait, e, seppure con dei distinguo, quella portata dalla Nato alla Serbia di Milosevic a fine decennio. In definitiva è giusta per il filosofo torinese la guerra che viene combattuta in difesa di valori umani universali, che sia finalizzata comunque a una pace positiva retta sulla giustizia”. Dal canto suo, Jürgen Habermas, fatto proprio il medesimo paradigma, sostiene che la democrazia in determinate emergenze si possa imporre coattivamente. Suggerisce quindi la formazione di forze armate neutrali di pronto intervento, una sorta di polizia internazionale, capace di valutazioni imparziali e misurate.”

Necessità, questa, dettata dall’insorgenza del terrorismo internazionale, dopo l’attentato alle Torri gemelle, l’11 settembre 2001. Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizza attacchi preventivi, quando ciò si rende necessario. Ma sono gli Usa, soprattutto, a modulare una cultura bellicista i cui riflessi sono visibili nei nuovi linguaggi messi in campo dalla diplomazia internazionale. Se una guerra è giusta sono anche accettabili gli “effetti collaterali” che comportano stragi di civili, le azioni di presidio delle aree di guerra diventano “missioni umanitarie”, e le “rappresaglie” le risposte immediate ad atti terroristici. Il fine della guerra giusta, differente, nota Ruta, a livello di popolazioni coinvolte e di politiche statali, diventa comunque una sorta di dovere etico giustificato, per le masse popolari, dal consenso verso una visione morale della guerra, nonché dalla valutazione del “non essere morti invano”, ma per una causa che consegna ai posteri un qualche beneficio.

Le logiche aggressive della guerra inducono così a trattare l’intervento militare sotto ben altri profili. Come quando – rileva Ruta – gli Usa, tra il 1950 e il 1953 intervennero contro la Corea del Nord, ponendosi come obiettivo “la totale distruzione del regime nord-coreano.

La dottrina della guerra giusta è esposta da Walzer in Wars dove si pongono le condizioni per l’attacco bellico preventivo. Fatto che si può scatenare con la messa in atto del “primo colpo” a fronte di attività concrete da parte del nemico quali la mobilitazione delle truppe, le alleanze militari, le incursioni, ecc. Giustificazioni che il sociologo americano trae dalla guerra dei sei giorni condotta da Israele. Da qui Walzer esorbita dalla casistica storica. E giunge a un punto inequivocabile costituito da un limite proprio del “giocare d’anticipo per scompigliare le carte” del nemico. E’ il caso, ad esempio, dell’attacco preventivo e unilaterale mosso, però, da “una serie di artifici dall’amministrazione Bush”. Scrive l’autore:

“Era stato detto che, per la tutela degli interessi americani, era necessario scoprire e distruggere l’arsenale chimico del regime iracheno, risultato in realtà inesistente. A tale fase, che echeggia l’utilitarismo classico, è seguita tuttavia quella di un più mirato tornaconto, in chiave affaristica, testimoniata dalle trattative, largamente pubbliche, che hanno avuto luogo per la divisione del bottino della ricostruzione. La terza fase, che ammicca appunto al silenzio della morale, è quella degli abusi nella caserma di Abu Ghraib, dei turisti che ricercano emozioni nei luoghi del conflitto, dei magnati statunitensi e di altre nazioni che si fanno fotografare in posa da safari, attorniati da mercenari e bodyguards”.

Da qui la domanda che percorre tutto il libro di Ruta: è ammissibile una guerra giusta? Quella, insomma che Walzer definisce nei limiti dell’”estrema ratio”? La risposta è il dubbio. O meglio la soggettività della coscienza di chi è preposto ad intervenire.

Ma la risposta più saggia è una sola: le guerre sono sempre ingiuste. E per un fatto semplicissimo: sono il risultato dell’incapacità degli uomini a risolvere a monte i problemi posti dai conflitti.

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La dottrina di Walzer i paradigmi militari dell’America
di Carlo Ruta

Il docente statunitense Michael Walzer, autore di Just and Unjust wars, sostiene che, dopo il secondo conflitto mondiale, la realtà della guerra giusta costituisce un dato incontrovertibile, per essere attestato come tale dalle generazioni che possono esprimersi con cognizione di causa. E che egli rimanga di questo avviso lungo i decenni è provato dal fatto che in tali termini si esprime ancora in una prefazione di Wars del 2009, in cui si legge: «Nessuno che sia cresciuto durante la seconda guerra mondiale, com’è il mio caso, può dubitare dell’esistenza di guerre giuste, oltre che ingiuste». In realtà in un tale approccio, presentato come oggettivo, fosse pure condiviso dalle generazioni che hanno vissuto gli orrori di quella guerra, ed è improbabile che lo sia in modo unanime, non può esserci nulla di assodato. Se fosse penetrato infatti nella coscienza dell’epoca come evidente in sé e per sé, non ci sarebbe bisogno di fiumi di parole per riscontrarlo. Lo stesso lavoro di Walzer, che riabilita un vecchio paradigma, adattandolo ai tempi, dimostra in sostanza che nel concetto di guerra giusta non c’è nulla di assiomatico. Da dove muove allora, realmente, il discorso del docente americano? Quale potrebbe esserne il significato autentico?

Walzer spiega in apertura che il discorso scaturisce dal moto di coscienza suscitato dal Vietnam, quale modello di guerra da condannare. Egli può esserne convinto, ma è difficile che sul piano sostanziale le cose stiano in questo modo. Come annotato, il Vietnam per numerosi intellettuali ha costituito la via maestra per giungere a posizioni di netto rifiuto della guerra, quale strumento per risolvere i contenziosi fra nazioni[1]. La medesima cosa era avvenuta del resto dopo il secondo conflitto mondiale, quando, oltre il processo di Norimberga celebrato dalle potenze vincitrici, la discussione, pure giuridica, veniva portata oltre le nozioni di giusto e ingiusto, fino a riguardare la liceità stessa dei conflitti militari. Non è un caso che a quel punto in diverse Costituzioni, inclusa quella italiana, esordisse fra i principi fondamentali il rifiuto della guerra. Nella sua cruda oggettività, fatta appunto di circa tre milioni di morti di cui i due terzi civili, il Vietnam ha offerto la rappresentazione aggiornata dei danni che sono propri dei conflitti armati. E come tale è stato percepito da strati significativi dell’opinione pubblica, in tutti i continenti. Il discorso di Walzer sulla guerra giusta reca allora una matrice più complessa, che se in superficie può trarre degli spunti dal conflitto appena concluso, in profondo potrebbe richiamare i trascorsi civili e militari dell’America reale, il dibattito strategico, i corsi della politica.

Nel background dell’America reale, dopo lo scontro vinto con la Germania nazista, inteso suggestivamente dal generale Eisenhower come la «crociata in Europa», c’è la guerra fredda, che quando Walzer congeda alle stampe Wars dura da un trentennio. C’è altresì la Corea, che il docente statunitense, facendo propria la linea delle amministrazioni civili e militari, considera tutto sommato una guerra contenuta. In tale passato c’è ancora la crisi dei missili di Cuba del 1962, che ha rischiato di tradursi in un conflitto nucleare. C’è infine la presunzione strategica, tale da permeare la vita ufficiale degli States, di essere custodi e garanti di valori di rilievo universale, perennemente minacciati. Si tratta di definire allora quanto un tale background abbia potuto ispirare, realmente, la dottrina di Walzer, soprattutto sotto il profilo della guerra preventiva, che, correlandosi in modo strutturale con l’emergenza suprema, è di fatto il telaio oltre che il filo conduttore della medesima.

Già nell’immediato dopoguerra, ma tanto più nel pieno degli anni cinquanta, quando l’URSS stabilizzava i propri progetti di potenza atomica, un tema seriamente considerato dagli alti comandi del Pentagono per contrastare la minaccia capitale che essi avvertivano nella Russia sovietica, e quella nascente della Cina comunista, era quello del preemptive strike, di un attacco nucleare a scopo preventivo. Fautore di tale linea era soprattutto il generale Douglas MacArthur, che da comandante delle forze statunitensi nella guerra di Corea nel 1951, prima di essere destituito per insubordinazione, era giunto a proporre a Truman un attacco atomico contro la Cina. In nessuna occasione l’intenzione si è tradotta in realtà. Negli anni dell’amministrazione Eisenhower si affermava invece, sostenuto dal segretario di Stato John Foster Dulles, il principio della massive retaliation, che prevedeva l’impiego di armi atomiche nel caso in cui l’URSS avesse sferrato un attacco convenzionale. E nel decennio successivo il paradigma nucleare veniva subordinato al principio, sostenuto dal generale M. D. Taylor, di «reazione flessibile», puntato sull’impiego strategico delle armi convenzionali. La dottrina dell’intervento preventivo, che pure ha ispirato in qualche modo la condotta dell’amministrazione Kennedy nei frangenti della crisi di Cuba dell’ottobre 1962, è tuttavia rimasta sullo sfondo, per esprimersi in forma mimetica nelle situazioni ritenute di particolare criticità, attraverso operazioni segrete, civili e militari. Rientrano in tale logica fatti come la deposizione di Mohammad Mossadeq in Iran nel 1953, la deposizione del presidente Jacopo Arbenz in Guatemala nel 1954, l’attacco militare a Cuba tentato da un esercito di 1500 mercenari nel maggio 1961.

Non c’è ragione beninteso per ritenere che tutto questo abbia a che vedere con le intenzioni di Walzer, che si possono supporre invece prive di sostanziali ambiguità. È però possibile avvertire in Wars l’eco di una certa America, con i suoi timori e le sue pretese. Non è facile dedurre la supreme emergency, che segna il culmine dell’elaborazione, dalla guerra in Indocina, se non all’incontrario: nella condizione delle città e dei villaggi vietnamiti sottoposti agli attacchi americani, mentre può essere ben dedotto tale argomento dagli allarmi strategici che in America sono stati alimentati dalla guerra fredda. Un altro aspetto che merita di essere considerato è l’attenzione particolare che il docente americano riserva allo Stato di Israele, coerente peraltro con l’atteggiamento di amicizia che, sin dal dopoguerra, l’America ufficiale ha mantenuto verso il medesimo. Israele, che sin dal 1947, quando ancora doveva nascere ufficialmente, ha dovuto fare i conti con l’ostilità dei palestinesi e dei paesi arabi vicini, ha gestito le proprie necessità territoriali con parecchi atti di forza. Ha dovuto adattarsi quindi a uno stato di conflitto permanente che se nella «normalità» si è espresso in una escalation di atti terroristici e di rappresaglie, ugualmente terroristiche, in alcuni momenti particolari, come nel 1956, nel 1967 e nel 1973, si è tradotto in guerra aperta. E anche tale vicenda echeggia nel discorso di Walzer.

L’emergenza suprema, con i suoi correlati, costituisce in definitiva un motivo caratterizzante dell’epoca, se non il più influente. Il docente di Princeton non inventa perciò nulla, riflettendo bensì l’America effettiva, che «sbaglia» in Vietnam e che tuttavia si erge a garante del bene di tutti. Egli interpreta altresì, per certi aspetti, le ansie di un piccolo paese, Israele appunto, che, nel perenne stato di mobilitazione in cui vive, offre argomenti e motivazioni non solo al nazionalismo arabo, passato dopo Nasser di riflusso in riflusso, ma pure all’islam fondamentalista. Vaga e tormentata, l’elaborazione di Walzer finisce con il trovare allora nel contingente una propria necessità, riproducendo in forma mimetica i temi del realismo militarista, per divenire, allo snodo dei primi anni zero, la dottrina ufficiale dell’America.

 

[1] Nei decenni successivi, con il mutare degli scenari geopolitici, non pochi hanno riveduto le loro posizioni. Si è detto di Habermas e Bobbio. Un iter analogo ha seguito Ignatieff. In quegli anni, comunque, il moto di coscienza è andato declinandosi di massima in quel modo.

Brano tratto da: Carlo Ruta, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dal Vietnam all’Afghanistan, pp. 72, Mimesis Edizioni, Milano.

Per info: Mimesis Edizioni

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