http://www.huffingtonpost.it
20/08/2013 12:53

La terza fase delle rivoluzioni arabe
di Gilles Kepel

Quella che si sta verificando oggi in Egitto è la terza fase delle "rivoluzioni arabe". In un primo momento, alla fine del dicembre 2010, l'immolazione con il fuoco di M. Bouazizi a Sidi Bouzid in Tunisia ha permesso di rovesciare i regimi autoritari in Tunisia, in Egitto e in Libia.

In seguito questo processo è sfociato in una seconda fase in Tunisia e in Egitto, con le prime elezioni libere vinte dai Fratelli Musulmani e dai loro affiliati, che erano la forza organizzata più coerente e beneficiavano dell'aura del martirio, a causa della repressione subita dai dittatori decaduti.

Dopo più di un anno al potere, oggi i Fratelli Musulmani sono oggetto di una reazione causata dalla loro incompetenza nel governare e al tempo stesso dai disegni politici che gli avversari gli attribuiscono: infiltrarsi negli Stati e rimanervi per sempre, con un processo paragonabile a quello dei nazisti in Germania nel 1933 e dei comunisti in Cecoslovacchia nel 1948. È la terza fase.

Lo "scontro di civiltà" tra sciiti e sunniti

Ma bisogna ricordare che ci sono state altre tre rivoluzioni arabe che hanno seguito strade diverse. E questo per via dell'estrema prossimità dei paesi in cui si svolgevano e per quella che nel mondo arabo rappresenta la posta in gioco più importante a livello internazionale: la capacità di esportare quotidianamente un quarto degli idrocarburi che il pianeta consuma.

•In Bahrein, la rivoluzione scoppiata il 14 marzo 2011 è abortita un mese dopo per l'intervento delle forze del Consiglio di cooperazione del Golfo, guidato dall'Arabia Saudita, con il pretesto che, siccome la popolazione del Bahrein è a maggioranza sciita, una rivoluzione vittoriosa trasformerebbe questo paese nel predellino dell'Iran.

•Nello Yemen, vicino meridionale dell'Arabia Saudita, popolato da 25 milioni di abitanti che vivono in condizioni di povertà assoluta e che rappresenta un grave rischio di sicurezza per i produttori di petrolio, la rivoluzione yemenita di fatto è stata soffocata dai petroldollari e dalle dinamiche della divisione in clan.

• Infine, la rivoluzione siriana si è tradotta in una guerra civile. Essa oppone da una parte la società civile contro la dittatura di Al Assad, la maggioranza sunnita della popolazione contro una coalizione di minoranze (alawiti, cristiani, drusi, curdi, ecc., oltre ad alcuni sunniti) lungo una linea di faglia che attraversa il Medio Oriente e di cui la Siria è diventata l'epicentro.

È lo "scontro di civiltà" tra sciiti e sunniti che oppone da una parte una "mezzaluna sciita" diretta da Teheran e che si appoggia all'Iraq di Maliki, la Siria di Assad, Hezbollah e le popolazioni sciite della costa araba del Golfo.

Dall'altro lato, un fronte sunnita i cui leader principali erano l'Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia e l'Egitto. Ebbene, oggi, con l'esplosione dell'Egitto, il più grande paese sunnita del Medio Oriente che conta più di 90 milioni di abitanti, il blocco sunnita si trova anch'esso profondamente scisso.

Al fianco del governo egiziano ad interim che ha preso il potere dopo le manifestazioni di massa del 30 giugno, destituendo il 3 luglio il presidente Morsi eletto dai Fratelli Musulmani, e che trova il suo uomo forte nel generale Sisi, c'è l'Arabia Saudita, in cui il re in persona - fatto estremamente raro - ha pronunciato una dichiarazione pubblica a sostegno dell'esercito egiziano "in lotta contro il terrorismo". E ci sono anche gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, la Giordania.

Sul fronte opposto, accanto ai Fratelli Musulmani, si trova il primo ministro turco Erdogan, in prima linea nella difesa dei suoi compagni islamisti del Cairo, insieme al Qatar, che all'epoca del vecchio emiro era il principale sponsor dei Fratelli Musulmani in Siria, Tunisia, Libia e altrove, e offriva al movimento la sua principale piattaforma mediatica mettendo il canale Al Jazeera al servizio della sua conquista del potere. Il sostegno del Qatar resta effettivo per ragioni strutturali, ma è diventato meno esplicito da quando è salito al potere il nuovo emiro, Tamim. La posizione di suo padre, che sponsorizzava al contempo i Fratelli Musulmani e il Paris Saint-Germain, le associazioni musulmane delle periferie francesi e gli islamisti siriani più radicali, aveva reso la situazione del Qatar insostenibile a livello internazionale, per un paese certo ricchissimo ma che conta solo 200.000 qatarioti e non può permettersi di moltiplicare gli antagonismi.

Due Egitti

Quel che accade oggi in Egitto è completamente inedito per tutti coloro che, come me, conoscono questo paese o ci hanno vissuto qualche decina d'anni fa.

È sempre prevalsa la tendenza a ritenere che, al di là delle disparità sociali o le differenze confessionali tra copti e musulmani, l'Egitto aveva una sua unità, una sua "personalità". Una coesione e un'omogeneità del popolo che renderebbe impossibile uno scenario "levantino" alla siriana, che si è manifestato anche in Libano e in Iraq, paesi che negli anni Settanta sono piombati in guerre civili a base confessionale o etnica.

Eravamo convinti che in Egitto prevalesse l'unità. Ora, gli eventi maturati insieme al decorso della presidenza Morsi hanno rivelato un divario incommensurabile tra due Egitti. Quello che sosteneva i Fratelli Musulmani e quello che li osteggiava.

Questo fenomeno non era mai affiorato prima d'ora. In effetti, lo stesso Morsi aveva potuto ottenere la maggioranza dei voti, pur di stretta misura, alle presidenziali del 2012. Grazie alla sua consueta base elettorale, a cui si erano aggiunti i voti di un buon numero di democratici e rivoluzionari che non erano affatto islamisti ma preferivano la barba di Morsi all'uniforme militare, dopo 16 mesi di transizione tra l'uscita di scena di Mubarak e l'elezione di Morsi, in cui il Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) aveva gestito con notevole brutalità la repressione dell'opposizione dei laici o dei copti, i quali manifestavano perché la televisione non raccontava delle chiese bruciate dai salafiti.

Così, in Egitto si è visto che lo slogan intonato l'indomani della caduta di Mubarak, "L'esercito e il popolo sono una mano sola", nel 2012 si è trasformato in "Abbasso il potere dei militari". Morsi non ha voluto tenere conto del carattere composito del suo elettorato, e a coloro che l'avevano eletto perché odiavano i militari ha dato l'impressione che la confraternita di cui era solo uno strumento - la "ruota di scorta", come veniva soprannominato all'epoca della campagna elettorale - volesse infiltrarsi nello Stato e impossessarsene per sempre.

Così facendo, Morsi e i Fratelli Musulmani hanno attirato e cristallizzato contro di sé il malcontento di una metà dell'Egitto di cui attualmente non è dato di sapere se sia maggioritaria o minoritaria, ma che in ogni caso, scendendo in piazza il 30 giugno, ha dimostrato che il paese è ormai diviso in due.

Ora, di fronte alla destituzione di Morsi, i Fratelli Musulmani, che esistono dal 1928 e hanno trascorso gran parte della loro esistenza in clandestinità, e hanno costruito una contro-società radicata negli strati più profondi del tessuto sociale egiziano - talvolta con il favore dei regimi, come quello di Sadat, che si appoggiava a loro per combattere la sinistra - hanno una notevole capacità di contrasto.

Oggi, le due metà antagoniste dell'Egitto sono capaci di ostacolarsi a vicenda, e c'è da temere che nessuna delle due sia in grado di imporre la propria volontà in un contesto polarizzato in cui l'esercito non ha esitato a fare ricorso alle armi in una settimana in cui probabilmente sono rimaste uccise un migliaio di persone.

Tutto lascia pensare che i gruppi armati che sono andati formandosi tra le fronde marginali dei Fratelli Musulmani ricompariranno, e questo processo reca in sé i fermenti di una guerra civile. Bisogna anche ricordare che l'Egitto moderno, quello di Nasser, si è costituito nel 1954 debellando i Fratelli Musulmani, i cui esponenti di punta sono stati mandati al patibolo, altri in galera, e quelli che potevano hanno preso la via dell'esilio. Del resto è proprio nelle prigioni nasseriane che l'ideologo più estremista, Sayyid Qutb, giustiziato nel 1966, ha scritto il manuale dell'islamismo radicale, "Indicazioni".

Verso una guerra civile?

Jean Marcou ha ragione quando sottolinea che l'Egitto non è la Siria. Tuttavia, resto molto colpito quando apprendo quel che oggi si dice, si scrive, in arabo su un fronte e sull'altro in Egitto.

C'è una violenza verbale che dall'inizio delle rivolte arabe non avevo mai sentito, se non in Siria. Ma a differenza della Siria, in cui è il combustibile religioso ed etnico ad alimentare la guerra civile, lo scontro in Egitto è innanzi tutto una sorta di Kulturkampf [guerra culturale], che vede schierati gli islamisti da un lato e quelli che gli si oppongono dall'altro. E in questo senso ciò che accade in Egitto è il punto parossistico di un conflitto esistenziale sul futuro delle società arabe e sul posto che vi occuperà la religione, un conflitto che si ritrova oggi in Libia, in Tunisia e in Turchia.

D'altronde è proprio questo che spiega la virulenza del primo ministro turco Erdogan, proveniente lui stesso da una filiazione dei Fratelli Musulmani, il quale, oltre a offrire sostegno ai suoi fratelli egiziani, reagisce con la forza alle difficoltà che incontra nel proprio paese, da quando i democratici e i laici turchi che avevano votato per l'Akp perché mossi dall'odio per un esercito kemalista che consideravano fascistoide oggi sono ossessionati dall'idea che Erdogan diventi un dittatore islamista, come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di giugno in piazza Taksim.

In Tunisia, dove il partito Ennahda è membro di una coalizione che comprende partiti non-islamisti e dove gli antagonismi sono meno spiccati che in Egitto, la sequenza di assassinii di personalità laiche - come l'avvocato Chokri Belaïd e, il 25 luglio, Mohamed Brahmi, deputato di sinistra di Sidi Bouzid, luogo di nascita delle rivoluzioni arabe - perpetrati da salafiti radicali (il cui principale indiziato è un franco-tunisino nato e cresciuto nel 19° arrondissement di Parigi), indicano anch'essi che questo scontro culturale è parte integrante della terza fase delle Rivoluzioni arabe. Questo induce a interrogarsi a fondo sui loro sviluppi.

La decisione del ricorso alla forza per cacciare i partigiani di Morsi che occupavano due piazze del Cairo è stata presa dopo il fallimento delle mediazioni internazionali, avviate principalmente per iniziativa degli Stati Uniti.

Per quanto ne sappiamo, il generale Sisi, Ministro della Difesa, Capo di stato maggiore e uomo forte del governo ad interim, capo di un esercito che beneficia di aiuti americani per 1,3 miliardi di dollari all'anno, ritiene che la distruzione dei Fratelli rappresenti una sfida esistenziale.

In questo è confortato dal fatto che dopo il 3 luglio le petromonarchie che si oppongono ai Fratelli (in particolare l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti) hanno offerto all'Egitto 12 miliardi di dollari, ovvero quasi 10 volte l'aiuto americano, per annientare i Fratelli Musulmani.

Sauditi e Emirati li percepiscono in egual misura come una minaccia vitale. In questo contesto il dato che colpisce - più ancora che in Siria, paese che tradizionalmente cade sotto l'influenza russa - è che in Egitto, che dai tempi di Jimmy Carter e gli accordi di Camp David è diventato il principale alleato degli Stati Uniti nel Vicino Oriente insieme a Israele, si ha la sensazione che in Egitto gli Stati Uniti (come Ue e la Francia, ammesso che ancora abbiano un ruolo nella regione), per via della loro politica confusionaria, non abbiano più amici.

Il governo egiziano ha ricusato le critiche pronunciate da Obama contro la repressione. Quanto ai Fratelli Musulmani, sostengono che la mano invisibile che li sta schiacciando sia un complotto "crociato-sionista".


Gilles Kepel ha pubblicato Passion arabe per le edizioni Gallimard, opera nella quale dedica ampio spazio agli sviluppi della situazione egiziana dopo le prime rivolte di piazza Tahrir.

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