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24-03-14 - n. 491
31-03-14 - n. 492

Rapporto della Commissione relazioni internazionali del Partito Comunista Libanese sulla situazione politica in Libano e nella regione araba
di Marie Nassif-Debs
Segretario generale aggiunto del PCL e responsabile delle Relazioni internazionali
Traduzione del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Le ripercussioni del conflitto tra Stati Uniti e Russia,
o meglio, come dividere le zone d'influenza e i mercati

Introduzione

Gli sviluppi economici sul piano internazionale lasciano presagire che la crisi capitalistica non sia prossima a risolversi, malgrado tutte le misure adottate dal 2008 per uscirne. Così, mentre certi rapporti pubblicati dalle autorità economiche internazionali, tanto negli Stati uniti che nell'Unione europea, tentano di portare un po' di ottimismo diffondendo l'idea dell'imminenza del superamento della crisi, la situazione reale ci restituisce un'immagine completamente differente. Difatti, l'aumento degli stipendi dei funzionari del settore pubblico negli Stati uniti non è stata di alcuna utilità né per l'economia vacillante né per il dollaro; parimenti, i problemi di cui soffre l'Unione europea non stanno per essere riassorbiti, a cominciare dalla disoccupazione e dall'impoverimento, per arrivare ai fallimenti, non più limitati alle sole grandi aziende, giacché colpiscono il settore delle Pmi. Tutto ciò costituisce una minaccia concreta alla classe media che, fino ad oggi, è stata la valvola di sicurezza dei regimi capitalistici europei.

In questo contesto di crisi non risolvibile a breve termine, i conflitti tra le potenze capitaliste per spartirsi il mondo vanno acuendosi, a cominciare dalle guerre che mirano alle fonti di energia per finire con quelle per i mercati. Questi conflitti toccano tutti i continenti. Attualmente, l'ultimo per data è rappresentato dalla crisi ucraina, preceduta dai complotti orditi contro il Venezuela, che l'imperialismo statunitense tenta di riprendersi, ed accompagnata da un'escalation senza precedenti in tutta la regione araba, nel Magreb [occidente] e nel Mashreq [oriente], per arrivare fino all'Iran e all'Afghanistan.

L'aggressione statunitense all'Europa dell'est, come in Medio oriente e in America latina, mira ad instaurare un nuovo stato di fatto che impedisca al nuovo polo internazionale, diretto dalla Russia, di cambiare a proprio vantaggio gli equilibri internazionali. Tanto più che questo polo comincia a fare concorrenza a Washington non solo nelle sue zone di influenza, come il Medio oriente, ma anche in casa poiché il Brasile si è unito ai "BRICS" e numerosi paesi latino-americani come Cuba, Venezuela, Ecuador e anche il Cile, si avvicinano a questo nuovo polo. E' la ragione per cui Washington ultimamente ha deciso una "apertura" verso l'Iran, dimenticando il "pericolo" costituito dal nucleare iraniano, che va in senso contrario alla politica perseguita contro il presidente Nicolas Maduro, attraverso le forze reazionarie venezuelane. E' anche la ragione per cui è stata riaperta la battaglia che mira a integrare l'Ucraina nell'Unione europea e nelle forze Nato, per stringere il blocco contro la Russia federale, già previsto all'epoca delle battaglie svoltesi qualche anno fa in Georgia, Abcasia e Ossezia.

Questa situazione di conflitto e di crisi ricorda da molto vicino - come abbiamo spesso ripetuto - quella del mondo agli inizi del XX secolo, che sfociò nella Prima guerra mondiale, con tutto quello che generò in termini di guerre coloniali, calde e fredde. Nel prepararci a commemorare il centenario di questa guerra criminale, vorremmo riportare alla memoria ciò che accadde durante questo periodo e ricordare inoltre che il capitalismo, che aveva perduto molto del suo peso tra gli anni Venti e Cinquanta del secolo scorso, è stato in grado di recuperare gran parte del terreno perduto dopo l'implosione dell'Unione sovietica e quello che ne seguì in termini di arretramento del movimento antimperialista.

La posizione delle potenze regionali nel conflitto

Il Medio oriente occupa oggi il primo posto nel conflitto che oppone i diversi poli capitalistici per il controllo delle fonti energetiche e delle rotte di trasporto di petrolio e gas. Inoltre, con l'estensione del conflitto russo-americano per il controllo del mondo, ad alcune potenze regionali sono toccati nuovi ruoli, in particolare a Israele, Turchia, Iran e Arabia saudita.

1 - Israele

Durante l'ultimo decennio, Israele ha visto diminuire d'importanza il suo ruolo nella regione, a causa sia della diretta presenza militare degli Stati uniti e della Nato, che in seguito alla cocente disfatta delle sue truppe in Libano (2006). Oggi però riguadagna importanza divenendo nuovamente la punta di lancia dell'imperialismo, non solo nel mondo arabo ma in tutto il Medio oriente. Va detto che gli Stati uniti hanno sempre più bisogno di Israele nelle missioni economiche e politico-securitarie in Africa, a cominciare dalla regione sudanese del Darfur e anche di alcuni paesi del Magreb arabo. Non dimentichiamo però il ruolo svolto dal Mossad israeliano in numerosi paesi latino-americani, e nel Venezuela in particolare. Del resto, alcuni centri studi statunitensi hanno di recente pubblicato dei rapporti che suggeriscono come il nuovo ruolo accordato a Israele derivi dal fatto che, malgrado la parziale normalizzazione delle relazioni tra Washington e Teheran, gli Stati uniti non hanno eliminato definitivamente la possibilità di ricorrere ad un'azione militare, fatto questo che rafforza la posizione di Tel Aviv nel nuovo schema mediorientale. Quanto al suo ruolo in Africa, questi stessi rapporti aggiungono che esso andrà aumentando, non solo in Darfur e in Libia, ma anche nella parte meridionale dell'Africa.

Aggiungiamo infine che questo ruolo preponderante, tanto in Africa che in Medio oriente, che sta alla base del progetto dell'amministrazione Usa (presentato da John Kerry da circa sei mesi), mira a liquidare la causa palestinese e ad erigere "Israele, lo stato degli ebrei nel mondo".

2 - Turchia

Per contro, e col ritorno di Israele in prima fila sulla scena mediorientale, il ruolo della Turchia arretra un po'. Difatti, gli Stati uniti avevano, in seguito all'insuccesso delle aggressioni israeliane contro il Libano e Gaza, dato alla Turchia un posto fondamentale nella loro politica per la regione, sia nell'affare del gasdotto "Nabucco" che riguardo la presa in carico dell'opposizione siriana. Ma la delusione è cresciuta molto rapidamente, perché la politica interna condotta da Erdogan e dal suo partito ha creato un grande movimento di malcontento di cui hanno beneficiato altre fazioni della borghesia turca, più specificamente il Movimento Gülen, che hanno saputo approfittare di questo movimento per provare a sbarazzarsi degli islamici "moderati" al potere, senza un reale cambiamento nella posizione o nel ruolo della Turchia.

E così mentre oggi Erdogan, attraverso un tentativo di avvicinamento con l'Iran, tenta di minimizzare gli effetti della crisi economica che spazza la Turchia e di cui il suo governo è primo responsabile, tutte le previsioni dimostrano, a meno di un miracolo, che il suo progetto di riprendere le redini del potere si concluderà con un insuccesso.

3 - Iran

Quanto all'Iran, e contrariamente a quelli che avevano visto nella vittoria di Rouhani una virata verso una politica di "temperanza", bisognerà scorgere nel risultato, un po' sorprendente, delle elezioni presidenziali due obiettivi inseguiti tanto dai cosiddetti "riformatori" che dai seguaci della "guida della rivoluzione", Khamenei. Il primo riguarda i movimenti di protesta, che si sono moltiplicati e ai quali era necessario porre velocemente un termine. Il secondo ha rapporto con la necessità di trovare una soluzione che possa far cessare la crisi economica o quantomeno attenuarla. Quindi, il "cambiamento", sia politico che economico, sopraggiunto in Iran va nel senso degli interessi dell'alleanza di classe tra la borghesia iraniana ed i mullah, e il suo primo risultato è "l'Accordo di Ginevra" per una soluzione amichevole al problema del nucleare iraniano e senza rievocare, da vicino o da lontano, l'arsenale nucleare israeliano. A conferma di ciò va ricordato che alcune settimane prima Israele aveva ottenuto un'altra vittoria con la decisione internazionale di distruggere l'arsenale di armi chimiche siriane senza toccare le armi dello stesso genere da esso possedute.

4 - Arabia saudita

L'Arabia saudita ha ritrovato, per decisione statunitense, il suo ruolo di stato influente nella regione, ruolo contestato per molti anni dalla concorrenza qatariota. Oramai è tornata ad essere uno dei "grandi elettori" rispetto a Siria e Libano, sebbene certi analisti pensino che l'avvicinamento tra Washington e Teheran la avrebbero in certa misura allontanata dalle questioni decisive. Ecco perché la prima azione è stata un cambiamento radicale nelle posizioni dirigenti dei membri della famiglia reale. Questo cambiamento aveva lo scopo di fermare ogni aiuto fornito ai terroristi "jihadisti" che certi emiri avevano supervisionato.

Bisogna anche dire che questi cambiamenti nei ruoli sono soprattutto cambiamenti formali il cui scopo è di preservare i regimi politici di tali paesi, caratterizzati da una parte dall'obbedienza verso l'estero, e dall'altra da un oscurantismo religioso e confessionale. Ciò sta a significare che questi stati regionali non sono molto differenti, ma al contrario la loro particolarità confessionale (sunnita o sciita) e il loro modo di produzione offrono le basi oggettive alla realizzazione del progetto denominato "Nuovo Medio oriente" il cui scopo è di inasprire i conflitti religiosi, confessionali ed etnici per consentire all'imperialismo la spartizione dei paesi arabi e mediorientali in stati religiosi convenienti al progetto israeliano di erigere uno stato degli ebrei nel mondo al posto della Palestina.

La situazione araba: dalle rivoluzioni alle guerre mondiali

Nel momento in cui le grandi potenze internazionali tentano di riorganizzare il mondo secondo i loro interessi, la regione araba, tre anni dopo le sollevazioni e le rivoluzioni che hanno scosso Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Kuwait e le sopraggiunte crisi in Siria e Libano, vive cambiamenti politici molto importanti ma notevolmente pericolosi.

Difatti, da un lato, gli slogan branditi dalle due rivoluzioni sopraggiunte in Tunisia ed Egitto, soprattutto nella seconda fase della rivoluzione egiziana, quella del 3 giugno 2013, sono stati la risposta diretta al "progetto del Nuovo Medio oriente" ma anche ai tentativi di sfaldamento dell'Iraq. Questi slogan hanno attirato, dovunque nel mondo arabo, larghe masse popolari che hanno occupato le strade, rivendicando la creazione di governi antimperialisti in grado di sradicare povertà e sottosviluppo, liberando dalle mani degli imperialisti, da quelli statunitensi in particolare, le ricchezze arabe provenienti dalle fonti energetiche. In più, le masse arabe hanno chiesto la fine dei regimi borghesi che nel corso di lunghi anni hanno utilizzato le guerre e le divisioni religiose per preservare i loro regimi dal cambiamento. Bisogna notare a questo riguardo la caduta veloce e rovinosa del regime dei "fratelli musulmani", prima in Egitto e poi in Tunisia, e il cambiamento che ne è seguito sui due piani politico e costituzionale... ma anche l'importanza crescente del ruolo giocato dal movimento operaio e popolare, all'ombra dei fronti politici dalla portata progressista e con programmi di cambiamento radicale.

Tuttavia questi successi non hanno impedito, da un altro lato, alle forze controrivoluzionarie di proseguire nella loro opera di distruzione. Malgrado le sconfitte, infatti, queste forze non hanno abbassato le armi ma portato avanti le loro azioni attraverso la violenza e il terrorismo, come in Egitto, o attraverso le forze religiose estremiste che dappertutto nel mondo, e particolarmente dai paesi europei, convergono nella regione araba sotto gli slogan "jihadisti". Loro scopo è di reinsediarsi al potere e restaurare i regimi politici caduti. Tutto ciò per continuare a servire il progetto imperialista basato sulla divisione, il caos, seminando distruzione e morte al loro passaggio. Gli esempi attualmente più evidenti sono quelli del Bahrein e soprattutto dello Yemen, diviso in vilayet [province amministrative in cui era diviso l'Impero Ottomano, ndt] di cui alcuni ubbidiscono ad Al Qaeda. C'è anche l'esempio del sud della Libia, continuamente lacerata, che le potenze imperialiste minacciano di devastare sotto il pretesto di mettere fine al terrorismo da loro creato all'epoca dell'intervento contro Gheddafi.

C'è soprattutto la Siria, che rischia di crollare a seguito delle distruzioni e del massiccio sfollamento delle popolazioni civili. E quando parliamo della Siria, abbiamo in mente i paesi circostanti, il Libano in particolare, che subisce due flagelli: in primo luogo, quello dei combattimenti che si svolgono lungo i confini settentrionali e orientali e che spesso raggiungono le città e i villaggi libanesi, in seguito alle divisioni sunnite-sciite inasprite dagli interventi politici e finanziari delle forze internazionali e regionali coinvolte nella crisi siriana; poi quello della presenza di oltre 1,5 milioni di profughi siriani che con loro hanno portato i rispettivi contrasti.

Ci sono, infine, gli sviluppi della situazione nella Palestina occupata, con la colonizzazione ad oltranza, soprattutto intorno a Gerusalemme, tollerata dalle grandi potenze imperialiste (Stati uniti e Unione europea), tanto a causa della situazione in Egitto, che è necessario sorvegliare, che per il nuovo ruolo toccato al Mossad israeliano in parecchie regioni del mondo, e ultimamente nelle ex repubbliche sovietiche.

"Ginevra 2" e l'insuccesso di una soluzione politica alla crisi siriana

In una tale situazione, instabile e pericolosa, si è tenuta la seconda conferenza di Ginevra, dopo otto mesi di indugi e tentennamenti. Era previsto fin dall'inizio che questa seconda conferenza sarebbe fallita, tanto a causa della lotta tra Stati uniti e Russia sulla soluzione prevista, che in seguito ai dissensi tra le due delegazioni siriane sulle priorità: cominciare dall'articolo sulla "lotta contro il terrorismo" (come rivendicato dai rappresentanti dell'attuale regime), o dalla formazione del "governo di transizione" (come vuole l'opposizione venuta dall'estero e rappresentata dalla "Alleanza nazionale" domiciliata in Turchia)?

Allora, perché i belligeranti hanno accettato che "Ginevra 2" avesse luogo all'inizio del 2014? Parecchie sono le ragioni che entrano in gioco.

La prima arriva dallo stato in cui si trovavano tutti i belligeranti, visto che nessuna delle forze in gioco riusciva a sfruttare la situazione sul campo a proprio vantaggio. Difatti, né le forze del regime né quelle dell'opposizione hanno potuto segnare dei cambiamenti significativi sul piano militare, malgrado i violenti combattimenti che hanno avuto luogo nella seconda parte del 2013, compresi quelli sul lato del confine libanese dove la battaglia della regione di Koussair non ha dato i riscontri attesi dalle regioni vicine, quella di Kalamoun, e da quelle più lontane, Aleppo in particolare.

La seconda ragione è legata all'opposizione, particolarmente alla questione della pluralità dei centri decisionali e all'assenza di ogni coordinamento tra le opposizioni interna e quella estera. Inoltre, gli urti tra certi gruppuscoli terroristici, come il "Fronte Al Nosra" o lo "Stato dell'Islam in Iraq e Siria", ed i crimini da loro commessi contro la popolazione civile delle zone occupate hanno reso difficile la posizione degli Stati uniti che sono stati obbligati a riconsiderare l'aiuto (militare) fornito all'opposizione tramite Turchia e Arabia saudita. Ma più ancora, Washington è stata obbligata a discutere con Riad la possibilità di ritirare i combattenti sauditi affiliati ai gruppi terroristici. Allo stesso modo, hanno tentato attraverso le autorità turche di ridurre i movimenti di questi gruppi lungo le frontiere con la Siria, ma anche di chiudere porti e aeroporti alle migliaia di mercenari che giungono dall'Europa e dai paesi arabi.

La terza ragione sta nell'esacerbazione della crisi socio-economica in Siria, tanto nelle regioni controllate dal regime che in quelle controllate dall'opposizione. E' da notare che le popolazioni civili subiscono i patimenti della fame e delle malattie, soprattutto nelle regioni sottoposte a blocco, ma anche la presenza preponderante dei mafiosi, soprattutto vicino a certe istanze dirigenti. A ciò si aggiunge la questione degli sfollati a forza dalle zone dei combattimenti verso i paesi vicini, il Libano soprattutto, e che mancano di tutto perché né la Lega araba e né l'Onu hanno mantenuto le promesse nei loro confronti.

Tutto ciò sta alla base dell'imposizione di una tregua provvisoria di cui avevano bisogno, allo stesso tempo, regime siriano e opposizione, ma anche Stati uniti e Russia… Ma se questa tregua ha aperto la strada alla seconda conferenza di Ginevra, essa non poteva finire in nessun caso con una soluzione stabile… perché da una parte era necessario attendere i risultati dei combattimenti sui diversi fronti, e gli accordi che le due grandi potenze, Stati uniti e Russia, avevano intrapreso con certi paesi della regione, sia riguardo la vendita di armi sia in merito ai nuovi investimenti nei campi di petrolio e gas scoperti nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali della Palestina occupata, ma anche del Libano, della Siria e di Cipro.

Da ciò si evince che la soluzione che metterebbe fine alla guerra in Siria, tramite "Ginevra 2" o altro ancora, non è vicina a realizzarsi, poiché legata alla riorganizzazione della situazione in tutta la regione araba. Questo significa quindi che i combattimenti in Siria proseguiranno e con loro la morte e la distruzione. Bisogna aggiungere che i futuri sviluppi militari e, soprattutto, economici peggioreranno la situazione aumentando il costo umano e finanziario che il popolo siriano sarà costretto a pagare. Difatti, l'ultimo rapporto dell'Onu citava la cifra di 200 miliardi di dollari come costo della ricostruzione della Siria, allo stato attuale dei fatti… ma questa cifra rischia di aumentare col passare del tempo. Aggiungiamo a ciò l'approfondimento delle divisioni confessionali e delle ripercussioni che i gruppi terroristici lasceranno, non solo in Siria ma anche nei paesi limitrofi, a cominciare dalla Turchia e dal Libano. Del resto, né i paesi del Golfo né quelli europei saranno al riparo dagli strascichi che nascerebbero dal ritorno dei combattenti nei loro paesi. Ricordiamo in questo senso ciò che è già accaduto con quelli che si chiamavano "mujahidin" durante la guerra contro l'Urss in Afghanistan.

Le soluzioni israelo-americane mirano a liquidare la causa palestinese

Nel momento in cui i combattimenti mortali si allargano su tutta la Siria, un conflitto di altra natura pesa sulla Palestina. Questo scontro, cominciato nel luglio 2013 dall'amministrazione Obama, puntava a un doppio obiettivo: per prima cosa, fare pressione sui rappresentanti dello stato palestinese per riportarli al tavolo dei negoziati con Israele senza permettergli di porre alcuna condizione preliminare, neppure quella dell'arresto della politica di colonizzazione seguita dal governo Netanyahu; poi, accettare il progetto elaborato dal ministro degli esteri statunitense, John Kerry, sotto il nome di "accordo quadro".

Bisogna dire che il progetto Kerry costituisce la seconda tappa dell'accordo di Oslo. Una tappa molto pericolosa, vista la fragile situazione politica in Palestina a causa delle divisioni intestine, ma anche della situazione della maggioranza degli stati arabi, per i quali la questione palestinese non costituisce attualmente una priorità. Inoltre, alcuni stati come Arabia saudita e Giordania hanno espresso ufficialmente il loro consenso al nuovo progetto Usa pur non avendo mai visionato il testo scritto.

Cosa contiene, dunque, questo progetto? A partire da quanto detto da John Kerry, senza che sia stato presentato un qualche testo scritto, siamo in grado di dire che "l'accordo quadro" costituisce un progetto molto pericoloso che, se non affrontato, potrebbe finire col liquidare la causa palestinese.

Questo progetto è improntato al riconoscimento di Israele come "stato degli ebrei nel mondo", cosa che da una parte realizzerà il progetto sionista originario, facilitando inoltre un nuovo "trasferimento" verso la Giordania dei palestinesi che non sono riusciti a sradicare dalla loro terra nel 1948. Ricordiamo che Israele aveva già preparato il terreno per la proclamazione di questo progetto mostruoso più di quattro anni fa, a seguito del discorso di Barak Obama all'università del Cairo (e in presenza di Hosni Moubarak), attraverso il voto di una nuova legge sulla nazionalità che va nel senso della purificazione religiosa dei territori controllati. Per di più, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Liebermann, progetta da tempo quello che chiama uno "scambio di terre" coi palestinesi, che chiaramente significa un dominio sulle nuove terre vicine delle regioni palestinesi conquistate nel 1948… senza dimenticare quelle intorno ad Al-Quds (Gerusalemme) dove le colonie israeliane sono state costruite in questi ultimi anni.

A ciò si aggiunga la posizione molto arrogante nei confronti delle risoluzioni delle Nazioni unite e del Consiglio di sicurezza, soprattutto quelle concernenti il diritto al ritorno dei profughi (e più precisamente la Risoluzione 194), ma anche nei confronti Al-Quds come capitale dello stato palestinese e della sorte delle colonie israeliane costruite in piena Cisgiordania e che occupano centinaia di chilometri di questa regione.

Il nuovo progetto presentato da John Kerry, pur parlando formalmente dell'esistenza di "due stati" in Palestina, riconosce a Israele il "diritto di proteggersi" attraverso lo spiegamento di una forza militare che ha per scopo il controllo delle frontiere che dividono i due "stati" per un periodo che va dai dieci ai quindici anni. E ancora, gli consegna la "missione" della sicurezza dei territori che si trovano lungo il Giordano, attraverso dispositivi d'osservazione molto sofisticati, ma anche permanenti. Questa missione e questo diritto sono stati velocemente recepiti da Israele, all'inizio attraverso una proposta delle commissioni parlamentari secondo cui è necessario mettere le mani sul letto del Giordano, anche in caso di accordo coi palestinesi, e poi attraverso la creazione a favore dei sionisti reazionari, con alla loro testa il ministro degli interni Gedeon Saar, della prima colonia israeliana sul Giordano che, secondo Saar, "è e resterà israeliano".

Tuttavia, il fatto il più pericoloso rimane quanto dichiarato da John Kerry a certi media statunitensi sul fatto che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva accettato il contenuto del suo progetto, compresa la parte riguardante la soppressione del "diritto al ritorno", fatto a cui va aggiunto che le reazioni dell'insieme delle forze politiche palestinesi si sono limitate ad alcune dichiarazioni e comunicati, senza tentare azioni reali in grado di fronteggiare il pericolo, soprattutto per i profughi palestinesi nei paesi arabi.

Il Libano, tra le crisi della regione e quelle del regime politico

Nel mentre si moltiplicano i progetti degli imperialisti per tenere sotto il loro controllo la regione araba, e la Russia tenta di ricostituire questa regione in un senso utile ai suoi interessi, il popolo libanese deve fronteggiare delle crisi diversificate ma sovrapposte e legate fra loro. Di queste, tre sono gli elementi importanti: la crisi siriana e le sue ripercussioni su tutti i livelli della vita libanese; il ritorno del problema israelo-palestinese, dopo essere stato accantonato per parecchi anni (a seguito dell'insuccesso dell'aggressione israeliana del 1982); lo stato di avanzata putrefazione del regime confessionale libanese che per il Libano diventa un imminente pericolo esistenziale.

1 - Le ripercussioni della crisi siriana

La crisi siriana attuale, che fa seguito a 30 anni di presenza armata siriana nel Libano e di diretta intromissione negli affari interni libanesi, costituisce una delle ragioni essenziali dei dissensi politici tra le due parti della borghesia libanese riunita sotto i nomi di "8 e 14 marzo" [il gruppo detto del "8 marzo" è filo-siriano e filo-iraniano, invece quello del "14 marzo" è costituito dei partiti politici legati agli Stati uniti e all'Arabia saudita]. Questi dissensi si esprimono, soprattutto, in una mobilitazione sunnita-sciita ad oltranza, il cui punto di partenza è stata la guerra imperialista contro l'Iraq, compiuta sotto la bandiera del progetto del "Nuovo Medio oriente" che Bush figlio aveva lanciato (appoggiandosi ai due progetti, uno di Henry Kissinger e l'altro di Zbigniew Brezinski), per dividere il Medio oriente in mini-stati confessionali deboli e in guerra fra loro. Tutto ciò per consentire all'imperialismo - in particolare a quello Usa - di mantenere il controllo sulle riserve petrolifere e di gas presenti in questa regione ma anche sulle loro vie di trasporto. A ciò va aggiunta, beninteso, la volontà di dare a Israele la possibilità di trasformarsi nello "Stato degli ebrei del mondo", cosa che ricerca dal 1948.

Ecco perché il Libano vive, già da tre anni, una mobilitazione religiosa e confessionale, che ricorda gli inizi di tutte le guerre civili che ha vissuto e si manifesta nelle esplosioni di violenza itinerante, da Tripoli a Sidone e verso la Bekaa a nord passando da Beirut. L'acutezza di questa escalation di violenza è aumentata in seguito all'intromissione dei due partiti della borghesia libanese, i due gruppi del 8 e del 14 marzo, nel conflitto siriano, malgrado le posizioni prese dal governo libanese che aveva chiamato, approvato su questo da tutte le grandi potenze internazionali e regionali, ad una politica di "neutralità" nei confronti della crisi siriana, il cui scopo era di "proteggere" il Libano delle ripercussioni negative di questa crisi!

Oggi, con l'aumento dei combattimenti tra le forze armate del regime, sempre sostenute da Russia e Iran, e quelle delle confuse tendenze dell'opposizione, ivi compresi i raggruppamenti ultra religiosi, sostenute dall'asse Washington-Unione europea-Arabia saudita-Turchia, cosa che trasforma la situazione in un conflitto internazionale nel vero senso della parola, è diventato "normale" che la crisi siriana superi le frontiere di questo paese, verso il Libano. Questo sconfinamento si esprime nei conflitti confessionali continui, come accade in Iraq: esplosioni terroristiche, autobombe guidate da kamikaze, assembramenti alle frontiere di forze oscurantiste giunte dai campi di profughi palestinesi, ma anche dei paesi del Golfo, del Magreb arabo e dai paesi europei e africani, che si confrontano con le altre forze che appoggiano il regime siriano… Così, non passa settimana senza che ci sia un attentato terroristico con decine di morti e feriti, per non parlare dei danni lasciati dai razzi e da altre armi lanciate dalle regioni siriane vicine alle frontiere.

A ciò si aggiunge un altro fatto pericoloso: l'aumento del numero dei profughi siriani, che ha superato il milione e mezzo (alcuni fanno la cifra di 2 milioni), e che con centomila nuovi profughi palestinesi che vanno ad aggiungersi ad altri 450mila, fanno si che una persona su due in Libano sia un profugo. Il pericolo di una tale situazione non sta solamente nel fatto che questi profughi portano con sé ogni tipo di problema sul piano sicuritario, ma anche problemi socioeconomici in un paese devastato da un debito galoppante e dove imperversa una crisi economica senza soluzione.

Tutto ciò fa aumentare la disoccupazione a vista d'occhio, con la manodopera libanese sostituita dai lavoratori siriani (e palestinesi) meno qualificati, è vero, ma molto meno remunerati. In più, i prezzi delle derrate alimentari e di prima necessità aumentano, in un paese che conta il 20 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà, senza dimenticare i problemi causati dalla necessità di trovare un riparo ai profughi e posti nelle scuole per le decine di migliaia di bambini siriani… Nel frattempo, gli altri paesi vicini alla Siria, la Turchia e la Giordania particolarmente, hanno chiuso, e da molto, le loro frontiere all'afflusso dei profughi, mentre i regimi arabi e i paesi cosiddetti "amici della Siria" non hanno fatto quasi nulla per aiutarli.

2 - Il progetto di una nuova guerra israeliana contro il Libano

Oltre alla crisi siriana e alle sue ripercussioni sulla vita politica e sociale, la possibilità di una nuova aggressione israeliana contro il Libano, del sud in particolare, resta dominante. Così si spiegano le violazioni quotidiane della "linea blu", o frontiera temporanea tracciata dall'ONU in seguito all'aggressione del 2006, alle quali si dedica l'esercito israeliano. Tuttavia, occorre aggiungere che queste violazioni non trovano alcuna reazione da parte dei contingenti di UNIFIL, che si accontentano di trascrivere ciò che accade nei rapporti inviati al segretario generale… e questa mancanza di reazione ha incoraggiato il governo israeliano a spingersi più lontano ancora, tentando di appropriarsi di più di 335 chilometri quadrati di acque territoriali libanesi, in seguito alla scoperta di un nuovo campo petrolifero.

Ma le aggressioni e minacce non si fermano qui. Manovre militari vengono continuamente effettuate lungo le frontiere libanesi (l'ultima è di un mese fa), con il pretesto di fare fronte alle possibili operazioni della resistenza. Aggiungiamoci le dichiarazioni di certi responsabili israeliani, fra cui Benjamin Netanyahu, riguardo al pericolo creato da una nuova partecipazione di Hezbollah al governo, e le affermazioni del comandante delle forze aeree, Amir Eschell, su un nuovo piano militare che mira a bombardare le regioni abitate e le infrastrutture, non solo del sud, ma anche di Beirut e nella Bekaa. A pretesto vengono prese "le migliaia di basi costruite da Hezbollah e che minacciano Israele". In più, Amir Eschell dichiara spavaldamente che "le capacità israeliane d'attacco degli obiettivi libanesi su larga scala sono, oggi, moltiplicate per 15 rispetto al 2006".

Se invece guardassimo alle ragioni reali di tali minacce, diremmo che il governo israeliano, che prepara un nuovo "trasferimento" della popolazione civile palestinese per mettere le mani su nuove terre e portarci i coloni, vorrebbe persuadere gli ultimi arrivati della propria capacità di proteggerli da ogni reazione che possa avere luogo nel momento in cui questo nuovo "trasferimento", pianificato con Washington, fosse portato ad esecuzione. Tuttavia, ciò non significa che Tel Aviv non possa ricorrere ad una nuova aggressione, approfittando delle divisioni confessionali tra libanesi e delle azioni criminali di certi gruppi terroristici che si nascondono nei campi palestinesi e che utilizzano giovani palestinesi nelle loro operazioni kamikaze.

3 - Lo stato di putrefazione del regime confessionale: pericolo esistenziale per il Libano

Abbiamo spiegato i pericoli legati alle ripercussioni della crisi siriana e anche la possibilità di un intervento militare israeliano. Resta da vedere e analizzare l'evoluzione della situazione interna alla luce di questi due elementi.

La querelle tra i due gruppi della borghesia, detti del 8 e del 14 marzo, hanno portato negli ultimi undici mesi ad una paralisi quasi totale di tutte le istituzioni di potere in Libano.

E se il nuovo governo libanese si è formato, dopo tergiversazioni durate dieci mesi e dieci giorni, questo è dovuto, da una parte alla comune idea di Iran e Arabia saudita riguardo la necessità per i libanesi (dei due lati), di una moderazione aspettando di vedere l'evoluzione della situazione militare in Siria, ma anche a causa della necessità, tanto per gli Stati uniti che per la Russia, di vedere formarsi un governo libanese il cui primo compito sarebbe di procedere nei contratti che permettono l'estrazione di petrolio e gas scoperto in grandi quantità nelle acque territoriali libanesi. Tuttavia, né gli uni né gli altri sono riusciti nei loro intenti. Il governo, nato un mese fa, ha mostrato la sua incapacità nel gestire questi problemi, soprattutto nel campo della sicurezza delle frontiere libanesi, aperte ad ogni tipo di violazione. Inoltre, tutto indica che questo governo sarà altrettanto incapace di condurre a termine le elezioni presidenziali, tanto più che queste elezioni devono avere luogo fra due mesi, tempo insufficiente per trovare una soluzione alla crisi siriana, anche con le nuove vittorie attese sul fronte militare. Quindi, se le elezioni presidenziali non avverranno, dobbiamo attenderci quella deflagrazione generale che molte parti cercano.

4 - La situazione economica

Il carattere di rendita dell'economia libanese continua a fare il bello e il cattivo tempo sul paese, rinforzando in particolare le disuguaglianze, la miseria, la disoccupazione e l'emigrazione, in particolare quella dei giovani quadri.

Soffermiamoci su alcuni indici significativi.

- In primo luogo, i monopoli costituiscono una parte molto importante dell'economia rentier, importanza che cresce in misura sempre maggiore con la sostituzione da parte delle attività commerciali del lavoro in settori produttivi, nell'industria in particolare. Senza dimenticare il ruolo di questi monopoli nel fissare i prezzi dei beni fondamentali, come il gas, tra gli emiri dei taifas (capi politici che rappresentano le confessioni religiose del paese)

- Viene poi l'appoggio fornito dal regime politico libanese alla diffusione culturale dell'economia rentier nel settore immobiliare. Così, i prezzi delle abitazioni salgono al cielo, contrariamente ai salari e alle rimesse. In conseguenza di ciò, la maggioranza dei libanesi, compresa la classe cosiddetta "media", non è in grado di acquistare un appartamento, sebbene le circolari della Banca centrale affermino che il 60% dei prestiti delle banche private siano diretti al settore immobiliare. Tuttavia, e mentre il tasso di interesse imposto dalla Banca centrale non supera l'1%, le banche private hanno approfittato per imporre tassi molto elevati, il che fa si che per riuscire ad acquistare un piccolo appartamento, talvolta si debba pagare tre volte il suo prezzo… esclusi i percettori di bassi salari che proprio non se lo possono permettere.

- Il dominio sulle proprietà dello Stato. In questo campo, notiamo che i decreti furono firmati da governi diversi per permettere ai capitalisti libanesi di mettere le mani su parti importanti di beni pubblici, in particolare le spiagge e tutto ciò che ne segue come imprese turistiche.

- E mentre lo Stato pensa ad aiutare unicamente il settore turistico e a dare prestiti ai commercianti, l'agricoltura cola a picco e il costo dei prodotti agricoli s'impenna a causa dell'assenza di un qualsiasi impegno da parte del governo, che nega l'aiuto ai piccoli proprietari, tanto nella lotta contro le dannose malattie in agricoltura che contro la concorrenza dei prodotti stranieri. Tuttavia, il settore agricolo avrebbe potuto aiutare molti giovani a trovare del lavoro, limitando l'emigrazione e il trasferimento forzato delle popolazioni rurali verso le città.

- A tutto ciò si aggiunga l'aumento dei tassi di disoccupazione, soprattutto tra i giovani (26%) e i nuovi studi della Banca mondiale che insistono sulla relazione tra l'aumento della disoccupazione e l'economia di rendita. Difatti, la Bm dice che del denaro inviato nel paese dagli emigrati libanesi ne approfittano le sole banche e non partecipa alla creazione di nuovi impieghi, aiutando a ridurre i tassi di disoccupazione e la povertà.

- Non va dimenticato l'aumento del deficit di bilancio che ha raggiunto, secondo i comunicati del ministero delle finanze, i 9,1 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2013, e le stime annunciano che raggiungerà nel 2014 circa il 10% del Pil. Questo deficit è molto pericoloso, soprattutto in un paese dove il debito nazionale ha raggiunto il 137% del Pil e alcuni pensano che questa percentuale andrà crescendo fino a raggiungere il 157% alla fine del 2014. E, se seguiamo fino alla fine tale scenario, c'è da temere che anche il settore bancario possa cadere pericolosamente, particolarmente sul piano della liquidità…

- Infine, notiamo l'aumento del tasso di lavoro di bambini e adolescenti, uno dei più alti a livello mondiale, con più di centomila bambini vittime, secondo la "Commissione nazionale di lotta contro il lavoro dei bambini" e la "Organizzazione internazionale del lavoro" (ILO).

Conclusione

Il Partito Comunista Libanese (PCL) dall'estate 2012 ha attirato l'attenzione sulla gravità della situazione a tutti i livelli, a cominciare dalla crisi socioeconomica, senza dimenticare la possibilità di sedizione e di una nuova guerra civile, sia a causa della crisi siriana che in seguito ai continui tentativi dell'imperialismo statunitense di liquidare la causa palestinese.

Il PCL ha assunto l'iniziativa di chiamare al raggruppamento di tutte le forze politiche e popolari che hanno interesse a preservare la patria, allontanando lo spettro dalla guerra civile. E' stato al centro dell'azione politica per la creazione di uno Stato laico, come lo è stato nelle lotte sindacali nei settori privato e pubblico, pubblico soprattutto, dove per la prima volta lo sciopero generale ha paralizzato l'intero settore.

Oggi, il PCL torna alla carica, chiamando i libanesi a consolidare la loro unità sulle basi di uno Stato democratico e laico, uno Stato che punti al progresso sociale e che possa condurre il paese in senso opposto alle divisioni confessionali, i cui pericoli aumentano di giorno in giorno. Perché solo questo Stato democratico e laico può salvare il Libano delle ripercussioni delle crisi della regione e portarlo fuori dalla situazione socioeconomica nella quale si dibatte dalla fine della guerra civile.

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