Incontro a Sarajevo: il Centro “Napredak” di Trebevic

Ipotesi per la Ricerca-Azione “Bosnia ed Erzegovina: i Volti, le Storie”

Operatori di Pace - Campania ONLUS

Per capire quale importanza possa avere un centro come “Napredak”, appena inaugurato a Trebevic, Sarajevo, nelle forme e con gli scopi che ci accingiamo a raccontare, è sufficiente descrivere il significato della parola. Significato, insieme, storico ed etimologico. In serbo-croato, “napredak” significa “progresso”. In generale, la parola allude al risveglio ed allo sviluppo, in breve a tutto quanto indichi miglioramento della situazione generale e delle condizioni sociali. Nel concreto, “napredak”, per i bosniaci di Sarajevo durante i mille giorni dell’assedio (1992-1995), la pagina probabilmente più tragica ed emblematica della guerra di Bosnia, insieme con i massacri del “fronte orientale”, come quello di Srebrenica, ha significato una possibilità concreta di sopravvivenza. “Napredak” era infatti il nome assunto dalla mensa popolare nella quale era stato trasformato il seminario della città, dopo che, con l’inizio dell’assedio, il cardinale cattolico di Sarajevo, Vinko Pulijc, aveva deciso di fare trasferire tutti i seminaristi sull’isola di Brac, di modo che potessero avere salva la vita e continuare a studiare al riparo dai colpi dell’artiglieria. Fu con quella decisione, e con l’altra, da parte del cardinale stesso, di non abbandonare la città e di continuare a tenere in vita in qualche modo il seminario posto appena fuori la capitale sul colle di Trebevic, che il luogo fu riconvertito ad utilità sociale nel momento in cui, nella città sotto assedio, scarseggiando anche i generi di prima necessità, tirare avanti la sfida del vivere e del sopravvivere cominciò a diventare una fatica quotidiana e sempre più domande ed urgenze finirono per concentrarsi sull’ex seminario svuotato. “Napredak” divenne così una mensa popolare cattolica, gestita in maniera dinamica ed aperta a tutti e tutte, a prescindere dall’appartenenza etnica, nazionale e religiosa di chi ne varcasse la porta, capace di distribuire fino ad un massimo di duecento pasti caldi al giorno. Lo scorso 4 Luglio, la struttura, conservando lo stesso nome, così simbolico ed evocativo per la popolazione bosniaca di Sarajevo, è stata riconsegnata alla città, con la benedizione del cardinale Pulic e l’inaugurazione del nuovo spazio poli-funzionale nel quale adesso è stato trasformato “napredak”: un posto accogliente e multi-mediale, capace di rispondere non più al bisogno di sopravvivere, bensì a quello di ricostruire la speranza in una città che ancora paga, in termini di lacerazioni morali e materiali, le eredità del conflitto degli anni Novanta. La struttura, molto moderna e funzionale, consentirà adesso, su quella che era la linea del fronte, di ospitare mostre, convegni, rassegne, momenti culturali ed eventi religiosi che, in linea con lo spirito e la tradizione che la parola e il messaggio rievocano, continueranno ad essere aperti a tutti e tutte, senza distinzione tra le tre comunità religiose presenti in città e nell’intera Bosnia, quella musulmana (pari al 90% dell’intera popolazione di Sarajevo), quella ortodossa (soprattutto serbo-bosniaca) e quella cattolica (soprattutto croata ed erzegovese). L’intenzione delle autorità civili e religiose coinvolte nell’inaugurazione della nuova “napredak” è esplicita. Come ha ricordato lo stesso Pulijc in una dichiarazione - stampa: «L’intenzione è quella di fare dell’arte uno strumento di pacificazione», ed ancora: «se qui un tempo si sparava, in futuro si parlerà di pace, perdono, riconciliazione». C’è molto della storia delle Bosnia degli ultimi venti anni nelle parole del cardinale. Non a caso, la struttura sorge proprie sul colle di Trebevic, una delle alture che circondano Sarajevo, che oggi fungono da suggestiva corona della “Gerusalemme dei Balcani”, ma nella prima metà degli anni Novanta rappresentavano una clausura minacciosa, l’avamposto delle forze armate serbo-bosniache che proprio dalle colline tutt’intorno tenevano sotto tiro la città, adagiata com’era (e com’è) sul fondo della valle. “Napredak” si pone dunque, in fin dei conti, un compito improbo: riuscire laddove venti anni di sforzi istituzionali e di tentativi della solidarietà e della cooperazione internazionale hanno sostanzialmente fallito: vale a dire nella parola “riconciliazione”. Ecco perché oggi ha forse meno senso di ieri “provare e riprovare” con gli strumenti classici del passato: per lo meno fino a quando una parola di stabilità non interverrà ad armonizzare i rapporti tra le comunità nazionali che compongono il puzzle politico-istituzionale della Bosnia post-Dayton. Ha più senso, forse, provare a indagare, appunto con le parole del cardinale, «l’arte come strumento di pacificazione» e i tentativi degli artisti, degli intellettuali e dei creativi di Bosnia ed Erzegovina nell’immaginare, prefigurare e traguardare una Bosnia nuova e diversa nel solco della pace, della nonviolenza e della ricomposizione. È uno degli scopi della ricerca-azione “Bosnia ed Erzegovina: i Volti, le Storie” degli “Operatori di Pace Campania” ONLUS, ma più ancora una sfida per il peace-building che vale la pena di raccogliere.

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