Internazionale, numero 924, 18 novembre 2011
22 novembre 2011 14.51

Padri nichilisti e giovani realisti
di Rafael Gumucio
Traduzione di Sara Bani.

Dopo il ritorno alla democrazia il rapporto tra genitori e figli è cambiato, ma la politica no. Oggi i veri riformatori sono i ragazzi, che da sei mesi protestano per rinnovare il paese.

Un sorriso di un secondo in televisione: è successo, tra una domanda e l’altra, a Tolerancia cero, il talk show politico più seguito della tv cilena. L’11 settembre gli ospiti della trasmissione erano i due leader studenteschi più famosi del paese: Giorgio Jackson, presidente della Federazione studentesca dell’università cattolica del Cile (Feuc), e Camila Vallejo, presidente della Federazione studentesca dell’università del Cile (Fech). Per un secondo, i due ragazzi si sono scambiati un sorriso.

Come hanno fatto Giorgio e Camila a spingere centocinquantamila persone, non solo studenti, a manifestare nelle strade di Santiago? Come hanno fatto a paralizzare il paese, a far crollare la popolarità del presidente Sebastián Piñera (che secondo gli ultimi sondaggi è al 30 per cento) e a far dimettere il ministro dell’istruzione Joaquín Lavín? Da mesi i cileni chiedono che l’istruzione, privata e pubblica, non abbia fini di lucro e che gli utili siano reinvestiti nell’educazione e non ridistribuiti tra gli investitori.

L’istruzione in Cile è, in proporzione ai redditi, la più cara del mondo. Il costo medio di un corso di laurea in un’università pubblica è di 1.746.784 pesos all’anno (2.500 euro), mentre il reddito mensile medio è di 752mila pesos. La spesa pubblica per l’istruzione superiore equivale allo 0,5 per cento del pil, ed è la più bassa del mondo.

Quel giorno, a Tolerancia cero, Giorgio e Camila, due prodotti dei privilegi e della segregazione del sistema (dell’educazione privata Giorgio e dell’università pubblica Camila), hanno sorriso come due bambini disobbedienti davanti all’ironia dei soliti vecchi brontoloni.

“Ti sei reso conto che quel sorriso ha cambiato tutto?”, chiedo a Giorgio Jackson nella galleria del Drugstore. Neanch’io riesco a evitare il tono da maestro che molti adulti assumono quando parlano con questo ragazzo, dalla barba rada e rossiccia, la carnagione chiara e gli occhi piccoli. La gente stava cominciando a stufarsi del movimento studentesco, ma quel sorriso ha fatto ricordare ai cileni tutte le cose belle della protesta. Gli studenti hanno organizzato un collettivo artistico che ha corso per 1.800 chilometri intorno alla Moneda (il palazzo presidenziale), si è scambiato 1.800 secondi di baci in plaza de Armas e ha donato 1.800 litri di sangue agli ospedali per ricordare al governo la cifra necessaria per un’istruzione più dignitosa: 1.800 milioni di dollari.

Quel sorriso pulito, chiaro, apertamente adolescente, e privo di risentimenti e d’impazienza, racchiudeva la freschezza del metodo e l’impeccabilità del comportamento. E poi c’era la complicità di una coppia sognata. Camila e Giorgio: la gioventù, l’ingenuità, l’eleganza. “Non abbiamo mai giocato su questo equivoco”, spiega Giorgio. “Anzi, io ho sempre sottolineato che ho una ragazza”. “Quante volte l’hai dovuto ripetere?”. “Mille”.

Forse quello che gli spettatori hanno visto in quel sorriso in diretta tv è l’amicizia che lega i componenti più lontani del movimento studentesco. Perfino nei momenti di maggiore scontro, nessun dirigente studentesco si è scagliato contro gli altri. “Camila è bella”, insisto, notando il primo segno d’imbarazzo in Giorgio Jackson, che di solito è rilassato. “Quanto pesa nel successo del movimento studentesco?”.

“All’inizio non mi piaceva che la stampa si soffermasse su quest’aspetto”, risponde, “perché temevo che lo usasse per banalizzare la discussione. Ma Camila ha messo le cose in chiaro e ha usato tutte le armi a sua disposizione per aiutare il movimento. In Cile è più famosa di tanti ministri del governo Piñera. Gli studenti dell’università cattolica e dell’università del Cile sono riusciti insieme a far crescere il movimento. Oggi la nostra protesta non è più la tipica mobilitazione di cinquemila o ottomila persone, etichettata dalla stampa come di estrema sinistra. La partecipazione è ampia e il 70 per cento dei cileni appoggia le nostre richieste. E non tutti sono comunisti”.

Il sorriso tra Camila e Giorgio non è stato solo un incontro di due ragazzi in mezzo ai soliti pregiudizi, ma un’alleanza dal profondo significato storico. Lei è mora con gli occhi chiari, lui è rosso con gli occhi scuri. Lei studia alla Cile (com’è chiamata in modo colloquiale l’università del Cile), lui alla Catoponti (l’università cattolica).

L’università del Cile è stata fondata nel 1842 dal venezuelano Andrés Bello e da allora è il bastione del liberalismo anticlericale. L’università cattolica risale al 1888 ed è la roccaforte del conservatorismo religioso e sociale.

La metafora perfetta
La storia nascosta dietro il conflitto studentesco è una metafora perfetta della storia del Cile, segnata da una guerra civile sotterranea tra conservatori e liberali. In tv abbiamo visto il sorriso tra la sinistra laica e quella cristiana: Camila Vallejo, figlia di comunisti e comunista lei stessa, ha sorriso a Giorgio, che ha una madre impiegata nell’ong cattolica Hogar de Cristo, e che si è formato nell’ong Un techo para Chile.

Giorgio dà una motivazione etica a quasi tutte le sue azioni. Studia in un’università privilegiata e vive in una delle zone più ricche del paese più diseguale dell’Ocse. Non si definisce cattolico (preferisce dire che ha “valori cristiani”), ma nel suo comportamento emerge il marchio indelebile dei gesuiti. Di uno in particolare: Felipe Berríos del Solar, il fondatore di Un techo para Chile. Questa ong recluta i giovani più inquieti e preparati delle scuole più costose del paese per portarli a costruire prefabbricati nelle zone povere del paese.

I ragazzi fanno un lavoro manuale, ma l’aspetto davvero importante è un altro: i discorsi informali di Berríos, che hanno formato un’intera generazione di dirigenti politici, da Sebastián Bowen, capo della campagna elettorale dell’ex presidente Eduardo Frei, fino a José Manuel Edwards, deputato di Renovación nacional, il partito di Piñera. Tutti sono uniti da un senso d’insoddisfazione nei confronti del Cile e del suo modello di sviluppo.

“Quanti anni avevi quando sei entrato in Un techo para Chile?”, chiedo a Giorgio. “Diciassette o diciotto. Ci sono rimasto fino a quando ne ho compiuti 21, tre anni fa”. “Quanto ha influito su di te don Berríos?”. “Molto. Mi ha insegnato che siamo uno dei paesi più classisti del mondo. Lo dice sempre: se non eliminiamo il classismo, siamo fregati”.

La storia si ripete, gli dico. Alla fine degli anni cinquanta Alberto Hurtado Cruchaga, un altro gesuita oggi santo, reclutò alcuni ragazzi delle classi più ricche per mostrargli la povertà con cui convivevano senza quasi rendersene conto. Da quell’esperienza nacque la riforma universitaria dell’università cattolica. Era il 1967. La Feuc, oggi guidata da Giorgio, chiese una riforma per avvicinare l’università al popolo e per consentire agli studenti di prendere delle decisioni sui loro atenei.

Quando la Feuc passò sotto il controllo del gremialismo – un movimento di estrema destra guidato da Jaime Guzmán, uno dei principali redattori della costituzione di Augusto Pinochet – alla Cattolica e nella sua federazione studentesca si formarono i padri del sistema educativo cileno oggi in vigore. Erano ossessionati dalla “libertà d’insegnamento”, che ha dato a chiunque il diritto di fondare una scuola o un’università e di essere sovvenzionato dallo stato. Nella loro idea, questa formula doveva interferire il meno possibile nella formazione dei cittadini.

In piazza nel 2006
Giorgio si considera un ragazzo normale. Gli piace dormire molto, ma non può più farlo, e si diverte con i computer, anche se ora ha a malapena il tempo di accenderne uno. È un ragazzo robusto, sincero, sorridente e simpatico. Forse è per questo che i dirigenti della Nuova azione universitaria, il gruppo di centrosinistra della Cattolica, l’hanno candidato alla presidenza della Feuc. Ha un nome abbastanza strano per non essere identificato con l’oligarchia che controlla tutto o con la classe media dei González, che non riuscirebbe a sedurre le “ragazze perbene” della Cattolica.

Assolutamente normale e abbastanza strano per avere uno zio che si chiama Michael Jackson. “Me lo chiedono sempre: ‘Sei figlio di Michael Jackson?’. E io rispondo: ‘No, il nipote’”. “Michael Jackson cosa fa?”. “È agronomo. Vive a La Serena. Credo che si sia trasferito a Viña del Mar”. “E tuo padre, quale dei Jackson Five è: Jackie, Jermaine, Marlon o Tito?”. “Kenneth, come me. È il mio primo nome. Mi chiamo Kenneth Giorgio Jackson. Qualche compagno di università mi chiama Kenny”. “Per prenderti in giro?”. “No, tanto per fare. Ma per mia madre sono sempre stato Giorgio. Giorgio come mio nonno, Giorgio Drago. I capelli rossi sono l’unica cosa irlandese che ho: per il resto sono completamente italiano”.

“Perché uno come te è diventato il leader di un movimento come questo?”, gli chiedo. “Perché mi hanno eletto. A ingegneria sono uno studente nella media. Se sei iscritto a ingegneria alla Cattolica ti dicono: ‘Siete i migliori’. Quando entri ti gonfiano l’ego fino a farti arrivare in una specie di stratosfera e non riesci più a lavorare in squadra. Guardi tutti dall’alto in basso. Ma quando ho cominciato a lavorare nella Feuc sono tornato con i piedi per terra e ho capito che non potevo continuare ad avere la puzza sotto al naso, come se nessuno mi potesse toccare o parlare. Ci tengo a essere il più umile possibile: non mi piace mettermi in mostra”, spiega Giorgio.

“Ma perché ti sei presentato? Nessuno lo fa se non vuole”. “No, è ovvio. L’ho scelto io. Ma ho scelto di essere il presidente della Feuc, non di partecipare a Tolerancia cero. Quelle sono cose che non decidi, succedono e basta”.

Nel 2006 Giorgio aveva 19 anni. Due anni prima si era iscritto a ingegneria all’università cattolica. Era bravo in matematica, ma il fatto di aver partecipato alle olimpiadi di questa materia non era un gran vanto tra i suoi compagni di corso, allenati per vincere gare molto più importanti. Quell’anno in Cile era in gioco il destino della generazione di Giorgio e Camila. Alcuni studenti, tre o quattro anni più piccoli di loro, avevano occupato le scuole. La stampa battezzò il movimento pingüinazo, in riferimento alla tipica divisa scolastica: giacca blu e camicia bianca, maglione per le ragazze e pantaloni grigi per i ragazzi. Come oggi, gli studenti chiedevano alcune modifiche alla tessera gratuita per i mezzi pubblici. Ma poi la protesta si è allargata e gli studenti hanno chiesto la statalizzazione del sistema educativo, con una deroga alla Ley orgánica constitucional de enseñanza (Loce) dell’epoca di Pinochet.

Al governo c’era Michelle Bachelet. La presidente sostituì il ministro dell’istruzione, Martín Zilic, e si sedette al tavolo delle trattative con gli studenti, che avevano l’appoggio unanime della popolazione. La questione fu affidata a una commissione composta da leader studenteschi e da ottanta esperti, e la protesta si stemperò. La Ley de enseñanza è stata sostituita da una nuova legge che ha poco a che vedere con le rivendicazioni degli studenti. La norma continua a basarsi sulla mercificazione dell’educazione – lo stato offre a qualsiasi privato che lo chiede una sovvenzione per ogni alunno – anche se nei suoi aspetti radicali non è mai stata applicata.

Oggi i leader della protesta dei pinguini studiano all’università. Nessuno dei volti noti del 2006 guida il movimento studentesco del 2011, ma è lo spettro di tutte le cose andate storte cinque anni fa che oggi spinge gli studenti a non abbassare la guardia. Per i ragazzi del 2011 le parole “parlamento” e “tavolo di trattativa” sono una specie d’insulto. Al ministero dell’istruzione è naufragato un tavolo dopo l’altro: lo stato continua a proporre crediti e borse di studio per il 40 per cento dei ragazzi più poveri e gli studenti continuano a chiedere la gratuità completa dell’istruzione pubblica primaria, secondaria e universitaria.

Nel 1862 Ivan Turgenev pubblicò Padri e figli, la storia di un figlio che va a trovare il padre in una dacia russa in compagnia di un amico che mette ossessivamente tutto in discussione. Il romanzo rese famosa la parola “nichilista”, come si definisce Bazarov, il personaggio centrale del libro. Un uomo sprecato, che non ha il coraggio di vivere il grande amore e si lascia morire in modo assurdo di una malattia curabile.

“Padri e figli” potrebbe anche essere il titolo di un romanzo sugli studenti cileni. I problemi dell’istruzione e della diseguaglianza sono una costante nazionale. Se oggi sono così evidenti, forse è perché il rapporto tra genitori e figli è cambiato in modo più radicale dell’economia o della politica. È un rapporto opposto a quello descritto da Turgenev nel suo romanzo, quello tra una generazione matura e un’altra che deve ancora crescere. Oggi in Cile i genitori sono i nichilisti, i suicidi, i frustrati, quelli incapaci di parlare, e i figli i riformisti, i realisti, gli strateghi.

Quando ho pranzato per la prima volta con Giorgio al bar The Clinic, ho pensato: “Questi ragazzi hanno l’ammirazione dei loro genitori”. Non hanno conosciuto la fame vissuta dalla mia generazione, cresciuta durante la peggiore crisi economica del Cile moderno, quella del 1982. Forse proprio perché sono gli ultimi figli della repressione, i genitori non li reprimono. Nelle loro riunioni prendono la parola in modo ordinato: nessuno può interrompere gli altri, tutti devono chiedere permesso prima di parlare e nessuno può farlo due volte di seguito.

“Vivo con mia madre”, racconta Giorgio mentre finisce di mangiare un gelato. “È stata lei a tirarmi su. Si è sposata con Pablo, che io chiamo papà. Ho tre sorelle più piccole di 11, 12 e 14 anni. Pablo è di centrodestra ma non è un problema, perché in famiglia siamo molto aperti”.

“E il signor Jackson?”, gli chiedo. “È complicato. Ha avuto un aneurisma prima che io nascessi, quando mia madre era incinta di sette mesi, ed è andato in pensione anticipata. È immobilizzato a letto e non può parlare. Riusciamo a comunicare, ma è un rapporto complicato”.

“Tuo padre sa che sei uno dei dirigenti studenteschi più importanti del paese?”. “Lui capisce tutto: è fermo a letto, ma è lucido. Ha paura delle manifestazioni perché teme che mi succeda qualcosa. È preoccupato, ma s’indigna quando sente tutte le bugie che si dicono in giro. È dalla mia parte, come mia nonna, anche se a loro la politica non interessa”.

Non si sente la paura
Sono le dieci e mezza del 2 settembre. Ci sono poliziotti armati davanti alla stazione centrale. Il cielo si sta già schiarendo. Arrivano gli striscioni, le bandiere, i venditori di limoni (servono contro i gas lacrimogeni che inonderanno il campo di battaglia), le noccioline tostate, e i manifesti di Salvador Allende e del Che. Sanno (tutti sappiamo) che questa manifestazione, la trentatreesima dell’anno, non è come le altre.

Dopo quattro mesi di proteste, il governo conta sulla stanchezza del movimento. Migliaia di studenti perderanno il semestre, qualcuno anche l’anno, perché le università pubbliche (che in Cile lo sono solo simbolicamente, visto che per il 70 per cento pesano sulle famiglie degli studenti) non ricevono più le sovvenzioni mensili.

Uno dei simboli di questa protesta è Michael Jackson che esce dalla tomba del video di Thriller. Un modo per parlare di una generazione mezza morta, obbligata a destreggiarsi tra i debiti con le banche per finanziare la sua istruzione. In testa al corteo ci sono uno scheletro in sella a un cavallo di cartone, anche lui pelle e ossa, centinaia di ragazze con la maschera da teschio, zombie verdi con vestiti sgargianti che annunciano l’arrivo di uno dei numeri più attesi delle proteste: il fastoso corteo funebre che accompagna la bara dell’istruzione pubblica.

È una bara simile a quella che bruciammo con i miei compagni di scuola ventisette anni fa, quando fu introdotto il sistema educativo contro cui protestano questi ragazzi. Erano manifestazioni quasi suicide, con studenti torturati e uccisi che ispirarono il documentario Attori secondari, di Jorge Leiva, che a sua volta ha ispirato il pingüinazo del 2006. In quelle proteste sono diventati adolescenti i genitori degli studenti di oggi. Ma oggi in questo viale che si riempie di studenti, di risate e di spinte per farsi una foto insieme “al Giorgio”, non mi sembra di sentire la paura.

“Cos’è stata per te la dittatura?”, gli chiedo dopo. “Niente. Sono nato nel 1987”. L’anno in cui ho finito la scuola, penso. “Quindi per te Pinochet non è esistito, e non sono esistite neanche la repressione, la depressione, la tortura?”. “No, per me non è esistito niente, anche se in casa ne abbiamo sempre parlato. Mio nonno fu perseguitato dal regime. Per quattro anni fu dirigente dell’Iansa, l’industria nazionale dello zucchero. Poi, durante il governo dell’Unidad popular di Salvador Allende, fu dirigente della miniera statale Disputada de Las Condes. Era una carica importante. Ma più che la dittatura mi interessa la Concertación, la coalizione di centrosinistra che ha governato il paese dopo il ritorno alla democrazia. Mia madre era della Concertación e io la criticavo sempre. Da tutti i punti di vista, da sinistra e da destra. Mettevo tutto in discussione perché mi piaceva fare l’avvocato del diavolo”.

Nella prima fila della manifestazione numero trentatré non ci sono solo colori, grida e canzoni. Una campanella scolastica indica quando procedere e quando fermarsi. La gioventù comunista, incaricata della sicurezza di tutti i dirigenti del movimento studentesco, isola la zona. La responsabile dell’agenzia di stampa della Fech e della Feuc risponde alle telefonate in arrivo dalla Gran Bretagna, dall’Australia e dalla Francia con un cellulare così vecchio che sembra stia per andare in mille pezzi. Una massa compatta spinge un gruppo di venti dirigenti che è schiacciato da una marea di fotografi, cameraman e giornalisti di tutte le nazionalità. “Stringiamoci, stringiamoci”, mi dice Francisca, incaricata della sicurezza del gruppo di Giorgio, trasformandomi in parte della catena umana che impedisce agli alunni del liceo Aplicación di sfiorare Camila. “Facciamo un figlio”, le gridano. “Diventiamo amici su Facebook. Voglio toccarti le tette”.

Quanta gente c’è? Cinquantamila, settantamila, centomila persone? Cosa dicono il comune, i carabinieri, i giornali La Tercera e il Mercurio? Le autorità rifiutano di parlare di numeri, lasciando agli studenti il compito di contarsi da soli. Sono centocinquantamila? All’improvviso la manifestazione devia. Le autorità cittadine inventano percorsi sempre più tortuosi per evitare che gli studenti passino davanti al palazzo della Moneda o al ministero dell’istruzione. Almeno centomila persone, secondo i giornalisti stranieri, attraversano stradine strette piene di palazzi belle époque. Il gruppo procede veloce verso una grata bianca dove c’è un altro contingente di sicurezza. Dopo una rigida selezione, dirigenti e giornalisti entrano in un piccolo spiazzo dietro il palcoscenico su cui Nano Stern, un musicista hippy amato da questa generazione che preferisce la chitarra acustica a quella elettrica e il folk al punk, canta una lode alla natura.

L’odore dei gas lacrimogeni, che poco a poco invade l’aria, comincia a smentire il clima di pacifismo fricchettone in cui tutti ci muovevamo fino a qualche secondo prima. A pochi isolati di distanza alcuni incappucciati cominciano con la polizia un rituale conosciuto: pietre e gas lacrimogeni, getti d’acqua e bombe molotov.

Vedo Giorgio sotto il palcoscenico che risponde nella lingua dei segni alle domande di un gruppo di giornalisti sordi. Il caldo e la polvere non sembrano disturbarlo: risponde con la stessa pazienza con cui partecipa ad assemblee interminabili e a interviste di ogni tipo. Più in là, una bella giornalista di Caiga quien caiga, un programma satirico di attualità, aspetta il suo turno. Dietro ci sono la Cnn, vari giornali locali e studenti di diverse scuole e università. Una marea di domande quasi tutte uguali e di richieste in cui vedo allontanarsi, come una bottiglia con un messaggio dentro, il volto quasi sempre felice di Kenneth Giorgio.

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