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20 luglio 2011

Tutto in una foto
di Angelo Miotto

Sono arrivati gli speciali delle grandi e storiche testate italiane. Repubblica e Corriere da oggi hanno in pagina gli speciali multimediali su Genova 2001. Non sono tanto i contenuti ad attirare l’attenzione. Ma le foto scelte per ‘strillare’ gli speciali in homepage.

Non è una questione da poco. Le foto scelte per attirare l’attenzione degli internauti sono di un unico genere: scontri, divise, antisommossa, gente vestita di nero, manganelli. Non c’è dubbio: ogni testata ha il sacrosanto diritto di scegliere cosa pubblicare e di scegliere la propria linea editoriale. Così come è un fatto che se dici Genova il passante ti possa rispondere botte, o devastazione. Ed è proprio qui il punto. Il meccanismo che si ripropone dieci anni dopo è esattamente speculare alla direzione che è stata impressa in quelle giornate da chi aveva tutto l’interesse che si parlasse di ordine pubblico. Solo di ordine pubblico.

E’ un meccanismo riconosciuto anche in altre storie dove la violenza ha fatto capolino o dove è stata un elemento caratterizzante di un conflitto. Allarghiamo la nostra visuale. Le questioni politiche, dalla causa palestinese a quella basca, le questioni ambientali, come la Valsusa, il grido dei tanti movimenti che per via delle loro idee generano anche conflitto, assumono tutto un altro connotato se lo scatto fotografico – troppo spesso decontestualizzato – mostra un a singola immagine, spesso di violenza, che ti chiede, che richiede in maniera perentoria di dire da che parte stai.

Genova, da questo punto di vista, ha fatto scuola. La splendida settimana di incontri, caratterizzata da un forte elemento propositivo di chi si poneva come obiettivo non solo la critica del sistema attuale, ma anche l’individuazione di metodi e strumenti per trovare una strada che potesse aggirare o superare l’ostacolo. Per questo abbiamo scelto di parlare, su E il Mensile, come su PeaceReporter, dei contenuti, del ‘seme di Genova’. Senza tralasciare la richiesta di giustizia di chi è stato vittima della violenza della repressione. Ma la vicenda che ha a che vedere con la memoria, con l’eclissi della democrazia, come titola il libro di Agnoletto-Guadagnucci, è consequenziale alla scelta politica e di polizia di trasformare tutta l’energia creativa di un movimento composito in un problema di ordine pubblico. Criminalizzare, rendere ‘inviso’ al grande pubblico il prototipo del manifestante cosiddetto ‘no-global’.

Ci sono riusciti?

La scelta politica di tornare sui temi propositivi, che hanno visto negli ultimi referendum e nella partecipazione giovanile agli ultimi successi amministrativi in varie città, è un dovere di cronaca. Così come non si possono ignorare le manifestazioni degi studenti dell’ultimo dicembre, o il conflitto sociale dell’alta velocità che divora territorio e anime dei centri montani. Le proposte, là dove hanno attecchito, sono state capaci di portare a dei cambiamenti anche nelle forme del fare politica, come nelle elezioni democratiche che hanno cambiato il volto alle presidenze di numerosi Paesi dell’America latina.
Le guerre per l’acqua, per i diritti degli indigeni, per il riconoscimento della biodiversità, una maniera alternativa di concepire lo sfruttamento delle fonti energetiche – così come ha fatto in Ecuador Correa: pagatemi i bidoni di greggio per tenerlo sottoterra – o come ha dimostrato l’indignazione partita dalle strade di Madrid, che si basa su un concetto di democrazia partecipata, sul difficile metodo del consenso.

La domanda che resta dentro, in tutti questi anni, riguarda la consapevolezza individuale, che diviene sapere collettivo. Chi c’era, a Genova, sa. Chi ha vissuto le manifestazioni a difesa del nostro ordine costituzionale, anche.  Ma – e non sono pochi – gli altri?

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