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Scritto il 24/7/11

«Guai se gli alpini proteggono Tav, mafia e ladri»
di Giorgio Cattaneo

Dov’è finito il “sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern? Difficile credere che, oggi, si rassegnerebbe a fare la guardia alle ruspe del “non-cantiere” per la Torino-Lione. E l’amico tenente Nuto Revelli, quello della “guerra dei poveri”? Anche lui sarebbe già passato, come suo figlio Marco, dalla parte dei No-Tav. Due grandi scrittori italiani, entrambi alpini. Due esemplari narrazioni sulla follia della guerra, cui tentò di opporsi – anche sotto i colpi dell’artiglieria, nella steppa russa, a quaranta gradi sotto zero – l’indomita umanità alpina, l’esercito dei soldati montanari. «Ghe rivarèm a baita?», domanda l’alpino disperso nel gelo, senza poter immaginare che un giorno, sui monti valsusini, proprio la “baita”, il rifugio familiare, sarebbe stato assediato: dalla polizia e, nientemeno, dalle penne nere.

Il dispiegamento a Chiomonte della fanteria alpina, 150 uomini della brigata Taurinense provenienti da Kabul, scuote in profondo il sentimento popolare e suscita sconcerto tra i vecchi alpini in congedo, pronti a sfilare dal 24 luglio – “armati” del cappello con la penna nera – di fronte ai nuovi soldati di mestiere, che i No-Tav ribattezzano “professionisti della guerra” o addirittura “mercenari”, come fa il blog “La valle che resiste”, che ne ha intervistati parecchi nel videoclip editato alla vigilia dell’arrivo del contingente. «E’ la fine dello spirito alpino, fatto di fratellanza e vicinanza rispetto alle popolazioni di montagna», protesta un ex ufficiale: «Credo che mettere gli alpini a controllare un cantiere che non esiste in una valle come la nostra sia uno sfregio nei confronti dei valligiani, e di noi valligiani alpini».

L’ex ufficiale è pronto a sfilare di fronte ai reticolati eretti al di là della Dora Riparia, sfidando gli uomini della Taurinense: «Dimostrerò loro che il vero spirito alpino è il nostro, non quello delle truppe di occupazione. E poi scriverò una lettera al ministero della Difesa e al Corpo d’Armata per manifestare il mio dissenso». Va giù pesante un ex commilitone, dell’artiglieria da montagna: «Sono sconvolto: non avrei mai pensato che gli alpini potessero venire a presidiare un non-presidio della mafia, perché le ditte che hanno questo presidio in mano sono ditte mafiose». L’ex artigliere alpino è sconfortato: «Già non posso accettare che gli alpini facciano servizio di vigilanza in Torino con lo sfollagente», figurarsi se ora sono ridotti al ruolo di polizia militare nella sua valle: «Ci sarà la mia lettera di dimissioni dall’Ana, l’associazione nazionale alpini, e per me il cappello da alpino sarà una cosa da appendere al chiodo».

«Gli alpini sono un corpo speciale che dovrebbe tutelare il territorio, non combattere la gente che ci vive», protesta un altro alpino, con indosso il cappello con penna nera e nappina rossa. «E’ uno sproposito che vengano su a cercare di allontanarci dal nostro territorio: gli andrò davanti col cappello alpino, per confrontarmi con loro». Ancora più esplicito un “vecio”, con indosso un cappello gremito di decorazioni: «Noi alpini siamo per proteggere l’Italia, non i ladri. Non posso approvare una cosa del genere: io sono contro quegli alpini lì, perché non sono veri alpini, servono solo a proteggere i nostri caporioni, quelli che comandano l’Italia, che comandano i soldi. Andrò davanti a loro: per far vedere che il nostro cappello aveva un valore, il loro no: serve solo a proteggere i ladri, e basta».

Al presidente dell’Ana, Corrado Perona, preoccupato che i veterani della valle di Susa si lascino «strumentalizzare» e coinvolgere in manifestazioni «di carattere politico», forse sfugge che quegli “anziani” con la penna nera sono gli stessi che, dopo il servizio militare, sono accorsi in prima linea, nei ranghi della protezione civile, a sostenere popolazioni colpite da terremoti, alluvioni, emergenze umanitarie: come potrebbero restare indifferenti di fronte ad una maxi-infrastruttura percepita come una minaccia devastante per la loro stessa valle e inquinata da accuse di affarismo spregiudicato? Passi tutto, o quasi, ma non lo spettacolo degli alpini della Taurinense, il battaglione Susa, a sbarrare il passo alla popolazione valsusina, attorno a cui la politica – centrodestra e centrosinistra – ha fatto il vuoto. Persino la Lega, quella di “padroni a casa nostra”, che un tempo sfilava a Susa con le bandiere No-Tav, ora sta dall’altra parte: il presidente del Piemonte, Roberto Cota, sostiene che i No-Tav sono «i peggiori nemici della valle di Susa», come se esistesse una maggioranza silenziosa favorevole alla Torino-Lione.

E’ la stessa musica che suonano il Pdl e soprattutto il Pd, che continua a non spiegare la pretesa utilità dell’alta velocità fra Italia e Francia, e al tempo stesso conduce un’accanita campagna di ostilità sistematica nei confronti del movimento valligiano. «Criminalizzazione e disinformazione», accusano i No-Tav, che riguardo al simbolico “assedio” della notte tra il 22 e il 23 marzo precisano: «Il nostro unico fuoco è stato un falò, i principi di incendio sulla montagna erano originati dai candelotti lacrimogeni sparati dalla polizia; in ogni caso li abbiamo spenti noi e non certo i loro idranti, impiegati solo contro i manifestanti e non per spegnere le fiamme. I giornali possono scrivere quello che vogliono, ma chi è sul territorio la verità la conosce».

La conoscono sicuramente anche i vecchi alpini della valle di Susa. L’associazione delle penne nere li minaccia di scomunica? Nessun problema: molti di loro appenderanno il cappello al chiodo, perché una lunga stagione – fatta di solidarietà nazionale sotto forma di “spirito alpino” – sembra davvero finita per sempre. Con buona pace di Nuto Revelli, che si impegnò tutta la vita nel riesumare l’oscura sorte dei “poveri cristi” mandati al macello su tutti i fronti, e di Mario Rigoni Stern, che – finché ebbe voce – si spese per denunciare la strisciante militarizzazione del mondo, l’ipocrisia delle nuove “guerre umanitarie”. I vecchi alpini della valle di Susa hanno tenuto duro, tra missioni di solidarietà e festosi raduni, come quello di Torino della scorsa primavera, nell’anniversario dell’Unità d’Italia: una festa tricolore che ora, a loro, lascia in bocca un sapore amaro e beffardo.

Non si scherza, con le penne nere: nemmeno in valle di Susa. Uno dei comandanti della Resistenza, l’editore filatelico Giulio Bolaffi, un ebreo che invece di espatriare in Svizzera scelse di restare tra Chiomonte, Venaus e il Rocciamelone a vedersela a fucilate con tedeschi e fascisti, era addirittura venerato dai suoi partigiani. Li faceva combattere in uniforme, con in testa il cappello alpino. La missione: difendere la valle, i paesi, la “baita”. Quello che la politica non vuole ammettere sta già avvenendo, nonostante tutti i depistaggi mediatici: gli abitanti pretendono il rispetto della loro elementare sovranità democratica. «L’epoca dei sudditi è finita, qui ci sono cittadini», annunciò Erri De Luca un anno fa da un presidio No-Tav. Anche così la valle di Susa trova il modo di parlare direttamente all’Italia. Nel caso, indossando il cappello alpino.

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