Internazionale
numero 907, 22 luglio 2011

Un viaggio disperato alla ricerca di cibo
di Azad Essa
Al Jazeera, Qatar
Traduzione di Giusi Muzzopappa.

La cittadina di Dobley è la prima tappa per i somali diretti al campo profughi di Dadaab. Molti arrivano qui dopo aver viaggiato per giorni. Reportage dal confine tra Kenya e Somalia.

Il camion ondeggia lentamente lungo la pista polverosa arrancando verso il posto dove potrà fermarsi. I mucchi di borse rosse di paglia, i fagotti di vestiti e le taniche gialle per l’acqua legati sul retro sovrastano i volti preoccupati che spuntano dai pannelli di metallo colorati. Con una frenata rumorosa il camion si ferma all’ombra di una grande acacia.

Sappiamo che a bordo ci sono delle persone dirette a Dadaab, il campo profughi più grande del mondo, ma quando l’autista scende e apre il portellone posteriore ci rendiamo conto che dentro c’è un’intera comunità. “In questo camion ci sono circa quaranta famiglie”, dice l’autista. Dal veicolo escono almeno quaranta adulti e settanta bambini, molti dei quali piccolissimi. Appaiono terrorizzati ed esausti.

Benvenuti a Dobley, una cittadina di quindicimila abitanti a un chilometro e mezzo dal confine con il Kenya, l’ultima tappa per migliaia di somali che vogliono lasciare il paese. Nell’ultimo mese sono passate di qui circa ventimila persone, molte viaggiando su camion come questo.

Allestiti nel 1991 per ospitare novantamila profughi della guerra in Somalia, i tre campi che compongono il complesso di Dadaab (Dagahaley, Ifo e Hagadera) oggi ne ospitano più di 380mila. Si calcola che almeno altre 40mila vivano fuori dal perimetro del campo, al di fuori della giurisdi­zione e del controllo delle Nazioni Unite.

“Sono disperati e affamati, vogliono andare in Kenya e io li ho portati qui”, spiega l’autista del camion, che preferisce rimanere anonimo per paura dei miliziani di Al Shabaab, un gruppo islamista che combatte per rovesciare il governo federale di transizione (Tfg) e cerca di impedire ai somali di abbandonare il pae­se. L’autista ci racconta che per il viaggio dal distretto di Bu’aale, quattrocento chilometri percorsi in 23 ore senza fermate, ha voluto dieci dollari da ogni adulto. Negli ultimi quattro mesi ha fatto questo percorso sei volte. “La strada è dissestata, le persone sono estremamente affamate, stanno male e vomitano. Così il viaggio diventa particolarmente difficile”, dice.

Medinah, Burwaqo e Hussain
Medinah Abdi, 21 anni, ha partorito il giorno prima di partire. Quando scende, si stende dietro il camion per allattare il neonato, accarezzandogli il viso con la punta delle dita. Tra il rumore che ci circonda, il suo silenzio sembra racchiudere tutta la sua storia. Burwaqo Norwo, 25 anni, madre di sei figli, è più preoccupata: “Nei due giorni prima della partenza non abbiamo trovato niente da mangiare. Il viaggio è stato terribile. Il camion era pieno di gente e di cattivi odori. I bambini facevano la pipì, qualcuno vomitava, e tutti eravamo affamati, con lo stomaco completamente vuoto”.

Hussain Mohamed Ibrahim, 56 anni, in viaggio con due mogli e nove figli, ha perso le sue quaranta mucche a causa della siccità, la peggiore degli ultimi sessant’anni. È stato costretto a fuggire e per pagare il viaggio ha venduto il suo unico cammello. Ora è felice di essere sceso dal camion, uno degli almeno quindici convogli che arrivano a Dobley ogni giorno. Nella cittadina, completata la prima tappa del loro viaggio, le famiglie si riposano e poi cercano un modo per raggiungere i campi dall’altra parte del confine.

Adnan Dahir Hassen, il capo dell’amministrazione locale, racconta di avercela messa tutta per gestire gli arrivi. “Come potete vedere, stanno arrivando troppe persone dal sud della Somalia. Cerchiamo di mantenere la situazione sotto controllo per farle sentire al sicuro, condividendo con loro quel poco che abbiamo”, afferma Hassen, mentre il pianto dei bambini appena arrivati rende l’atmosfera ancora più pesante. Secondo Hassen è triste che tanti somali lascino il paese, ma fermarli sarebbe disumano.

Dobley è sorvegliata da cinquemila soldati del governo transitorio, appena tre mesi fa però era in mano ai combattenti di Al Shabaab che l’avevano occupata nel 2009. “Quest’esodo si sta verificando proprio perché il governo ha assunto il controllo della città”, dice Hassen, senza ironia. “Queste persone hanno bisogno di cibo e di medicinali ma noi non ne abbiamo. Dopo aver riacquistato le forze, viaggeranno ancora per giorni da qui a Dadaab. E noi non glielo impediremo”.

La città non ha nulla da offrire per convincerli a rimanere. L’ospedale locale, un tempo sede di un campo di Al Shabaab, è crivellato dai fori dei proiettili. Gli altri edifici amministrativi sono scoperchiati e hanno buchi enormi nelle pareti, a testimonianza dei duri scontri tra le forze governative e gli Al Shabaab. Le strade polverose vicino al mercato e al pozzo centrale portano i segni della lotta che la città sta combattendo contro le macerie della guerra: macchinari bruciati giacciono dietro i cespugli, la spazzatura è sparsa dovunque sull’erba secca. Stormi di enormi marabù aspettano pazientemente di afferrare qualsiasi cosa si muova in mezzo alla sporcizia.

Come nel resto della Somalia centrale e meridionale, anche Dobley paga il prezzo della carestia, ma il fatto di essere vicina al confine aumenta la pressione sui suoi amministratori. Succede lo stesso a Liboi, la città più vicina sul versante keniano. Un anziano di Liboi racconta che alcune famiglie, anche se hanno a malapena da mangiare per loro, riescono comunque a racimolare qualcosa per i rifugiati. “Hanno bisogno e questo lo capiamo, ma non è sempre facile trovare qualcosa”, dice.

Un buco nero
“È una siccità di proporzioni inimmaginabili, come non succedeva da decenni”, afferma Abdi Nasir Serat, il portavoce delle truppe governative nella regione somala del Basso Juba. La guerra civile l’ha resa ancora più devastante. “È stata la guerra a mettere in fuga queste persone, che vanno in cerca di condizioni di vita più sicure”, dice Serat.

Secondo gli operatori umanitari a Da­daab, molti rifugiati sono partiti in seguito alle minacce di Al Shabaab. Si parla di intimidazioni ai contadini e di rapimenti di ragazzi costretti a unirsi ai miliziani. La maggior parte dei nuovi arrivati a Dadaab sono donne e bambini. I pochi uomini rimangono a sorvegliare quello che resta del bestiame o a combattere nella guerra civile.

Nonostante il trauma del viaggio e il complicato processo di registrazione nei campi, che a volte può durare giorni perché le procedure cambiano in continuazione, chi raggiunge Dadaab è fortunato. Norwo, madre di sei bambini, e Ibrahim, padre di nove, non hanno particolari aspettative. “Siamo talmente affamati, disperati e poveri che non abbiamo idea di dove andare. Il problema principale è la fame e la nostra speranza più immediata è il campo profughi”, dice Norwo. Per quanto caotico possa essere il complesso di Da­daab, se Norwo e Ibrahim riusciranno a portare i figli in tempo per ricevere le cure mediche, probabilmente li avranno salvati dalla morte per fame. Dadaab è la scelta migliore perché a Dobley, come in altre zone del sud della Somalia, non ci sono infrastrutture per gestire la carestia e l’assistenza medica è insufficiente. Gli abitanti di Dobley devono andare a Liboi per ricevere le cure necessarie.

Probabilmente Dadaab è riuscita ad attirare l’attenzione della comunità internazionale ma la Somalia continua a essere un buco nero agli occhi del resto del mondo. Più di due milioni di somali soffrono la fame e i profughi interni sono circa un milione. Il fatto che nel paese operino poche organizzazioni umanitarie – a causa dell’insicurezza e delle difficoltà amministrative, ma anche del fatto che Al Shabaab le ha costrette a lasciare il paese – ha creato un circolo vizioso. In assenza di organizzazioni internazionali, i mezzi d’informazione si disinteressano alla Somalia e non danno notizie sulle condizioni nel paese.

Così la comunità internazionale non si sente sollecitata a inviare aiuti. Un somalo su tre ha bisogno di assistenza e, secondo quanto denunciato dalla Fao a marzo, un bambino su quattro è malnutrito. Secondo Serat, se tornassero le organizzazioni umanitarie si potrebbe evitare la catastrofe in alcune zone del paese. Negli ultimi vent’anni è stato estremamente difficile lavorare in Somalia ma il governo transitorio sta facendo pressioni sulla comunità internazionale perché torni a occuparsi del paese.

Di recente i miliziani di Al Shabaab hanno dichiarato di essere disposti a far entrare le organizzazioni umanitarie nelle aree da loro controllate, anche perché, come riferiscono alcune persone interne al gruppo, perfino i combattenti islamisti subiscono gli effetti della carestia, che ha influito negativamente sulle loro possibilità di spostarsi, di fare provviste e sull’umore della popolazione civile. Questo potrebbe tradursi nell’effettiva possibilità per le organizzazioni umanitarie di stabilire una collaborazione efficace con il governo transitorio e Al Shabaab.

Mentre stiamo in piedi sotto un albero, a Dobley comincia a piovigginare. Dalle nuvole gonfie sopra di noi arrivano gocce rinfrescanti che filtrano attraverso le foglie. Ma poi, così com’era cominciata, la pioggia improvvisamente si ferma.

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