L Unita
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26/08/2011

Corno d'Africa stremato e nel silenzio le Ong lavorano per il futuro
di Savina Tessitore

Per rendere più efficaci i loro interventi ci sono organizzazioni umanitarie che si consociano e permettono ai cittadini di «monitorare» i propri contributi

Nel libro Povertà e Carestie: Saggio sui Diritti e sulle Privazioni (Milano, Edizioni di Comunità 1997), l'economista indiano Amartya Sen fa risalire al nono secolo la prima comparsa della carestia in Etiopia nelle fonti scritte. Da allora il fenomeno non ha più abbandonato le cronache: solo nell'ultimo decennio, a seguito di siccità ricorrenti e protratte nel 2000, 2003 e da ultimo nel 2008, l'ombra della carestia si è allungata più volte sul Corno d'Africa. Per chi osserva questi eventi da lontano è difficile non chiedersi se i recenti allarmi lanciati dalle agenzie umanitarie - il 9 agosto l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari stimava a 12,4 milioni le persone bisognose di assistenza - non siano il segno di un malessere strutturale che afflige queste zone dell'Africa orientale. Da qui a domandarsi se intervenire abbia alcuna utilità, anche considerando la difficoltà a raggiungere le popolazioni colpite che sono sotto gli occhi di tutti, il passo è breve. «La morte per fame è dovuta al fatto che gli individui non hanno abbastanza cibo per nutrirsi, e non al fatto che non esiste cibo sufficiente per nutrirsi» La famosa affermazione con cui si apre il saggio di Sen ci invita a considerare le carestie un fenomeno legato all'impossibilità di avere accesso al cibo, piuttosto che semplicemente a un fallimento nella sua produzione. Così, accanto al fallimento dei raccolti dovuto a piogge rese sempre più irregolari dal cambiamento climatico, diversi altri fattori impediscono a molti il consumo di un quantitativo giornaliero di alimenti sufficiente a evitare la deteriorazione fisica associata alla malnutrizione. La mancanza di cibo è provocata anche da una minore capacità di acquisto dovuta all'aumento globale dei prezzi del cibo e dei carburanti che influisce sui mercati locali, a un assottigliarsi del flusso delle rimesse causato dalla recessione mondiale, e a termini di scambio sempre più sfavorevoli per le comunità basate sulla pastorizia, maggioritarie nella regione. Rimaste senza altri mezzi di sussistenza, queste vendono i loro animali smagriti, e inondando i mercati abbassano ulteriormente il prezzo che ne ottengono, mentre può salire al contempo quello dei cereali. Ai 4,6 milioni di Etiopi, 3,7 milioni di Somali e 3,2 milioni di Keniani attualmente dichiarati bisognosi di assistenza non rimane che tentare di raggiungere i campi di Dabaab in Kenya (400,600 presenze) e Dollo Ado in Etiopia (118,300 presenze), centri di smistamento degli aiuti umanitari . Sul lungo periodo, l'assenza di adeguate politiche agricole e di sviluppo sostenibile contribuiscono a rendere le popolazioni vulnerabili alle carestie. Infine, e questo vale soprattutto per il territorio somalo, un permanente stato di insicurezza, esasperato dagli obiettivi strategici occidentali, non permette né lo sviluppo di sistemi di sostentamento integrati di lungo respiro, né interventi umanitari per proteggere le popolazioni vulnerabili, tanto meno in momenti di crisi come quello attuale. Cosa si può fare, dunque, di fronte a quello che non è un destino ineluttabile, ma il prodotto di precise circostanze storiche? Nel mondo del ventunesimo secolo, che produce cibo in eccedenza per sfamare tutti, le carestie sono uno scandalo insopportabile, e l'obbligo di prestare soccorso una responsabilità dei cittadini e di tutti i governi del mondo. Eppure, purtroppo, l'Italia si distingue - al pari di Lichtenstein, Cina, Nuova Zelanda e Monaco - per non avere risposto a nessuno dei tre appelli internazionali lanciati per raccogliere fondi per questa emergenza. Se per alcuni cittadini italiani questo potrebbe essere un motivo in più per mettere personalmente mano al portafoglio, sorge anche il legittimo dubbio che un contributo possa andare sprecato, che non riesca a raggiungere le popolazioni, e che comunque non sia rintracciabile, andandosi a perdere nel grande calderone di non meglio identificati e forse controproducenti aiuti ai paesi poveri. Quali sono dunque i modi migliori per contribuire, e quali garanzie abbiamo che i fondi stanziati vadano effettivamente a segno? Innanzitutto, dopo anni di errori e passi falsi, sono stati messi a punto sistemi che permettono da un lato la rintracciabilità dei fondi e dall'altro un loro uso più efficiente grazie al coordinamento tra le agenzie presenti sul campo. Un fondo internazionale di questo tipo è il Fondo Centrale di Emergenza (Cerf) delle Nazioni Unite, che raccoglie contributi volontari di governi, aziende, Ong e privati cittadini e li redistribuisce secondo il bisogno e le competenze alla rete di agenzie che opera nelle zone colpite, comprendente Onu, Croce Rossa, e Ong internazionali. Per il settore non governativo, in Gran Bretagna opera da tempo il Disaster Emergency Committee (Dec) che riunisce 14 grandi Ong impegnate nel settore umanitario e consorziate per assicurare una maggiore efficienza e trasparenza nella raccolta e l'uso dei fondi. Il sito di Dec, che è un modello in termini di accessibilità delle informazioni, rende pubblici i dettagli delle operazioni intraprese, comprese le spese e i rapporti di valutazioni independenti. Un altro gruppo di Ong che svolge un lavoro interessante e innnovativo e attualmente molto attivo nei paesi del Corno, è quello riunito sotto la sigla Calp (Cash Learning Partnership). E' ormai comunemente accettato, anche grazie agli spunti offerti dall'analisi di Sen, che di norma, e date alcune condizioni di base, la distribuzione di aiuti finanziari in contesti di crisi è preferibile per molti motivi a quella di cibo. Calp ricerca, sviluppa e scambia buone pratiche e informazioni sulla fattibilità di interventi di questo tipo, con l'obiettivo di assicurare dignità e possibilità di scelta alle persone colpite attraverso la distribuzione di moneta, che intanto stimola le economie locali e i mercati. In queste settimane le Ong consociate in Calp presenti in Kenya e in Etiopia convocano riunioni aperte a tutti gli interessati per monitorare i progressi dei loro interventi e le situazioni dei mercati locali, compresi quelli somali. Anche il loro portale (in inglese) è un esempio di trasparenza delle operazioni e vale la pena visitarlo per capire come almeno una parte dell'universo umanitario stia proponendo soluzioni inedite e imparando dagli errori commessi in passato. Infine, un ulteriore modo per assicurarsi che i soldi vengano spesi bene è donare a organizzazioni internazionali che operano da tempo sul territorio colpito. Tra le Ong più grandi presenti in Somalia, il paese dove la funzionalità delle operazioni è più a rischio, si possono segnalare Islamic Relief, Action Contre la Faim, Relief International e Oxfam N o v i b . N a t u r a l m e n t e a g i r e nell'emergenza non basta, e altrettanto urgenti sono le misure di lungo respiro. In primo luogo occorre migliorare la capacità di reagire ai sistemi di preallerta metereologica, che da mesi avevano previsto la siccità che vediamo oggi, e mettere in atto misure di mitigazione del cambamento climatico, la cui responsabilità ricade soprattutto sui paesi grandi produttori di C02. Anche la riduzione della povertà deve essere un obiettivo prioritario: in Kenya e in Etiopia sono in corso da qualche anno programmi di assistenza alle famiglie più povere che influiscono sulla sicurezza alimentare e con ogni probabilità stanno aiutando molte famiglie ad affrontare la crisi presente. Un flusso adeguato e regolare di aiuti allo sviluppo da parte dei paesi più ricchi contribuirebbe ad affrontare le cause strutturali della vulnerabilità delle popolazioni di questi paesi. L'aumento degli investimenti in un'agricoltura sostenibile, dopo anni di tagli al settore a livello nazionale e internazionale, sono un'altra meta auspicabile, che andrebbe perseguita dai governi africani e assistita dai paesi donatori e dagli organismi internazionali. A queste si dovrebbero affiancare specifiche politiche di sviluppo per la pastorizia che includano modifiche alle regole del commercio nazionale e internazionale e della circolazione delle merci e delle persone tra i paesi del Corno e limitrofi. Purtroppo anche nel campo degli aiuti allo sviluppo l'Italia si distingue per essere al penultimo posto tra i paesi Ocse, con un misero contributo dello 0.16% del Pil. Infine, in Somalia, dove la crisi è più acuta e pervicace, sopratutto dopo l'undici settembre, l'occidente ha considerato prioritari i propri obiettivi d i d i f e s a c o n t r o u n p r e s u n t o "terrorismo transnazionale", rendendosi parte in causa nel conflitto. Dovrebbe, al contrario, restituire priorità alla sicurezza delle popolazioni somale, e sforzarsi di assisterle a uscire da decenni di insicurezza a partire da quella che è la realtà locale e riconoscendone la complessità. Se lo spazio umanitario in Somalia è oggi così ristretto, è anche a causa dell'uso politico che per anni è stato fatto degli aiuti. Il contrasto tra l'alta intensità della carestia in Somalia e la sua presenza molto ridotta nel vicino Somaliland, con analoghe condizioni socio-economiche e ambientali ma retto da un governo eletto a suffragio universale, è un'indicazione dell'importanza dei fattori politici nello sviluppo delle carestie. Gli appelli internazionali per la raccolta di fondi vengono lanciati sulla base del fabbisogno stimato, e per ora solo il 48% di questa cifra è stato coperto. Prevenire le carestie si può, ma per il momento il soccorso è necessario, e forse un dovere di tutti.

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