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08/01/2011 11:23

Un incubo per Israele: la diplomazia pacifica per uno Stato palestinese
di Arieh Cohen

Tel Aviv (AsiaNews) - Proprio ieri il Cile ha riconosciuto lo Stato palestinese “all’interno dei confini del 1967”, cioè all’interno dei territori sotto occupazione israeliana dalla guerra israelo-araba del giugno ’67.

Pochi giorni fa, alla fine del 2010, il presidente dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas (noto anche come Abu Mazen) ha addirittura inaugurato la sede della nuova ambasciata della Palestina in Brasile, un Paese che diviene sempre più influente negli affari internazionali. È stato infatti il Brasile il primo Paese a riconoscere lo Stato palestinese “all’interno dei confini del 1967”. Altre nazioni latinoamericane hanno seguito l’esempio del Brasile ed è molto probabile che altre nazioni ancora, in America Latina e altrove, faranno la stessa cosa nel prossimo futuro. Abu Mazen ha posto questi sviluppi nel contesto della ricerca della pace con il vicino Stato di Israele. Egli ha pure sottolineato l’attuale assenza di un serio sforzo verso la pace e ha chiesto nuove idee e nuove iniziative, data l’infruttuosità del precedente “processo di pace” che non sembra mostrare alcun “processo”.

Questi importanti sviluppi – impensabili fino a pochi anni fa – sono un passo ulteriore nella strategia innovativa di Abu Mazen e del suo stimatissimo premier, Salaam Fayyad, per terminare l’occupazione e giungere alla libertà dei territori occupati con mezzi pacifici e attraverso una paziente diplomazia. I due statisti hanno presieduto al rifacimento delle istituzioni pre-statali palestinesi nella West Bank, guadagnandosi il rispetto di Stati Uniti, Europa e altri.

Insieme col resto della leadership essi non lasciano alcun dubbio sul fatto di essere soddisfatti con circa il 22% di ciò che essi considerano la patria palestinese – i territori occupati da Israele nel ’67 – garantendo il pieno riconoscimento dello Stato di Israele all’interno dei suoi confini, che comprendono il rimanente 78% della Palestina storica. Ovviamente – ed è inevitabile – essi sottolineano che è impossibile negoziare con Israele, mentre Israele continua ogni giorno a espandere i suoi insediamenti nei territori palestinesi occupati, “consumando” così quel territorio che dovrebbe essere liberato alla firma di un trattato di pace. Negoziare in queste condizioni - essi dicono - non è credibile.

In effetti, Israele ha rifiutato perfino le suppliche pressanti degli Stati Uniti a “congelare” le attività degli insediamenti, anche solo per 90 giorni, per dare una possibilità ai dialoghi di pace. Gli americani stessi sono fortunati che Israele abbia rifiutato il limite dei “90 giorni di congelamento”: infatti, l’amministrazione Usa aveva frettolosamente offerto al premier Netanyahu di non chiedere ulteriori estensioni del “congelamento” allo scadere dei “90 giorni”. Se Netanyahu avesse accettato si sarebbe creata una situazione impossibile. Infatti, dato il volume dei problemi da affrontare, i negoziati di pace non si sarebbero potuti concludere in soli tre mesi. Così, alla ripresa delle colonizzazioni al 91° giorno, i palestinesi sarebbero stati costretti a ritirarsi dai dialoghi e gli Stati Uniti sarebbero stati considerati stupidi se non avessero chiesto ancora una volta ad Israele di “congelare” gli insediamenti.

Il riconoscimento all’Onu

Per Abu Mazen e per Fayyad, lo stallo ha confermato la saggezza della loro strategia diplomatica. Tale strategia ha tre tappe. La prima è quasi completa ed è la costruzione di istituzioni nazionali credibili sotto il manto dell’Autorità palestinese (un’istituzione ad interim, riconosciuta da Israele, per l’amministrazione semi-autonoma di parti dei territori occupati). La seconda tappa è in atto e riguarda l’acquisire il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Stati individuali. La terza e ultima tappa è in preparazione. Essa tende a una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per riaffermare che le attività delle colonie israeliane nei territori occupati sono illegali. Tale risoluzione – che potrebbe essere introdotta il mese prossimo - è pensata in termini sobri, senza troppa retorica anti-israeliana, per rendere difficile un veto degli Usa e un non voto per gli altri Paesi. Gli Usa potrebbero astenersi, dicendo che essa non è “tempestiva”, non “opportuna”, o “non efficace in questo momento”. Ma se nella risoluzione non vi è molto di più che la diretta applicazione delle leggi internazionali (che proibiscono in modo assoluto a un potere occupante di insediare elementi della sua popolazione in territori occupati) e qualche riferimento alle passate risoluzioni del Consiglio di sicurezza, come potranno gli Usa giustificare un veto arrendendosi alle richieste di Israele? E senza un veto Usa – e con il voto favorevole della maggioranza, o di tutti i membri – la bozza diverrà una risoluzione vincolante del Consiglio di sicurezza Onu. In seguito – e questa è la quarta tappa – quando un buon numero di Paesi (non nemici dichiarati o avversari di Israele) avrà riconosciuto lo Stato palestinese “all’interno dei confini del 1967”, verrà il tempo per tale Stato di chiedere l’ammissione alle Nazioni Unite stesse.

Da qui succederanno molte cose. La prima è che ogni intervento di Israele nelle aree governate dallo Stato di Palestina (cioè le aree attualmente amministrate dall’Autorità palestinese) saranno internazionalmente considerate delle aggressioni contro un altro Stato. In più, i negoziati per il recupero dei territori attualmente occupati saranno considerati non negoziati fra un “movimento di liberazione nazionale e uno Stato, ma fra due Stati, di uguale dignità e legalità, uno dei quali (Israele) mantiene sotto un’occupazione belligerante porzioni significative del territorio dell’altro (la Palestina).

Certo, la strategia è ambiziosa, ma la prima ondata di riconoscimenti mostra che essa può essere vittoriosa.

La leadership palestinese sente anche che questa è per ora l’unica strategia possibile. Le sue possibilità di successo si basano su due premesse: che in concreto, il mondo sia d’accordo con questo scopo, e cioè la libertà per i palestinesi in uno “Stato all’interno dei confini del 1967”; e secondo, che il mondo sia d’accordo sul fatto che ogni attività dei coloni israeliani nei territori occupati è illegale.

In più, sempre più Paesi – anche in occidente – pensano che nelle presenti condizioni, giungere a uno “Stato all’interno dei confini del 1967” attraverso negoziati bilaterali è semplicemente un caso disperato.

Il premier Netanyahu insiste che i negoziati bilaterali solo l’unica via, ma la credibilità della sua posizione è minata proprio dalla colonizzazione israeliana in corso nei territori del futuro Stato palestinese. Il mese scorso, tale credibilità ha ricevuto un ulteriore smacco – forse fatale – quando Avigdor Liebermann, ministro degli esteri, parlando a un’assemblea di ambasciatori israeliani nel mondo, ha dichiarato che le affermazioni di Netanyahu sono non solo sbagliate, ma anche impossibili e non sarebbero mai sostenute dal consiglio dei ministri.

Se le cose stanno così – e se Abbas e Fayyad riescono a mantenere il controllo delle loro istituzioni e della loro gente – non è improbabile che i riconoscimenti a catena del loro Stato divengano una valanga impossibile da fermare e porti in modo inevitabile al riconoscimento della Palestina da parte dell’Onu. In queste circostanze, gli Stati Uniti potranno vedere come non fattibile – perfino non utile – l’opporsi, isolandosi dai loro amici e alleati.

Israele in controffensiva

Come confermato dal ministro degli esteri, il governo israeliano non è d’accordo su cosa fare, ma di sicuro è d’accordo su cosa gli altri non devono fare. La prospettiva del riconoscimento internazionale di un pacifico “Stato palestinese all’interno dei confini del 1967” (che in passato sarebbe stato accolto con gioia o almeno con sollievo) ora appare ad Israele come “uno scenario da incubo”, forse quasi quanto quello di un Iran “nuclearizzato”. L’intero apparato diplomatico israeliano ha ricevuto ordini di emergenza di fare tutto il possibile – e anche di più – per ostacolarlo. I diplomatici israeliani nel mondo hanno ricevuto ordine di mettere in guardia i Paesi con cui hanno relazioni diplomatiche e avvertirli che il riconoscimento della Palestina distruggerebbe le possibilità della pace (sebbene non sia facile capire come). E non è tutto: nel suo ormai famoso discorso agli ambasciatori, Liebermann ha minacciato i palestinesi che essi sarebbero stati puniti (“col bastone”) se continuano nelle loro iniziative diplomatiche. Tali minacce non sono parole vuote. Israele controlla ogni aspetto della vita nei territori occupati della West Bank, compresi “benefits” ed “eccezioni” – ufficiali e non ufficiali – per i membri della leadership (definiti “VIP” sulle loro carte di identità). Mesi fa, per esempio, Abu Mazen ha ordinato al suo rappresentante presso il Consiglio Onu per i diritti umani a Ginevra, di ritirare il sostegno a una mozione critica verso Israele. Secondo i media, ciò è avvenuto perché il presidente era stato minacciato personalmente dal capo dei servizi di sicurezza israeliani. Alcuni media dicono che la minaccia era il togliere l’autorizzazione a una compagnia per la vendita di cellulari, che apparteneva al figlio di Abu Mazen. Ciò ha scatenato uno scandalo enorme tanto da rendere necessaria una commissione d’inchiesta. L’inchiesta ha stabilito l’innocenza del presidente, ma la storia, vera o falsa, mostra il grado di controllo che Israele può esercitare.

Agitare “il bastone” per sopprimere tali iniziative diplomatiche non violenti e pacifiche compromette l’immagine di Israele. Fino a che si impongono dure restrizioni sui palestinesi per prevenire violenza e terrorismo, l’occidente in genere capisce e accetta, anche se vi è sempre dibattito – perfino all’interno di Israele – se certe misure sono proporzionate e necessarie. Ma agitare il bastone per sopprimere un’iniziativa pacifica e diplomatica, è un’altra questione, perfino per gli amici di Israele e per gli israeliani stessi.

Sopprimere questa iniziativa diplomatica potrebbe in poco tempo mettere in crisi la sicurezza di Israele: essa porterebbe molti palestinesi a disperare che ci sia una fine all’occupazione e che si possa guadagnare la libertà con mezzi pacifici. Ciò porterebbe a delegittimare l’attuale leadership palestinese e a seminare una nuova violenta rivolta e magari a ripetere nella West Bank il vero incubo che è stata l’esperienza della Striscia di Gaza, tuttora in mano di un’organizzazione terrorista senza scrupoli e dei suoi ancor più crudeli alleati.