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19 luglio 2012

Il miraggio del consumo sostenibile. Gli anticorpi? «In un movimento di resistenza sociale»di Luca Aterini

A confronto con il sociologo Carlo Carboni: «Le nuove idee appaiono più deboli di quelle vecchie...»

 «Cambiamenti drastici nei modelli di consumo» sono altamente improbabili nel prossimo futuro, «perché la finanza è entrata prepotentemente nelle geometrie delle nostre vite quotidiane, esattamente come la tecnologia». Carlo Carboni (Nella foto), sociologo dei processi economici all'università politecnica delle Marche, nel suo caustico intervento sul Sole 24 Ore corrode le aspettative di una conversione sostenibile della società dei consumi; auspicando regole per gli eccessi della finanza, al contempo individua nella sua pervasività un tracciato dal quale non immagina possibile tornare indietro. Greenreport.it l'ha contattato per un confronto sul tema.

Come per la tecnologia, un passo indietro della finanza rimane inverosimile solo nella misura in cui questa reca reali benefici alla società e all'individuo, non crede?

«Mi sembra difficile che con la crisi riusciamo a trasformarci in tricksters, per usare un'espressione di De Certeau, i quali giocano come tutti con la merce e il consumo, ma "non se la bevono" e cercano di svicolare o reinterpretare le regole dei mercati. Difficile perché non abbiamo dei mercati e una cultura del consumo eticamente orientati. La cultura del consumo attenta alla sostenibilità ambientale e alla solidarietà sociale ha mosso i suoi primi passi solo da pochi anni e, oggi, il fair trade vale in Italia all'incirca mezzo miliardo di euro e coinvolge non più di 150.000 persone nelle varie alternative di consumo solidale.

Il capitalismo finanziario ci ha immerso tutti nell'immaginario visivo come sostiene Maffessoli, nelle cosiddette economie finzionali e mediatiche, le quali spostano il nostro immaginario dai simboli alle immagini e all'estetica che hanno alimentato e spinto l'iperconsumo. Negli Usa, negli ultimi 20-30 anni, il turbo capitalismo a trazione finanziaria e tecnologica ha cercato di contrastare il declino retributivo delle classi medie con il credito al consumo e i facili guadagni di una borsa sempre in ascesa: una sorta di finanziarizzazione delle aspettative sociali da cui non sono apparse immuni le società europee.

Oggi questa finanziarizzazione del sociale subisce un duro colpo con la crisi e il credit crunch, ma la tensione che si crea tra continuità e rottura non sembra, per ora, risolversi a favore della seconda. Esattamente come le nuove idee appaiono più deboli di quelle vecchie, seppure queste sono in debito di ossigeno finanziario e di liquidità. All'inizio della crisi, sembrava possibile un salto cognitivo ed emotivo e si diceva che "nulla sarà come prima" della crisi. Ma, a parte recenti provvedimenti adottati da Obama, in Europa il benessere dei cittadini europei resta sotto il tallone dei creditori. Anzi, qualche incauto opinionista ricorda che alla base della crisi finanziaria non ci sarebbero le agenzie di account o il dispotismo arbitrario della finanza e dei grandi monopoli bancari, ma la società americana dei desideri e dei subprime. Come vede è difficile introdurre i necessari momenti di rottura».

La cultura individualista, fondata sul denaro come fine (e contemporanea alla finanza ad alta velocità) ruota attorno ad «aspettative di rapida "realizzazione"». Da questo punto di vista, ritiene che di questo problema culturale di fondo (magari particolarmente visibile nella società italiana) la degenerazione finanziaria sia espressione, o concausa?

«E' il solito falso problema: nato  prima l'uovo o la gallina? La tensione tra individuo e collettivo  è esplosa con l'avvento del benessere e il primo ha trovato conforto maggiore nella cultura individualista neocon piuttosto che nelle ideologie e  pratiche collettivistiche. Come in Italia: dall'angoscia collettiva di un paese da ricostruire a beneficio di tutti si è passati alle ansie battenti di realizzazione individuale. In specie la sinistra, in astinenza ideologica, non ha saputo cogliere questo passaggio epocale della modernità».

Nel suo articolo inanella «l'industrializzazione in salsa welfarista-keynesiana» a «tatcherismo, liberismo e capitalismo finanziario»: il primo espressione di una «società di ceto medio», il secondo del rampante individualismo. Cosa si aspetta possa uscire, invece, da questa età di mezzo nella quale galleggiamo?

«Purtroppo penso che il galleggiamento durerà ancora qualche anno: nel frattempo occorre evitare di "andare sotto" e bere troppo, altrimenti si rischia di affogare. Le soluzioni non sembrano ancora perseguite con convinzione e la stessa exit strategy di cui si è parlato fino agli incendi finanziari della scorsa estate, sembra sparita dall'agenda dei governi.  D'altra parte, i fallimenti del mercato e dello stato sono sotto gli occhi di tutti e ciò che si può sperare è che la società si tempri e cresca in questa crisi: insomma che si formino nuovi anticorpi in quel movimento di resistenza sociale che  Karl Polanyi aveva descritto magistralmente ne La grande trasformazione.

Sinceramente, vedo interessante la prospettiva di una big society che sappia, con accresciuta competenza,  rimodellare le proprie istituzioni intermedie e di rappresentanza. L'ho scritto ne La società cinica (Laterza): spero nella società civica, nella cittadinanza competente che finirà per prevalere su quella cinica e "furbetta" del rampantismo e delle scorciatoie».

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