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19 Maggio 2012

Il dissidente Chen a New York: non è una “vittoria”
di Federico Rampini

Contrariamente alle apparenze, l’arrivo di Chen Guangcheng (foto) stasera negli Stati Uniti non è un “lieto fine”. E’ invece la soluzione del minimo danno per il governo cinese. Pechino ha un’antica esperienza in questo campo: sa che i dissidenti una volta rifugiati all’estero contano poco o nulla. Controprova: quanti di voi conoscono il nome di qualche dissidente cinese che vive negli Stati Uniti o in Europa o in altri paesi democratici, se escludiamo dalla categoria il Dalai Lama? In un certo senso “conta di più” il premio Nobel Liu Xiaobo rinchiuso nel suo carcere, di tanti esuli che sono ospitati nelle università americane e finiti nell’oblìo. Per la censura di Stato è ancora più facile “cancellare” i dissidenti che vanno all’estero, aggiungendogli l’etichetta dei traditori della patria. Perfino i mass media occidentali tendono a dimenticarsi di loro, una volta che non sono più in Cina a sfidare il regime. Del resto la richiesta iniziale di Chen, quando fuggì dagli arresti domiciliari e si rifugiò sotto protezione diplomatica Usa, era di poter rimanere nel suo paese recuperando le libertà che gli erano negate. Ovvio che per l’Amministrazione Obama sarebbe stato assai più arduo – forse impossibile – negoziare quel genere di garanzie con il governo cinese, che poteva rimangiarsele subito. L’esilio negli Stati Uniti fa comodo un po’ a tutti, purtroppo non fa avanzare la causa della libertà e dei diritti umani.

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