Prefazione ad un “capolavoro”[1]

Il lettore mi permetterà un piccolo aneddoto. Nel 1954 Alberto ed io ci siamo incontrati per la prima volta a Firenze, grazie ad una gentile signora inglese venuta in Italia per matrimonio. Era il tempo della guerra fredda che ci preoccupava tutti e tre, e lei ci fece accomodare nel suo bellissimo salotto chiedendo ad Alberto in quale sedia volesse sedere, in questa o in quella? Se una di queste sedie avesse rappresentato una cattedra (in inglese chair significa tutte e due le cose), una di metodologia delle scienze sociali e l’altra della ricerca per la pace, la risposta sarebbe stata evidentemente a favore di tutte e due. E proprio lo stesso sarebbe stato per me: ambedue sarebbero diventate passioni e, come per Alberto, mi avrebbero portato ai fondamenti di tutte e due.

Questo libro è il risultato di una lunga vita di viaggi dalla semplicità delle metodologie–epistemologie importate dalla meccanica per esplorare la complessità della realtà sociale, e la ricerca della corrispondenza tra l’oggetto ed il soggetto che cerca di pensare, parlare e agire nei confronti della realtà di cui fa parte egli stesso.

L’Abate porta il lettore, attraverso i molti dilemmi con i quali si scontra la ricerca sociale, a quattro metodi di analisi, quattro paradigmi di base : la causalità, lo strutturalismo, il funzionalismo e l’analisi processuale. Molti altri hanno fatto questo percorso arrivando però ad una forte propensione a favore di uno di questi contro gli altri. Al livello della riflessione matura di L’Abate questo tipo di polarizzazione, ben nota dagli studi sui conflitti, la violenza e la pace, non ci porta da nessuna parte. Tutti e quattro i metodi di analisi hanno meriti e demeriti, ma se “possiamo vederli come metodi particolari che si arricchiscono a vicenda, allora possiamo fare notevoli passi avanti”. Come, in un conflitto, una piccola prova rivelerà qualche legittimità nelle posizioni di tutte le parti, c’è qualche validità in tutte, se vengono sistemate in una metodologia creativa, più ampia.

E L’Abate ci guida, oltre l’occupazione intellettuale favorita, identificando gli errori e le mancanze, verso nuovi e più ricchi orizzonti.

 Alfaz, Febbraio 2009 Johan Galtung



[1] Quando all’autore del libro è arrivato il testo, in inglese, della prefazione di Galtung egli è restato sconcertato dalla definizione di “Masterpiece” che, in italiano, non si può tradurre che come “capolavoro”. Essendo conscio, infatti, sia dei pregi che dei limiti e dei difetti di questo testo, non aveva il coraggio di usare questo termine nella traduzione italiana. Perciò ha scritto a Galtung proponendogli di tradurre questa parola come “opera magistrale”. Galtung ha subito risposto accettando questa traduzione ma definendola “un po’ debole”. Al chè l’autore ci ha ripensato ed ha deciso di utilizzare il termine originario di Galtung, ritenendo di non aver diritto di modificare, in qualche modo, il giudizio di quello che è generalmente riconosciuto come uno dei padri fondatori di questo ramo di ricerca, ed uno dei più grandi maestri di studi per la pace, il cui insegnamento è stato fondamentale per la elaborazione di tutto questo lavoro.

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