Introduzione

Questa è una introduzione ai metodi della ricerca, in particolare sui problemi della guerra e della pace, nel senso classico della parola, di "intra-ducere", ovvero del "portare dentro". Essa vuole infatti aiutare l'allievo a capire meglio, ed entrare, in modo secondo me più valido, nel mondo di una ricerca non fine a se stessa ma orientata alla soluzione (nel termine originale di “sciogliere”) del problema guerra e delle sue conseguenze sul mondo attuale e sulla nostra vita quotidiana.

Spesso le introduzioni sono testi semplici, scritti per principianti che vogliono iniziare a studiare un argomento, senza lo sviluppo di concetti o idee complesse. Questo non è per niente vero in questo caso. Alcuni degli argomenti trattati, come quelli su comprensione e spiegazione, o sul processo di osservazione, ecc. sono tra i più complessi cui ci si può trovare di fronte studiando le scienze sociali. E, pur sforzandomi di essere chiaro - ma non so se ci sono sempre riuscito - questi sono stati da me trattati senza concessioni al linguaggio divulgativo, ed alla semplificazione di concetti che, proprio perchè complessi, rischiano di essere annullati o distorti se sottoposti ad una operazione di semplificazione. Per questo ho cercato di dar atto di posizioni anche contrastanti sui vari argomenti per aiutare lo studente a vedere le varie sfaccettature, o punti di vista diversi, di un problema. Secondo la mia opinione questo dovrebbe servire ad aiutarlo a comprendere la complessità della società moderna nella quale, per riprendere il linguaggio di Morin (1984,1985), i concetti una volta antagonistici ed alternativi (quali, ad esempio, ordine/disordine, consenso/conflitto, centralizzazione/decentramento, ecc.) coesistono e si vivificano reciprocamente.

In complesso si può dire che questa introduzione sviluppa argomenti che nei normali manuali di metodologia - che spesso più che sui metodi sono centrati sull'illustrazione delle tecniche di ricerca - sono di solito o non sufficientemente trattati, od anche trascurati del tutto. Questo è vero, per esempio, per i concetti di paradigmi e di modelli di società, che la mia esperienza di ricercatore ha mostrato essere di estrema importanza all' interno del processo di ricerca, e sui quali molti dei manuali di metodologia, o danno solo un rapido cenno, o non ne parlano affatto. Questa introduzione cerca inoltre di sviluppare i metodi di analisi della realtà sociale che di solito sono considerati impliciti nel cosiddetto "metodo scientifico", ma che, secondo me, richiedono invece di essere analizzati e sviluppati perchè quel cosiddetto "metodo", lungi dall' essere chiaro e valido in tutte le circostanze, va sostituito invece con metodi diversi, ognuno dei quali permette di vedere parte della realtà da analizzare: infatti solo con l'unione di più metodi si può comprendere appieno la realtà che ci circonda. L'ultima parte del libro è appunto dedicata ai metodi che considero fondamentali, e cioè l'analisi causale, quella strutturale, l'analisi funzionale, e quella processuale, o sistemico-processuale. Il testo dà invece solo un rapido accenno alle tecniche di osservazione, non sviluppate ed analizzate qui non perché poco importanti, ma perchè sono al centro di tutti i manuali di metodologia della ricerca che si possono trovare sul mercato, e sono rimandate perciò allo studio in uno di questi testi (come, ad esempio il Baley,1985; S. Phillipps, 1971; A.  Carbonaro,  G. Ceccatelli, D. Venturi, 1989, Punch, 1998, ecc.)

In questo periodo nel quale una grave crisi economica mondiale ha messo in seria discussione lo stesso modello di sviluppo capitalistico che sta accrescendo gli squilibri tra ricchi e poveri, sia all’interno dei singoli paesi, sia a livello mondiale, e nel quale si crede, ingenuamente, che basti mettere qualche regola in piu’ per controllare e rimettere in moto lo sviluppo del capitale, e’ molto importante, da una parte, ascoltare gli ammonimenti degli studiosi che hanno approfondito i problemi del mondo, dall’altra attrezzarsi seriamente per fare ricerche sulla prevenzione dei conflitti armati, e per lo sviluppo della pace, come stiamo cercando di fare con questo libro.

Tra i primi e’ importante ricordare che già nel 1942, Kumarappa (1946,1984), l’economista di Gandhi, aveva sottolineato i limiti dell’economia capitalista e mostrato le possibilità di una economia diversa, sostenibile (lui usava il concetto di “permanente”), basata sui principi della nonviolenza e del rispetto e del benessere di tutti gli esseri umani, e non solo dei piu’ ricchi. Nel 1972 gli studiosi del Club di Roma hanno ripreso questo tema, e riallacciandosi agli studi di Malthus, nel loro “I limiti dello sviluppo” (D,H. Meadows, D.L.Meadows,.J. Randal, W.W. Behrens III, 1972) sostengono la necessita’ di controllare lo sviluppo attuale che accresce il benessere economico, ma che tende a peggiorare la qualita’ della vita, e mette in forse non solo la sopravvivenza della umanita’, ma soprattutto il fatto “se potra’ farlo senza ridursi ad un’esistenza indegna di essere vissuta”. Si vedano anche i risultati della Commissione internazionale presieduta da Stiglitz (2009) che sottolinea l’assurdita’ di credere che l’accrescimento della ricchezza, misurata tramite il PIL (Prodotto Interno Lordo), possa misurare il reale progresso dell’umanità. Su questa stessa scia il rapporto del Worldwatch Institute: “State of the World 2010”’ che mostra come lo sviluppo economico dei paesi ricchi abbia portato la terra nella quale viviamo ad un livello di insopportabilità, e come sia necessario il superamento della cultura del consumismo, per passare invece a quella della sostenibilita’. Scrive, a questo riguardo, C. Flavin, Presidente dell'Istituto, nella sua prefazione al libro “Non c'é dubbio che le culture del consumismo sono alla base di quello che è stato chiamato il “grande scontro” tra un pianeta finito e le infinite domande della società umana. Più di 6.8 miliardi di esseri umani stanno richiedendo sempre maggiori quantità di risorse materiali, decimando i più ricchi ecosistemi del mondo, scaricando ogni anno nell'atmosfera migliardi di tonnellate di gas che intrappolano il caldo. Malgrado l'incremento dell'efficenza delle risorse del 30% negli ultimi tre decenni l'utilizzo delle risorse globali si è accresciuto del 50%” ....Mentre il consumismo resta potente e trincerato non può con ogni possibilità dimostarsi durevole come la maggior parte delle persone ritiene. Le nostre culture stanno infatti già seminando i semi della propria distruzione. Alla fine l'istinto di sopravvivenza dell'essere umano deve trionfare sull'istinto a consumare ad ogni costo” (Ibid. pp XXVIII-XIX). Si veda anche la bella introduzione di G. Bologna alla traduzione italiana di questo rapporto (2010).

 Importante, da questo punto di vista, la ricerca di due epidemiologi che mostrano come lo sviluppo economico dei paesi ricchi abbia portato, in questi, un notevole accrescimento di indicatori di malessere, come disordini mentali, dipendenza da alcool e da droghe, obesita’ e malattie a questa connesse, alti livelli di criminalita’ e di violenza, alti tassi di suicidi, ed una forte sfiducia nel prossimo e nelle istituzioni. Gli autori di questo libro, intitolato “La misura dell’anima”, (R. Wilkinson, K. Pickett, 2009) mostrano come alcuni dei paesi piu’ ricchi del mondo, come gli USA e la Gran Bretagna, con un grande distacco al loro interno tra i pochi ricchi ed i molti poveri, abbiano indicatori di malessere molto elevati, molto peggiori di altri paesi nei quali invece le disuguaglianze sono molto minori, come la Svezia ed il Giappone. E sottolineano percio’ l’importanza non tanto di un incremento della ricchezza quanto di uno sviluppo basato sulla giustizia e sul superamento degli squilibri sociali. Ma come sottolineano gli ecologi del Worldwatch Institute, l'attuale elevata produzione industriale ed anche i grandi allevamenti di animali legati all’alto consumo di carne dei paesi sviluppati, tendono a creare seri problemi all'ambiente del nostro pianeta ed a provocare cambiamenti di clima e altri fenomeni atmosferici imprevisti (cicloni, uragani, ecc. ecc.). Ma secondo loro tutti gli ammonimenti fatti finora sulla necessita’ di modificare l’attuale modello di sviluppo, con le sue conseguenze negative sull'uomo e sull'ambiente, non sono serviti a nulla e non sono stati sufficienti a modificare questo andamento. Perciò essi ritengono che sia necessaria una piu’ generale comprensione del modo con il quale le culture si modificano, ed una vera e propria rivoluzione culturale che trasformi l’attuale cultura del consumismo in un sistema di valori che promuovano una cultuta basata sulla sostenibilità. Da questo punto di vista e’ molto importante anche la lettura del libro di J. Friedmann che gia’ nel 1991 (1996, 2001, 2005) aveva previsto l’attuale crisi economica e sociale, ma che, oltre a mostrare i limiti dell’attuale modello di sviluppo, dava anche indicazioni molto concrete per uno sviluppo alternativo, sostenibile, piu’ giusto e piu’ umano.

Ma questa rivoluzione culturale non puo’ non riguardare anche il problema della guerra e della prevenzione dei conflitti armati, ed i metodi di ricerca su questi temi che sono al centro di questo libro. Infatti questo accrescimento degli squilibri sociali ed economici, connaturato con l’attuale modello di sviluppo, e con quella violenza strutturale da molto tempo denunciata da Johan Galtung (Galtung J, Hoivic T, 1971), come fonte di guerre e di terrorismi di vario genere (sia da parte degli stati per difendersi da quelli che loro chiamano i veri terroristi, sia da parte di questi ultimi per difendersi dalla violenza strutturale che li opprime), ha portato il mondo in uno stato di insicurezza mai visto prima, e con costi elevatissimi. Per questo ultimo aspetto si pensi al costo delle nuove macchine (body scanner) per controllare i viaggiatori in partenza negli aeroporti - macchine che fanno la gioia dei progettisti, costruttori e venditori, ma per niente quella dei poveri cristi che ci devono passare sotto - ed all'elevatissimo numero di personale addetto alla sicurezza alle partenze ed agli arrivi degli aerei. Ma i risultati di questi ripetuti controlli sono abbastanza scarsi, sicuramente inferiori a quelli che si potrebbero ottenere con un reale cambiamento della politica dei paesi cosiddetti sviluppati. In tal senso circa una sessantina di gruppi e movimenti nonviolenti italiani hanno scritto a Barack Obama, appena eletto come presidente degli USA: ”In questo momento di profonda recessione, ci auguriamo che Lei sia convinto, come lo siamo noi, del fatto che l’attuale situazione del mondo richiede un cambiamento totale di politica estera con una riduzione fortissima delle attuali spese militari, e l’incremento invece di quelle a scopi civili. Come ha scritto il Pastore evangelico tedesco Bonhoeffer (fucilato dai nazisti per la sua tenace opposizione al regime) “le armi uccidono anche se non vengono usate”. Infatti i soldi impiegati nella costruzione di armi, oltre a servire per uccidere esseri umani e distruggere beni fondamentali, sono tolti allo sviluppo sociale ed economico, accrescono il divario tra ricchi e poveri, e portano ad una occupazione molto inferiore a quella che si avrebbe se gli stessi fondi fossero impiegati a scopi civili. Anche il programma da lei meritoriamente annunciato di riconvertire l’intera economia statunitense dall’attuale dipendenza dalle fonti fossili, rovinose per l’ambiente, alla fonte solare sarà difficilmente realizzabile a causa delle elevatissime spese militari”

E proseguono i nonviolenti italiani:.“[tali spese] d’altro canto, non consentiranno di cogliere l’obbiettivo che viene invocato a loro giustificazione, quello cioè di combattere il terrorismo perché, anzi, non faranno che incrementarlo. Il suo paese, pur avendo solo il 5 % della popolazione mondiale, utilizza per le armi e per la guerra quasi la metà di tutte le spese mondiali in questo campo. Ed i paesi ricchi del G8, tra cui il nostro, insieme ai due paesi dell’Asia che stanno seguendo il modello di sviluppo occidentale (India e Cina), pur non raggiungendo tutti insieme nemmeno la metà della popolazione mondiale, utilizzano oltre l’80% delle spese mondiali di questo settore. Questo squilibrio di spese militari nei rapporti internazionali, soprattutto quando sono aperti conflitti annosi, come quello tra Israele e Palestina, se i paesi che spendono meno per gli eserciti e le armi non vogliono accettare il dominio di quello che è stato definito il “nuovo impero”, e non scoprono l’efficacia di portare avanti una lotta di tipo nonviolento, fa sì che essi siano costretti ad inventare nuove armi, efficaci, ma poco costose, capaci di colpire al cuore l’avversario. E queste nuove armi sono i cosiddetti “kamikaze”, che, fanatizzati, si immolano uccidendo molte persone facenti parte del campo avverso, oppure il collocamento di bombe e di altri ordigni mortali in treni o in altri gangli vitali della società occidentale, come è successo, oltre che in Usa, in Spagna ed in Inghilterra, e come si teme spesso succeda anche in altri paesi, compreso l’Italia. Questo ha portato il livello di insicurezza della vita del singolo cittadino di tutti i paesi del mondo ricco, che pure, per difendersi, hanno la maggior parte e le più potenti armi del mondo, ad un livello mai raggiunto finora. Il mondo ricco risponde aumentando e potenziando le sue armi, ed incrementando perciò lo squilibrio di potenza armata tra sé e gli altri, che, a loro volta, rispondono intensificando le proprie attività di tipo terroristico. E’ un circolo vizioso che va superato”. (Tikkum,1, 2009, e Transcend, 2008 )

Eppure anche per questo aspetto non sono mancate, e non mancano, serie ricerche che potrebbero aiutare ad uscire da questa empasse. Alcuni anni fa un ingegnere statunitense, che ha progettato le innovative cupole geodetiche che sono state costruite a Parigi ed a Montreal, Blackmuller Fuller, attraverso un suo istituto specializzato nello studio di questo tema, lo World Game Institute (si veda il sito dell'Istituto), ha calcolato che con poco meno del 30 % delle spese militari annue mondiali si sarebbero potuti eliminare, in circa 30 anni, tutti i grandi problemi dell'umanità, dalla morte per fame, l'analfabetismo, la mortalità infantile, l'inquinamento ambientale, la mancanza di democrazia, ecc., ecc. E più recentemente Lester Brown, fondatore e Presidente della Earth Policy Institute, nel suo libro “Piano B2.0” (2003, 2006), riporta dati ancora più ottimistici. Secondo le sue ricerche, infatti, i fondi annuali, necessari a livello mondiale per raggiungere gli obbiettivi di assistenza sociale di base come: scuola primaria per tutti, sradicamente dell'analfabetismo adulto, programmi di refezione scolastica per i 44 paesi del mondo più poveri, assistenza ai bambini prescolari ed alle donne incinte nei 44 paesi più poveri, salute riproduttiva e pianificazione familiare, assistenza sanitaria di base per tutti, produzione e diffusione di preservativi, sarebbero di 77 milioni di dollari annui. I fondi necessari invece per il risanamento degli ecosistemi terrestri, quali: piantare alberi per ridurre le inondazioni e conservare il suolo, piantare alberi per sequestrare la CO2, proteggere il suolo delle aree agricole, recuperare le zone a pascolo, recuperare le riserve ittiche, proteggere la diversità ecologica, stabilizzare i livelli della falda idrica, sarebbero di 110 milioni di dollari annui, con un totale generale di quello che Brown definisce il Piano B, di 187 milioni di dollari annui. Il confronto fatto poi da Brown tra i budget militari mondiali nel 2008, porta ad una spesa annua mondiale di 1464 milioni di dollari (di cui solo gli USA 607) contro i circa 190 del suo piano B (circa un terzo dell'attuale bilancio degli USA e solo il 13 % della spesa mondiale in questo settore). Ma per evitare che anche questi suggerimenti ed ammonimenti cadano nel nulla, come paventato dagli studiosi del Worldwacht Institute, Brown dà anche delle indicazioni molto simili a quelle da me sottolineate in un recente libro (L'Abate, 2008) e cioè l'importanza di quello che lui definisce il modello di cambiamento sociale “a sandwich” - che io chiamo invece del “doppio binario”- che ha un buon potenziale per cambiamenti rapidi. In questo ”un potente movimento dal basso spinge per cambiamenti in un particolare aspetto, mentre una forte leadership politica lo appoggia pienamente dall'alto“ (Brown, 2003, 2006).

Ma tutto questo richiede non solo che la popolazione sia pienamente cosciente dei rischi che subiamo, ma anche che si sviluppino serie ricerche per la pace che mettano a fuoco non solo i rischi delle guerre ma anche le potenzialità dei metodi di risoluzione o trasformazione nonviolenta dei conflitti armati, con l'obbiettivo di fondo di sviluppare l'arte della previsione e prevenzione dei conflitti armati che è attualmente molto trascurata. In un convegno internazionale su questi temi uno studioso esperto di questi problemi ha accennato al fatto che a livello mondiale si spenderebbe per la prevenzione dei conflitti armati solo 1 € contro almeno 10.000 € per fare le guerre. Se si continua così non ci si potrà meravigliare che il futuro dell'umanità sia pieno di guerre e di violenza (L’Abate A., 2012).

Mi auguro che questo mio sforzo possa aiutare lo studente ed il lettore in genere a capire la complessità del mondo della ricerca, ma anche la sua bellezza, e l'importanza di questa per una vera comprensione del mondo che ci circonda, e che lo invogli a proseguire nel mestiere o nella funzione di ricercatore sociale che cerchi, attraverso i suoi studi, di comprendere, ma anche di trasformare, il mondo che lo circonda, lavorando anche lui per avere un mondo meno pieno di guerre di quello attuale.

Fin qui, con alcune aggiunte ed un aggiornamento al 2012, la premessa al testo delle dispense che per moltissimi anni (dal 1992 fin verso il 2002) gli allievi del corso di “Metodi e Tecniche della Ricerca Sociale” della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze, che seguivano il mio corso, erano tenuti a studiare per passare l’esame. Con la nascita, grazie anche alla mia iniziativa, del corso di laurea triennale, interfacoltà, per “Operatori di Pace” (poi diventato ”Operazioni di Pace, Gestione e Mediazione dei Conflitti”[1]) ho avuto l’incarico di insegnamento di ”Metodologia della Ricerca per la Pace”, valido anche per la laurea specialistica della Facoltà di Scienze Politiche di Firenze, in “Metodologia e Ricerca Empirica per le Scienze Sociali”. Ma pur aggiungendo a voce molti esempi delle ricerche empiriche in questo campo portate avanti, per molti anni, nel seminario da me annualmente organizzato di “Ricerca per la Pace”, il testo delle dispense è restato uguale. In questa versione  queste esemplificazioni, tratte da molte delle ricerche in questo campo fatte da me stesso, e dai molti allievi che hanno fatto piccole ricerche per il mio esame o da quelli che, con me, si sono laureati con tesi di ricerca anche molto impegnative su questi argomenti, sono state finalmente inserite, per rispondere coerentemente al nuovo nome della materia insegnata in questi ultimi anni. Ed alla conclusione è stato aggiunto un capitolo, anche questo, almeno in parte, elaborato in esercitazioni con i miei allievi, nel quale il problema della guerra è analizzato secondo le quattro metodologie di ricerca e di analisi da me individuate nel testo, e cioè, come detto prima, l’ analisi causale, strutturale, funzionale e processuale. Questo per confermare e far comprendere meglio la tesi del testo che questi metodi non sono alternativi l’uno con l’altro, ma complementari, mostrando ciascuno di essi una delle faccie di un problema, e che solo attraverso l’uso congiunto delle quattro metodologie il problema della guerra, in questo caso (ma questo vale anche per altri problemi, da me studiati in precedenza, come quello delle malattie mentali) può essere compreso nella sua profondità. Se ci sono riuscito, o meglio, se ci siamo riusciti, o meno, saranno i lettori a dircelo. Come si vede in questo rigo talvolta uso il termine singolare “io”, ed altre volte quello plurale “noi”. Il lettore non si spaventi, non è per omaggio al “noi” di mussoliniana memoria, ma perché molte idee e molte ipotesi e le loro verifiche empiriche, riportate nel testo, sono nate all’interno del seminario di ricerca da me organizzato, e spesso con il contributo attivo sia dei miei collaboratori che dei miei allievi stessi.

Una considerazione anche sul termine usato per la materia insegnata, e per parte del titolo del libro in italiano, e cioè “ricerca per la pace”. In inglese il termine usato è “peace research” che spesso viene tradotto, in italiano, con il termine, neutro, di “ricerca sulla pace”. La scelta di usare invece, in italiano, il termine “ricerca per la pace”, è determinata da un approccio valoriale, che verrà scientificamente motivato nel cap. 1 della terza parte del libro dedicato a questo problema, e cioè dalla idea che non si possono mettere sullo stesso piano guerra e pace come se fossero equivalenti tra di loro, come spesso fanno molti sociologi o politologi. Come dicevo in altro mio libro (L’Abate, 2008), “questi studiosi confondono “obiettività”, che è un requisito fondamentale di un ricercatore scientifico, con “neutralità” che è una scelta politica, ideologica essa stessa. Come si può infatti essere neutrali tra un governante che opprime il suo popolo, ed il popolo oppresso, senza cadere nel vizio ideologico di appoggio al più forte, a colui che ha in mano le redini del potere?” (ibid. p.5).

Mi auguro che anche questo problema, e questa scelta, venga confermata dal lettore che si sarà avventurato nello studio di questo testo, con la speranza che questo libro possa servire a diffondere una cultura più rispondente ai tempi in cui viviamo che ha portato John Kennedy, allora presidente degli Stati Uniti, nel suo messaggio alle Nazioni Unite (25 Settembre 1961) a sostenere che “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”.

 In questo momento, in cui in Italia, ed in molti altri paesi del mondo, si stanno moltiplicando i corsi di laurea o i master di studi per la pace e per la mediazione dei conflitti, - spesso uniti a quelli per la cooperazione allo sviluppo, che sono strettamente correlati a questi dato che non si può avere pace senza un modello di sviluppo diverso dall’attuale che si regge solo grazie alle alte spese militari per la sua difesa - mi auguro che si vogliano approfondire anche le metodologie di ricerca utili a questi studi. Lo studio di queste tematiche, e di una metodologia a questi connessi, è reso anche indispensabile dal fatto che in molti paesi si stanno organizzando servizi appositi, sia nelle amministrazioni comunali, provinciali, e regionali, sia in certe camere di commercio, od anche altrove, per la prevenzione, la risoluzione o la mediazione dei conflitti nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, o all’interno delle singole famiglie. E che tutto questo sta portando alla nascita di nuove professioni come gli operatori di pace, i mediatori dei conflitti, gli animatori di gruppo e di comunità, i giornalisti per la pace, gli operatori di corpi civili di pace, questi ultimi espressamente preparati a prevenire i conflitti armati, ed a riconciliare tra di loro di ex nemici, ecc. ecc. Dato che, come sostengo nel primo capitolo di questo libro, le metodologie di “ricerca con”, o della “ricerca-azione” sono tra le più importanti proprio per cercare di portare avanti questi obbiettivi, mi auguro che questo libro possa servire a migliorare il livello qualitativo dell’operatività delle persone che in questi servizi andranno ad operare, nella speranza che tutto questo possa servire a ridurre, almeno un poco, il livello attuale di violenza e di conflittualità che si può riscontrare nel nostro, ed in molti altri paesi, in tutti questi settori. E questo anche in vista della necessaria organizzazione, (se si comincia a pensare seriamente che la violenza e la guerra, invece di portarle avanti, è bene prevederle e prevenirle) di centri di ricerca e di formazione specializzati in questo campo, come ne esistono in alcuni paesi del mondo, e che dovrebbero essere presenti ovunque, e come alcuni progetti di legge cercano di far organizzare anche in Italia (AA.VV, 1999 ).

Atlanta (Georgia), USA, 15 Giugno 2010



[1] Più recentemente il corso si è unificato  con quello di cooperazione allo sviluppo, della Facoltà di  Economia, diventando  uno dei due  curriculum, gestiti da quattro Facoltà: Economia, Scienze della Formazione, Scienze Politiche, Medicina..

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