http://serenoregis.org
ottobre 25, 2012

Violenza. Riflessione sulle cause e possibili soluzioni
di Enrico Peyretti

1 Che cosa è violenza? É offesa materiale o morale alla dignità e ai beni

Che cosa è la violenza? È la disposizione e l’atto del violare, cioè del non rispettare (respicere), ed è quindi l’oltrepassare di forza, senza diritto, quello spazio di rispetto (fisico o morale) che garantisce, pur nella relazione, la non-dipendenza di altri da me, in ragione della loro alterità e dignità. Essi sono degni, hanno un loro diritto e valore che non sta, e non può stare, nelle mie mani, nella mia dispomibilità.

Un’invisibile dignità, merito e diritto dell’essere, è in forma eminente e consapevole nella persona umana, ma è anche nella natura viva, negli animali senzienti, tanto più se comunicanti con noi. Pensiamo a come è violata oggi sistematicamente la natura, corpo comune a tutti i viventi, la cui offesa si ripercuote sulla vita e sul bene comune generale.

Possiamo reciprocamente invitarci, accoglierci, concederci, e allora è l’abbraccio, l’invito, l’ospitalità, non è il reato di “violazione di domicilio”, non è la violenza fisica. L’invasione non gradita infligge una sofferenza fisica o morale, che degrada anche chi fa violenza.

La violenza tocca senza rispetto (Albert Schweitzer, Rispetto per la vita, nel senso di venerazione) con un uso della forza non giusto né giustificabile. Prima di essere fisicamente distruttiva, infine mortale, la violenza calpesta una zona, anche invisibile, di protezione. Una teoria che disconosca o trascuri il diritto a questa protezione è già violenza, è una violenza mentale, prima che materiale.

Le teorie della diseguaglianza oggi sono il pensiero dominante e governante. Queste teorie affermano come naturale il privilegio dei forti e abili, e chiamano meritocrazia, premio al “merito”, quel vantaggio di puro fatto, e impongono ai deboli (persone e popoli) di rassegnarsi, se va bene, alla mera sopravvivenza: queste teorie sono violenza vera e propria. L’art. 3 della nostra Costituzione, il più tradito, enuncia il principio filosofico, morale, politico alternativo a questa violenza.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Abbiamo il felice dovere di riconoscere il valore dell’alterità e differenza, ma nell’uguaglianza dei diritti fondamentali.

Il fondamento della dignità è trascendente, non dedotto, è “mistero”. Mistero non vuol dire oscurità enigmatica, ma realtà superiore alla dicibilità, è l’ineffabile: lo colgo e non posso completamente argomentarlo, di-mostrarlo. Io non so e non misuro in cosa consiste quel misterioso valore, quindi non tocco, devo non toccare. Kant enuncia la regola riguardante la persona umana: è un fine e non solo un mezzo, uno strumento. L’imperativo morale primario è categorico, non condizionato. Ma anche l’universale “regola d’oro” della reciprocità di valore nei rapporti umani, è lo stesso “principio”, da cui dipendono e discendono le altre regole di vita, che si differenziano secondo le circostanze.

2 L’essenza della violenza è il dominio

Io capisco che cosa è la violenza se mi metto dalla parte della vittima, nel suo essere valore e dignità colpite dalla prevaricazione. Se guardo davvero la vittima dell’offesa, se guardo i fatti con i suoi occhi, se acquisto l’intelligenza della com-passione, allora vedo la giustizia mancata, da ristabilire, da restituire a chi ha patito ingiustizia. Vedendo l’offesa, riconoscendola come tale, vedo di riflesso il dover-essere della giustizia. La filosofia della società e della politica comincia dal guardare le vittime, per ripudiare la violenza, prima col cuore, quindi con la ragione e la volontà.

Siamo tutti inrelazione, mai senza gli altri, sempre gli altri influenzano noi come noi influenziamo loro. Eppure, proprio in ciò, la relazione è una buona relazione quando mirabilmente salvaguarda quel cristallo forte e fragile che distingue l‘uno dall‘altro, che rende non riducibile l‘uno all‘altro. La violenza sessuale, o la violazione di domicilio, sono immagini chiare di questo oltrepassamento, costitutivo di ogni violenza, anche psicologica, che viola lo spazio morale o fisico di altri. La relazione è buona quando è accoglienza, ospitalità, abbraccio, comunità, pace nella giustizia.

Non siamo uguali in forza e capacità. Un bambino ha bisogno e diritto di essere guidato, aiutato, anche con proibizioni. Ma ogni genitore sa bene la differenza tra guida e dominio, tra forza che conduce e violenza che opprime.

Ogni violenza èdominio, riduzionedialtrisottolapropriaforzaevolontàimperiosa. Dominio è l’altro nome della violenza, è la sua essenza, presente in ogni sua forma. Esso infatti è una struttura di diseguaglianza, dove lo spazio ei lrespiro di una parte è compresso e oppresso, utilizzato a vantaggio indebito dell‘altra parte. Un libretto di consigli per il successo portava questo buio e disperato titolo: O si domina o si è dominati. Per quanto si verifichi spesso, questo rapporto è il fallimento della relazione umana, e dunque di chi domina, ma anche di chi si rassegna.

Quando il dominio non è solo un atto, ma si fa struttura, esso configura una società imperiale, non di persone con pari dignità. La democrazia è il tentativo di passare dalla piramide imperiale al cerchio di libertà, uguaglianza, fraternità. Oggi la democrazia è sotto grave minaccia ad opera dell’impero della finanza senza regole e senza volto: le decisioni più influenti sulla vita sono prese in luoghi anonimi senza partecipazione dei cittadini. Anche la Chiesa cattolica ha il problema di «abbandonare il suo statuto imperiale» (teologa Cettina Militello, Roma 15 settembre), quella forma piramidale che le ha impresso l’abbraccio soffocante di Costantino, ad imitazione dell’impero romano, che non era la forma apostolica originaria, più fraterna e sinodale.

Ogni struttura di dominio produce pensiero dominante, che condizionailpensierodeldominato, fino a fargli pensare fatale, se non giusto, il dominio che subisce, e lo porta ad adattare la sua volontà nella rassegnazione: la “tirannia servitù volontaria” (da Étienne de la Boétie nel 1500 fino a Tolstoj e Gandhi, i quali concordavano, nella loro corrispondenza,1 sul fatto che «non gli Inglesi hanno preso l‘India, ma gli Indiani gliela hanno data» 2).

Tutto ciò riguarda concretamente le nostre azioni, il nostro pensiero, l’ethos che si struttura in una società umana, ma nello stesso tempo si fonda, o discende, da ciò che solo la sapienza spirituale sa cogliere, nel profondo del nostro essere, in ciò che simbolicamente diciamo il nostro “cuore”. Ogni tanto, qualche vita, qualche testimonianza, qualche parola, qualche tradizione, esprime un po’ più chiaramente quell’ineffabile, indicibile, e allora udiamo la parola profetica delle sapienze, delle religioni, delle saggezze umane, più veramente umane, che tutte contengono un messaggio di non-dominio, di nonviolenza.

La violenza, la riduzione sotto dominio, sono fatti insensati, che tolgono senso all’esistenza, perché la vita è comunione di vite, irriducibilmente uniche e comunicanti, davvero comunicanti se rispettate come uniche: siamo fatti gli uni per gli altri (come si trova in Genesi 44,30 e più volte in Marco Aurelio)3. Cercare gli altri, invocare gli altri, dedicarsi agli altri, è nello stesso tempo avvicinare e rispettare, è vicinanza e distanza, è presenza e libertà.

3 Distinzione tra forza e violenza

Mi pare utile distinguere la violenza dalla forza. I due termini si confondono spesso, anche volutamente, ma dicono realtà davvero diverse. La forza è un carattere della vita, della realtà. La violenza offende la vita e la realtà. La forza è costruttiva, la violenza è distruttiva. La vita è forza, la violenza toglie forza e vita alla vittima.

Di fronte alla violenza è necessaria la forza: quella della resistenza personale, e quella della società organizzata, la “forza pubblica”, per contenere e ridurre la violenza (forza corretta di polizia), non per usare contro la violenza illegale una violenza legalizzata (polizia violenta, esercito, guerra), che sarebbe male aggiunto a male. Lo Stato non ha il monopolio della violenza offensiva, ma della forza che si oppone alla violenza: la polizia è la forza della città, la polis, opposta chi violenta la città. Qunado la legge si fa violenza, la violenza diventa legge. Quando lo Stato fa guerra ai cittadini – Genova 2001 – lo Stato perde legittimità.

Perciò è essenziale la differenza tra polizia e guerra, e il male della attuale politica internazionale è di fare guerre invece che polizia. La guerra non ha legge – Bobbio: «è l’antitesi del diritto»4 – la polizia è soggetta alla legge al servizio della legge.

4 La nonviolenza è forza

Ma soprattutto, davanti alla violenza, è necessaria la forza umana che resiste alla violenza per superarla: è questa appunto la nonviolenza positiva e attiva, che è una forza: forza dell’anima, forza della verità (dell’attenersi alla verità conosciuta, continuamente correggendosi), cioè il satyagraha gandhiano.

Non basta certo il non-fare-violenza, che può essere anche la non-violenza del vile. Occorre la nonviolenza del forte, del coraggioso, di chi resiste con la volontà e col suo corpo, la sua vita; occorre l’unità dei resistenti, e la lotta che cerca la giustizia coi mezzi della giustizia (l’essere giusti) e cerca la pace coi mezzi della pace.

La nonviolenza non è solo il senza-violenza, ma è l’azione forte ed efficace per un fine giusto, con uso di mezzi omogenei al fine giusto: la resistenza, anzitutto morale, che non si avvilisce e non si rassegna davanti allo spettacolo imponente del male; la forza dell’unità di quanti non accettano la legge della violenza; l’ “arma della sofferenza” (Gandhi), capacità di soffrire più che far soffrire; l’amore per chi non ti ama e ti minaccia, per ri-umanizzare il nemico e ricondurlo alla sua vera umanità (terroristi “convertiti” dal perdono di Giovanni Bachelet, e dal card. Martini).

Ogni potere, anche violento, consiste in sostanza nell’essere obbedito. La disobbedienza civile, leale e coraggiosa, condivisa da molti, smonta il potere ingiusto e lo fa cadere senza violenza: le rivoluzioni nonviolente.

Su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale.5

Probabilmente sta crollando nei fatti il mito della violenza rivoluzionaria risolutiva. Non è vero che la nonviolenza attiva e lottatrice sia un’utopia, come crede il pensiero conformista. Ci sono molte esperienze storiche reali (v. bibliografia “Difesa senza guerra” in rete) e sempre altre se ne scoprono. Il problema è che si deve anche organizzarla, farla diventare politica: p. es. i Corpi Civili di Pace.

5 La dignità è inviolabile anche di fatto, non solo di diritto

Il fatto della violazione evidenzia una in-violabilità. La dignità deve non essere violata. Quel valore non riducibile ad oggetto, che è la persona e l‘aura della sua intoccabilità, è degna, merita, le è dovuto il rispetto.

L‘offesa, però, è sia possibile sia impossibile. Drammaticamente possibile. Essenzialmente impossibile. Un maestro buddhista, ad una donna profondamente offesa da molteplici violenze, osò dire, a rischio di ferirla ulteriormente: «Nessuno ti ha fatto nulla». Cioè, la tua dignità essenziale non è stata toccata, non poteva essere toccata.

La dignità è inviolabile di diritto, ma, a guardare in profondo, anche di fatto. L‘offesa fa risaltare la dignità. È un‘offesa proprio perché ha toccato l‘intoccabile. L‘offesa è un atto che deve - non-essere. Se questo si fa, nell’atto stesso si smentisce. Si rivela come falso. Per coglierne la falsità, occorre però una chiara coscienza della dignità, del valore da non violare, che può essere colpito, ma non può essere distrutto.

Lo spirito umano ha sempre in qualche modo intuito che la vita, persino se uccisa, non è annullata. C’è chi morendo fa vivere altri: Antigone (fa vedere la legge non scritta), padre Kolbe (offrendosi a morire al posto di un padre di famiglia, ha salvato in migliaia di prigionieri, che il sistema lager voleva ridurre a bestie affamate, la coscienza della propria dignità umana), Gesù (i cristiani sanno che vive e dà vita), Gandhi e altri martiri della giustizia (liberano popoli interi dalla rassegnazione).

In effetti, c‘è una comunanza fondamentale (compresenza, direbbe Capitini) delle vite: vita tua vita mea. L’ambiente culturale rafforza o indebolisce questo sentimento. Nelle più varie civiltà ed etiche di ogni tempo è presente e centrale la “regola d‘oro“, che fonda nell‘identificazione con l‘altrol‘etica universale capacedipreservarel’esistenza e la possibile felicità.6

Oltre l‘istinto di sopraffazione, abbiamo anche una naturale inibizione a offendere e svalutare l‘altro, che sentiamo valere come noi. Per superarla occorre un‘operazione culturale, la “costruzione del nemico” (che sempre precede la violenza organizzata), lade-umanizzazionedell‘avversario, in modo da figurarcelo meno che uomo, e poterlo distruggere non solo con licenza ma con merito.

L’impulso a salvare la vita altrui è innato, perché ciò è salvare la propria, cioè la qualità e umanità della propria vita. Pier Cesare Bori annota sull’etica confuciana: «Il sentimento dell’umanità, renzhixin, si esprime nel buren, “non sopportare le sofferenze altrui”».7

Il filosofo cinese Mencio (Mengzi, 372-289 a.C.) scrive:

«Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all’altrui sofferenza. (…) Supponi che vi siano delle persone che all’improvviso vedono un bimbo mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa reazione non dipende certo dall’esigenza di mantenere buoni rapporti con i genitori del bambino, né dal desiderio di essere elogiati da vicini ed amici, e neppure perché disturbino le grida del bambino. Da tutto questo si può arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e dell’indignazione, della deferenza e dell’acquiescenza, e del senso di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto».8

Nel caso della violenza, la vittima ha un valore che trascende la violenza, un valoreche rimane intatto dopol‘offesa, anzi esaltato dall‘offesa. Poiché l‘offesa doveva - non - essere, il valore offeso rimane, permanentemente rimane. Analogamente, il colpevole di offesa della dignità altrui, contraddice, ma non perde del tutto la propria dignità, e può restaurarla, dunque non può essere colpito da una pena solo vendicativa.

Se la dignità non è distrutta dall‘offesa, allora si tratterà di coltivare l‘importante capacità di renderci superiori (piùforti) alle offese ricevute, ma sensibili (più vulnerabili) alle offese fatte ad altri, al dolore altrui, per essere difensori e liberatori dell‘umano.

6 Il male non è natura, non è destino

Gandhi dà unarispostasaggia, chenon è semplicistica, adunlettore che ritiene lanonviolenzaimpossibileperchélaviolenza regna sullastoriaumana.9 Il male, per Gandhi, rappresenta gli strappi nel tessuto, e non il tessuto della vita, che altrimenti si sarebbe già distrutta. Non merita l’onore di una legge metafisica.

Per domare, anzitutto nel pensiero, la forza de lmale, bisogna avere forte coscienza del bene. Per questo Gandhi dice che non si può cercare la nonviolenza se non si crede in Dio, e per lui Dio è l‘unità profonda di tutte le cose, è un nome che diamo alla verità che tutto sorregge e tutto abbraccia, al di sotto e al di sopra dei dettagli belli o brutti del mondo.

Il primo riparo alla violenza che offende, la prima difesa dalla rassegnazione e sudditanza ad essa, è riconoscere il bene dell‘essere. Non l‘ingenuo, illuso (e stupido) dipingere tutto di rosa, ma una fiducia di fondo verso l‘interarealtà. Una fiducia che è un credito creativo, impegnato a vigilare, criticare e lottare, ma soprattutto a sviluppare e edificare vita su vita, bene su bene. Chi crede in Dio fa credito a Dio (al bene, al senso, al giusto). Ci sembra di essere più intelligenti e critici nel saper vedere il male più del bene, ma è vero il contrario. L’intelletto può essere usato come corrosivo del reale, invece che carezza illuminata, tale che nel “com-prendere” il “con” sia più grande del “prendere”. Ci sono una violenza e una nonviolenza anche dell‘intelletto.

Perciò diciamo no anche a quella violenza filosofica-antropologica che chiude l’essere umano in una immutabile natura cattiva: è questo il “sofisma machiavellico” (Balducci). L’uomo è buono o catttivo per natura? Balducci risponde: «La natura dell’uomo è la cultura». Quale cultura plasma le persone, nella storia e nelle società? Perciò l’azione che emancipa dalla violenza è l’educazione, la trasformazione, la mutazione antropologica dal dogma della competizione e rivalità al pensiero e alla esperienza della collaborazione.

(Pavia, Università, 17 ottobre 2012)

Note

1PierCesareBori – GianniSofri, GandhieTolstoj. Uncarteggioedintorni, IlMulino, Bologna 1985, pp. 93 e 192.

2Gandhi, HindSwaraj, [Autogoverno dell'India], 1909, cap. 7 (recentementeripubblicatoinMahatmaGandhi, Vispiegoimalidellaciviltàmoderna. HindSwaraj, Gandhiedizioni, Pisa 2009)

3Trovo strano che questa citazione importante sia difficilmente reperibile in internet.

4Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, (4a edizione), Il Mulino 1997, pp. 59, 66.

5 Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell’ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010. Le fonti di Drago sono: P. Ackerman e A. Karatnycky: How Freedom is Won. From Civic Resistance to Durable Democracy. Freedom House, Washington, 2005. M.J. Stephan e E. Chenoweth, Why Civil Resistance Works, International Security, 33, 1/2008, 7-44.  

6inServitium, n. 152, marzo-aprile 2004, Riconoscimentoedisprezzo, pp. 103-108 (s.egidio@servitium.it)

7Sulllanozionediren, Bori (vedi nota seguente) rinviaaScarpari, Laconcezionedellanaturaumana, inConfucioeMencio, Cafoscarina, Venezia 1991

8 Citato in PierCesareBori, SaverioMarchignoli, Perunpercorsoeticotraculture.Testiantichiditradizionescritta, LaNuovaItaliaScientifica, Roma 1996, pp. 55-56; secondaedizioneCarocci, Roma, 2003, p. 59. Credo che quel «non sono uomini…», nelle parole di Mencio, sia da intendere non nel senso apodittico, definitorio, tale da escludere dalla società umana, ma in senso descrittivo, come se dicesse: «non vivono all’altezza umana, contraddicono la loro natura umana».

9 CfrGandhi, Teoriaepraticadellanonviolenza, antologiaacuraeconsaggiointroduttivodiGiulianoPontara, Einaudi, Torino 1996, pp. 64-65.

top