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Martedì, 04 Settembre 2012 00:00

Un diritto in un perchè
di  Ilaria Zomer

Le radici dell'obiezione di coscienza e della resistenza a leggi ingiuste e poteri oppressivi affondano in una interrogativo semplice e diretto: un perchè che disarma e che è stato motore di rivoluzioni nonviolente.

Nel 1946 una delle sottocommissioni dell'Assemblea Costituente approva l'articolo 50 del Progetto di Costituzione, inserendo al comma due il cosiddetto diritto di resistenza, un diritto di resistenza alle oppressioni dei pubblici poteri. La proposta di articolo in particolare recitava: “Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è diritto e dovere del cittadino”.
Il comma, però, non passa il vaglio dell'Assemblea Costituente. Mancava, secondo i voti contrari, uno strumento istituzionale che permettesse di accertare quando la ribellione o resistenza risultasse legittima e quando illegittima e se, e in quale misura, potesse essere accettata anche una resistenza violenta. L'articolo non venne scritto.

Qualche decennio dopo, in un altro mondo ...
 Albania, villaggio di Zejmen, nella scuola superiore del villaggio sto realizzando un percorso educativo sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti e in particolare cerco di ragionare insieme ai ragazzi su di un conflitto che riguarda da vicino la loro società: le vendette di sangue. Siamo ormai al secondo incontro e vorrei trattare con loro il possibile effetto che può avere sull'escalation della violenza la pressione sociale a sostegno del proseguimento della faida e del mantenimento della tradizione. 
Li invito tutti a fare un piccolo esercizio: “Scrivete, ognuno su un foglietto, il valore che in questo momento è il più significativo della vostra vita, quello senza il quale non sareste più voi stessi, riassumete in una parola la vostra stessa essenza”.
 Una domanda difficile, tutti si guardano intorno spaesati, poi come un domino il primo inizia a scrivere e dopo poco l'unico rumore che si sente è la matita sulla carta.

Ora l'ordine è un altro: “Spiegate al vostro compagno di classe perchè quel valore, e proprio quello, è il più importante della vostra vita”.
 Mentre ascolto distrattamente l'insegnante che tesse le lodi dei suoi alunni lo sguardo vaga fra un ragazzo infervorato a sostenere che il rispetto è definitivamente il valore più importante per un uomo, al rossore delle guance di una ragazzina, minuscola, nel primo banco a destra, sul suo foglietto la parola amore, mentre la compagna, probabilmente la prima della classe, sostiene con cipiglio l'importanza dell'istruzione per diventare qualcuno.
 Questo è il momento che attendevo: “Ora scambiate il foglio con il vostro compagno. Avete tutti in mano la parola del vostro amico? Bene. Strappatelo!”. 
E' questione di un secondo e il rumore della carta strappata invade l'aula, scorro con lo sguardo il volto di ognuno, c'è chi ridacchia, chi prova un perverso piacere a strappare in piccolissimi pezzi il valore del compagno, chi semplicemente esegue con noncuranza, poi raggiungo un volto, è una ragazza in seconda fila, vicino al muro, si guarda intorno persa in mezzo a tutti quei frammenti di carta, poi guarda me, immobile. 
Il foglietto è ancora integro nella mano che alza per prendere parola. 
Semplicemente mi chiede:“Pse? Perchè?”.

C'è chi ha fatto rivoluzioni per questo perchè, per il semplice sorgere di un dubbio.
 Qualcuno non si è accontentato di eseguire ciò che la legge, l'autorità, la famiglia, l'uomo, la tradizione, la religione diceva. Qualcuno ha resistito appunto.
 Chi ha liberato Stati grandi quanto un continente senza la violenza per questo perchè?
 Chi è andato in tribunale e chi in prigione per questo perchè?
 Questo è il perchè i diritti umani sono patrimonio di ognuno di noi, il perchè si manifesta in Val di Susa contro un treno e in Cile contro una diga, il perchè in Spagna si riuniscono giovani e si fanno chiamare Indignados e Occupy Wall Street.

La mia stessa esperienza di Servizio Civile è frutto di uno storico perchè?, di un dubbio che si è concretizzato in una scelta con conseguenze anche terribili per chi l'ha presa prima di me, la scelta di non armarsi contro un altro essere umano.
 E la mia stessa quotidianità di Servizio Civile è un perchè. Perchè le resistenze da portare avanti sono ancora tante in Italia e in tutto il mondo, perchè sono sicura che il mondo non debba andare nella stessa direzione e che il cambiamento può avvenire anche grazie ad un perchè?

La resistenza è difficile, sofferta ma nobile per chi la realizza e la sua nobiltà si accresce tanto quanto la scelta della resistenza sa rispettare l'altro nella sua umanità perchè la resistenza all'oppressione, di qualsiasi forma essa sia, è l'essenza stessa dell'umanità così come il rispetto, l'amore e l'istruzione sono l'essenza di tre giovani albanesi.
 Ci sarà tempo per spiegare alla ragazza in seconda fila tutte queste cose, molte le conoscerà con il tempo, ma per il momento la guardo e l'unica risposta che ho è “Faleminderit. Grazie”.


di David Swanson
traduzione di Giuseppe Volpe

Uno degli eventi più ispiratori sinora al Congresso Nazionale dei Veterani Per La Pace (VFP - http://www.veteransforpeace.org) in corso a Miami è stato una presentazione, giovedì, di molti veterani che hanno rifiutato di partecipare alla guerra. Tipicamente, lo hanno fatto a rischio di significative condanne alla prigione, o peggio. Nella maggior parte dei casi questi resistenti hanno evitato ogni reclusione. Anche quando sono effettivamente finiti dietro le sbarre, lo hanno fatto con un senso di liberazione.

Gerry Condon si rifiutò di schierarsi in Vietnam, fu condannato a dieci anni di reclusione, fuggì da Fort Bragg, lasciò il paese e ritornò per partecipare a una campagna per l’amnistia. Il presidente Jimmy Carter graziò i resistenti come primo atto del suo mandato. Condon non “servì” nemmeno un giorno, né al “servizio” militare né in prigione   [in inglese il verbo “to serve”, servire, significa anche ‘scontare’, nel caso di una condanna alla reclusione – n.d.t.].

Jeff Paterson di ‘Courage to Resist’ [Il coraggio di resistere] si è rifiutato di voltare in Iraq, scegliendo invece di restare seduto sulla pista. Ben Griffin, della nuova sezione dei VFP in Gran Bretagna, si è rifiutato di partecipare alle guerre della nostra nazione e gli è stato imposto l’obbligo del silenzio. Non gli è permesso di parlare, e tuttavia lui parla così bene. Mike Prysner di ‘March Forward’ [Marcia in avanti] e Camilo Mejia dei VFP, qui a Miami, hanno descritto i loro atti di resistenza.

Mejia, alcuni anni fa, ci ha fatto l’enorme favore di mettere la sua storia in un libro, un’estrema rarità, tristemente, tra gli attivisti per la pace con grandi storie da raccontare. Il libro di Mejia ‘Road From Ar Ramadi’ [La strada da Ar Ramadi] è un’introduzione formidabile per chiunque si chieda perché uno debba arruolarsi nell’esercito e poi rifiutarsi di uccidere. Mejia, che ora lavora a temi dei diritti civili in patria, rimanendo partecipe del movimento contro la guerra (un’altra rarità) è un co-convocatore del congresso dei VFP.

Nell’ottobre del 2003 Mejia è stato il primo soldato statunitense a rifiutarsi pubblicamente di volare in Iraq. All’epoca solo 22 membri dell’esercito USA si erano dati “assenti senza permesso” (AWOL, ‘absent without official leave’) da quella guerra, un numero che sarebbe rapidamente salito a migliaia con il peggiorare della guerra e con lo svanire delle varie motivazioni offerte per essa.  I soldati cominciarono anche e a rifiutare missioni in cui c’era la probabilità di uccidere civili o di mettere a rischio la propria vita senza altro scopo che l’avanzamento di carriera di un comandante, un comandante che se ne stava al sicuro in una base a impartire ordini. I Veterani dell’Iraq avrebbero presto collaborato con i Veterani Per La Pace per formare una nuova organizzazione, i ‘Veterani dell’Iraq contro la Guerra’. Ma all’epoca del rifiuto di Mejia di combattere egli si era opposto virtualmente da solo.

Mejia si era arruolato nell’esercito prevalentemente per lo stesso motivo per cui lo fa la maggioranza degli statunitensi: la mancanza di altre scelte. Si era fatto strada attraverso le superiori fino al college della comunità ma il governo aveva tagliato i suoi aiuti finanziari e lui non aveva più potuto permettersi il costo del college. L’esercito gli aveva offerto le spese universitarie e la sicurezza finanziaria. Era stato sufficiente. Questo figlio di rivoluzionari sandinisti era partito per Fort Benning, sede della Scuola delle Americhe, dove si sarebbe addestrato a uccidere per conto per l’impero statunitense.

Mejia aveva imparato a detestare l’esercito. La sua ferma doveva scadere a maggio del 2003, ma nel gennaio del 2003 la Guardia Nazionale della Florida si era imbarcata per iniziare l’invasione dell’Iraq che il presidente Bush faceva pubblicamente finta di cercar di evitare ma che privatamente architettava piani strampalati per scatenare. Il contratto di Mejia era stato prorogato al 2031 (non è un errore di digitazione) ed era stato inviato in Giordania. Non era né a favore né contro l’esercito o la guerra in nessun senso semplice. Era consapevole delle grandi dimostrazioni per la pace in tutto il mondo. Detestava molte cose dell’esercito e di questa guerra in particolare, che riteneva fosse una guerra per il petrolio. Ma era leale e obbediente, non ancora convinto dell’immoralità estrema dell’operazione cui stava prendendo parte.

 La prima esperienza di Mejia in Iraq aveva implicato i maltrattamenti di prigionieri. Egli detestava queste pratiche ma non vi si era opposto. Mentalmente aveva cercato di cancellarle dalla mente come l’opera di “poche mele marce”. O aveva cercato di giustificare quello che stava facendo come un dovere di lealtà nei confronti di soldati accanto a lui.

Mejia era diventato gradualmente consapevole del desiderio degli iracheni che l’occupazione finisse, ma credeva che sarebbe finita molto rapidamente. Nel corso di una protesta degli iracheni, un giovane iracheno stava per lanciare una granata e Mejia aveva mirato e gli aveva sparato, come avevano fatto gli altri accanto a lui. Il giovane era morto istantaneamente ma i problemi che l’incidente aveva fatto sorgere nell’animo di Meija no.

Mejia era angosciato per l’odio razzista dei suoi commilitoni nei confronti di tutti gli iracheni. Iracheni innocenti erano imprigionati e interrogati, quando non erano uccisi. I cadaveri erano maltrattati da soldati che scherzavano mentre scattavano fotografia dei loro trofei di carne umana. “Mi è venuto in mente”, scrive Mejia di alcuni iracheni che osservavano quelle azioni, “quanto dovesse essere sconvolgente per loro vedere i loro parenti nel fango, seminudi e coperti di sangue, derisi e umiliati persino da morti.”

L’inizio della resistenza tra i soldati era scaturito dalla crescente consapevolezza che i loro comandanti si usavano per il maggior numero di scontri a fuoco, di uccisioni e di prigionieri. Le necessità di questa competizione avevano un peso maggiore di quelle della giustizia e persino della strategia. Ritornare alla base con prigionieri innocenti era di gran lunga preferibile a tornare alla base a mani vuote. Non c’era alcun obiettivo più grandioso, per quel che potevano vedere i soldati. Effettuavano pattugliamenti il cui unico scopo era di proteggere sé stessi mentre perlustravano.

Col crescere della resistenza irachena cresceva anche la paura statunitense, al punto che le truppe sparavano anche a bambini disarmati se i soldati non potevano essere sicuri che i bambini non rappresentassero un pericolo. Mejia capiva entrambi i punti di vista e ha finito per rendersi conto che in guerra le scelte sono o cattive o orribili. L’unica scelta buona, cominciava a capire, era non collaborare per niente con la guerra.

A un certo punto Mejia aveva cercato di spiegare ad alcuni iracheni qualcosa in cui a malapena credeva ancora lui stesso, che la guerra aveva per scopo di portare la “libertà” al popolo dell’Iraq. Uno degli iracheni, che sapeva qualcosa della situazione di Mejia, aveva detto che Mejia desiderava lasciare l’esercito ma non poteva. “E allora”, aveva chiesto quest’iracheno, “come puoi portare la libertà a noi, quando non ce l’hai per te?” Quando Mejia prendeva parte alle irruzioni nelle case degli iracheni, considerava ingiustificato il terrore che gli iracheni mostravano per la cattura e la “detenzione” da parte degli statunitensi. Certamente i prigionieri sarebbero stati giudicati equamente e rilasciati se innocenti, diceva a sé stesso. “Come è risultato”, ammette Mejia, “le famiglie … conoscevano il mio esercito molto meglio di me.”

Tuttavia le truppe che lasciavano le basi sapevano più dei comandanti che vi restavano. Questi ultimi, credendo erroneamente che la resistenza arrivasse dall’esterno dell’area locale, ordinavano il blocco senza scopo di tutte le strade sbagliate. I soldati, che sapevano che quelle decisioni erano sbagliate, non osavano dir nulla per timore di ciò che sfidare un “superiore” poteva causare alla tua carriera.  

Mejia aveva potuto tornare negli Stati Uniti per un permesso di due settimane. Aveva disertato con l’aiuto di alcuni gruppi pacifisti e si era consegnato per affrontare una possibile incarcerazione.  Aveva “servito” per più degli otto anni che aveva concordato. E credeva che la guerra consistesse nell’uccidere essere umani senza alcuno scopo utile.

Una parodia di una farsa di una finta di processo aveva giudicato Mejia colpevole e lo aveva condannato a un anno di carcere. “Quel giorno”, nell’andare in cella, ricorda Mejia, “ero libero in un modo in cui non lo ero mai stato prima.”

I libri di David Swanson comprendono ‘War is a Lie [La guerra è una menzogna]. Pubblica blog agli indirizzi http://davidswanson.org e  http://warisacrime.org e lavora da coordinatore della campagna per l’organizzazione attivista online http://rootsaction.org. Conduce il programma  Talk Nation Radio. Seguitelo su Twitter:  @davidcnswansonand FaceBook.

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/soldiers-who-refuse-to-kill-by-david-swanson

Originale: Warisacrime.org

 

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