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19 Aprile 2012

ACTA o non ACTA? Il web tra contraffazione e (dis)informazione
di Matteo Marini

Dopo 5 anni di trattative, grazie all’opposizione dei Socialisti e dei Democratici europei, l’accordo contro la contraffazione online e in difesa della proprietà intellettuale, potrebbe essere bocciato dal Parlamento Europeo. Un giornalista però, dopo essersi documentato, insinua il dubbio: “Siamo veramente sicuri di sapere di cosa parla? È giusto opporsi, ma bisogna avere le motivazioni giuste”.

Dopo 5 anni di trattative e dopo che il 26 gennaio scorso era stato firmato da una quarantina di stati, l’ACTA probabilmente verrà bocciato dal Parlamento Europeo.

Ma per cosa sta la sigla ACTA? E di cosa parla esattamente questo accordo? L’ Anti-Counterfeiting Trade Agreement è un accordo commerciale, stipulato da più parti, ideato per escogitare norme più efficaci per 'dare battaglia' alla contraffazione e alla pirateria informatica, per riuscire a tutelare copyright, proprietà intellettuali e brevetti su beni, servizi e attività legati alla rete.

In poche parole, l’obiettivo è uniformare le leggi internazionali in materia. Secondo i più critici, i promotori dell’accordo vorrebbero anche che venisse instaurato un controllo sulla produzione di farmaci e vaccini generici a basso costo e sul libero utilizzo di prodotti agricoli brevettati dalle multinazionali del settore.

Se questo accordo incide in maniera positiva o negativa sulla nostra vita di tutti i giorni non esiste una vera e propria certezza. L’ACTA, infatti, stabilisce che ogni paese aderente debba prendersi la responsabilità di scegliere gli strumenti per intervenire in casi di violazioni. Quel che sembra probabile è che in Italia si sia pensato ad un potenziamento dell’autorità nazionale di controllo sulle telecomunicazioni (l’AGCOM). Per quanto riguarda i fornitori di servizi internet (Telecom Italia, Infostrada, etc.) si prevede una maggiore responsabilità nel caso in cui dovessero essere considerati corresponsabili delle attività degli utenti e potrebbero quindi essere spinti a controllarne i movimenti e le azioni online.

Dopo quasi 5 anni di trattative (2007-2012 ndr), il 26 gennaio scorso – come ci racconta Il Post di Luca Sofri - l’accordo è stato firmato a Tokio da una quarantina di stati tra i quali Stati Uniti, Giappone, Australia, Canada e 22 dei 27 stati membri dell’Unione Europea. Quando però si è dovuto procedere, per ciò che riguarda l’Unione Europea, alla ratificazione da parte dei singoli stati e del Parlamento Europeo, sono fuoriuscite le prime opposizioni.

Come dicevamo prima, i Socialisti e i Democratici europei, votano contro l’accordo ma anche l’eurodeputato David Martin, relatore del seminario sull’Anti-Counterfeiting Trade Agreement, ha invitato i colleghi a esprimersi in maniera negativa sul provvedimento, perché è un trattato che “non solo preoccupa la cittadinanza circa i reali effetti sulla privacy, ma è anche poco chiaro in certi aspetti e dunque è necessario studiare un nuovo provvedimento affinché si possano difendere i diritti dei possessori di copyright”.

In previsione del voto definitivo per l’approvazione, previsto a luglio, anche l’eurodeputato italiano del Pd, Roberto Gualtieri, capogruppo dei Socialisti&Democratici nella Commissione Affari Costituzionali ha affermato come la normativa fatta in questo modo sia pessima, inefficace peraltro contro la contraffazione e potenzialmente lesiva per la libertà degli utenti e degli operatori internet.

C’è bisogno adesso della nascita di una vasta campagna dib e sensibilizzazione verso i cittadini affinché possa formarsi in Parlamento una maggioranza che entro l’estate bocci definitivamente l’ACTA e prepari successivamente un tavolo per studiare un’alternativa valida ma questa volta coerente con la tutela dei diritti dei cittadini e il principio della libera circolazione delle idee.

Ciò che sembra strano, in mezzo a queste nette posizioni di contrarietà nei riguardi dell’ACTA, è che molte delle cose che vengono imputate a questo accordo (lesivo dei diritti degli utenti, etc.) pare che non siano contenute realmente nel provvedimento.

Ce lo spiega Fabio Chiusi, giornalista freelance e blogger, dalle pagine del suo blog Il Nichilista: “quando ho scoperto che il pezzo di Timothy B. Lee per Ars Technica (As Anonymous protests, Internet drowns in inaccurate anti-ACTA arguments) finalmente rispondeva a molte delle mie domande, ho pensato fosse il caso di tradurlo, rendendolo immediatamente accessibile ai lettori italiani.

Perché, come recita la sua conclusione, se le buone ragioni per opporsi ad ACTA non mancano, il problema è che sono difficili da spiegare al pubblico. Così troppi oppositori di ACTA stanno, forse senza saperlo, attaccando ACTA per disposizioni che non sono nel trattato. Non verseremo troppe lacrime se questa disinformazione aiuterà a uccidere un cattivo trattato, ma preferiremmo vincere il dibattito onestamente [...]”.

In particolare, ArsTechnica sottolinea quattro affermazioni inesatte tra quelle che i critici rivolgono ad ACTA (per le argomentazioni rimando all’articolo integrale):

1. Non è vero che ACTA obbliga necessariamente i provider a controllare il traffico dei propri utenti trasformandoli, come si è letto da più parti, in ‘sceriffi del web’.

2. Non è vero che ACTA mette al bando farmaci generici indispensabili alla salute di migliaia di persone.

3. Non è vero che ACTA è la versione europea di SOPA e PIPA, per giunta riformulate in modo anche più pericoloso.

4. Non è vero che se passasse ACTA perfino “parti di frasi” rientrerebbero tra i contenuti protetti da copyright che i provider sarebbero costretti a eliminare dai propri server (come parte del loro obbligo di costante sorveglianza del traffico dei propri utenti).

Ciò non significa che non ci si debba opporre ad ACTA, e Lee descrive chiaramente i problemi “sia procedurali che sostanziali” che restano anche nella versione definitiva dell’accordo (ne scrive molto bene anche Arturo Di Corinto su Repubblica). Tuttavia, significa che bisogna opporvisi con gli argomenti giusti. E senza abusare delle grida alla censura, perché è proprio in quel modo che il termine 'censura' finisce per perdere il suo (realissimo) significato.

A questo punto, chi avrà ragione?

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