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3 aprile 2012

Siria, i confini di una guerra
di Francesca Borri dal confine siro-libanese

Solo, a tratti, strade minate. Per fermare guerriglieri e giornalisti. Ma a nord, il Libano diventa Siria senza barriere, senza frontiere. Ed è da qui, impolverati e disperati, che di notte gocciolano a decine, in fuga dal mattatoio di Assad. In molti arrivano letteralmente senza niente: neppure una maglietta di ricambio. E non trovano niente, se non la solidarietà e ospitalità di fratelli, zii, cugini e cugini di cugini. Il Libano è ancora fragile, ancora a rischio di implosione, e preferisce i profughi non siano concentrati. Organizzati. Non abbiano voce. Ognuno è lasciato a sé. E tra queste luci sparse di case umide e povertà, si fa difficile distinguere i rifugiati siriani dai residenti libanesi.

Eppure gli “Amici della Siria” sembrano aumentare in numero e forza. Dopo il primo incontro di Tunisi, infatti, a fine febbraio, domenica su sollecitazione statunitense delegati di ottantatrè paesi sono tornati a riunirsi a Istanbul. In quella Turchia che stanca di mendicare l’ammissione all’Unione Europea, guarda oggi al mondo arabo e islamico: ed è base e retrovia dell’Esercito Siriano Libero che sfida il regime di Assad. Oggetto di discussione, il piano proposto da Kofi Annan, inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria: avvio di un dialogo politico tra governo e opposizione, e intanto, due ore al giorno di tregua per consentire operazioni di soccorso. Un piano minimale, hanno contestato i dissidenti, che non esige le dimissioni di Assad né specifica tempi e modi per la sua attuazione. Ma l’unico piano su cui è stato possibile ottenere l’assenso di Russia e Cina.

Come sempre, infatti, in queste iniziative gli assenti sono importanti quanto i presenti. E gli ottantrè amici della Siria non includono, oltre all’Iran, proprio la Russia e la Cina, con il loro decisivo potere di veto in Consiglio di Sicurezza. I paesi arabi, poi, continuano a essere divisi, con la sola Arabia Saudita ferma nel sostenere l’intervento armato: per indebolire l’Islam sciita, però, più che per rafforzare la democrazia in Siria – in Bahrain, Riyad è impegnata in una repressione analoga a quella di Assad. Ma ancora non trova unità, soprattutto, l’opposizione interna, riconosciuta a Istanbul come “legittima rappresentante del popolo siriano”. Il Consiglio Nazionale Siriano, guidato dal sociologo della Sorbona Burhan Ghalioun, non solo non ha deciso se volere o temere un intervento armato, ma è tutto in esilio, e non controlla l’Esercito Siriano Libero. E cioè questi 10mila combattenti poco equipaggiati e poco addestrati che si limitano ad azioni di guerriglia, perché privi, per loro stessa ammissione, di mezzi e capacità per controllare il territorio. A tenere viva giorno per giorno, città per città la resistenza, in realtà, è la rete dei Comitati di Coordinamento. I cui attivisti non erano però a Istanbul, domenica: ma sotto il tiro dell’artiglieria di Assad.

Così, nella frammentazione e incertezza generale, a Istanbul si è concordato non di armare, ma di stipendiare l’Esercito Siriano Libero. Sarà l’Arabia Saudita a pagare, per incentivare i soldati di Assad a disertare. Per il resto, l’unica richiesta è stata un calendario preciso per l’attuazione del piano Annan. Assad, infatti, che ha accettato il piano Annan come già altre iniziative precedenti, poi lasciate carta, ha commentato l’incontro di domenica dichiarandosi pronto ad avviare il dialogo politico: ma solo una volta ripristinata la sicurezza – e cioè travolta l’opposizione.

Se a Tunisi erano state approvate alcune sanzioni poi mai realmente attuate, come l’embargo sul petrolio e la sospensione delle relazioni diplomatiche, a Istanbul il nodo di fondo, e cioè come archiviare Assad, è rimasto irrisolto. L’unica differenza è che le vittime, prima stimate intorno a 8mila, sono ora quasi 10mila. Attratti dal Risiko geopolitico, gli “Amici della Siria” sono certo aumentati in numero e dollari. Ma gli amici dei siriani sembrano non essere aumentati affatto.

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