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sabato 28 gennaio 2012 22:41

Siria, cronaca di un suicidio annunciato
di Riccardo Cristiano

Il regime ha mai cercato le riforme? Poteva farle? No, perché il sistema è irriformabile. Corruzione, arbitrio e nepotismo sono l'anima di un regime ideologicamente fascista.

Il regime baathista siriano, "corretto" in affare della famiglia Assad nel 1970, ha scelto la via del suicidio proprio alla vigilia del suo cinquantesimo compleanno, che cade nel 2013. Una scelta compiuta nel marzo del 2011. 
Quel 15 marzo, quando per la prima volta ebbero luogo i primi piccoli cortei di protesta, come il 16 marzo, quando 150 coraggiosissimi attivisti per i diritti umani osarono riunirsi davanti alla sede del temutissimo Ministero degli Interni, a Damasco, pochi cedettero che per la repubblica dinastica creata da Hafez al-Assad potesse accadere qualcosa di simile a quel che era capitato poche settimane prima ai regimi tunisino ed egiziano. Le cose si aggravarono poco dopo, quando a Daraa, nel sud del Paese, furono tratti in arresto un gruppo di bambini che a scuola, all'ora della ricreazione, osarono scrivere lo slogan che avevano sentito in televisione, scandito dai manifestanti tunisini ed egiziani: "il popolo vuole la caduta del regime". Non li arrestarono subito. Li andarono a prelevare notte tempo casa per casa, e li condussero nella caserma della sicurezza dello stato. Quando i genitori riuscirono a liberarli scoprirono che i loro figli, bambini di una decina d' anni ciascuno, erano stati orribilmente seviziati; gli avevano strappato tutte le unghie. Quell'episodio ha segnato la fine del carattere locale della rivolta di Daraa, la trasformazione dell'insurrezione di una piccola città del sud della Siria in una insurrezione nazionale. Il governo avrebbe potuto ancora fermare la rivolta, punendo severamente i responsabili di Daraa. Ma la rimozione del capo dei servizi di sicurezza di Daraa, Atef Najib,non ebbe conseguenze. Né lui né nessun altro fu né incriminato né condannato, e non pochi in Siria ritengono che questo fu determinato dal fatto che il signor Najib sia un parente del presidente Bashar al-Assad. E proprio lui, il presidente, alcuni mesi dopo quei tragici fatti spiegò a una delegazione di cittadini di Daraa che siccome non c'era nessuna accusa a carico di Najib il massimo che si poteva ipotizzare conro di lui era un provvisorio divieto di espatrio. Fu così, scegliendo di coprire Atef Najib, che il regime scelse la via del suicidio?
I passi successivi sono stati tantissimi e forse contraddittori, ma subito segnato dai cannoneggiamenti medievali di città insorte e ridotte per rappresaglia senza servizi, luce né acqua. E in Aprile, durante l'assalto contro la città costiera di Latakia, il regime rifornì di armi leggere la sua base tribale, gli alawiti (comunità montanara che in termini religiosi appartiene alla galassia sciita), affinché attaccassero altre comunità non alawite. Creare tensione tra le diverse comunità religiose del Paese era fondamentale nella strategia del regime, che per sopravvivere scelse subito un messaggio chiaro: "questo regime si poggia sulla minoranza alawita e per questo può garantire le altre minoranze religiose, in particolari i cristiani e i drusi, mentre se prevalessero i sunniti, maggioranza nel Paese, si avrebbe un governo guidati dai Fratelli Musulmani che perseguiterebbe le altre minoranze." La tensione a sfondo religioso andava dunque alimentata da subito. E infatti nei primi mesi dell'insurrezione siriana si sono registrati molti casi di provocazioni armate alawite nelle aree sunnite. 
Nel frattempo Bashar aveva giocato le sue carte anche sul piano politico. Poco dopo l'inizio delle proteste, il 24 marzo, la consigliera del presidente, signora Buthaina Shaaban, mentre da un canto diede voce a quello che sarebbe diventato lo slogan del regime, "siamo davanti ad una cospirazione straniera", dall'altro parlò anche di iniziative riformiste da parte di Bashar, per rispondere alle "legittime richieste del popolo". 
Così annunciò un comitato per la lotta alla corruzione, la revisione delle legge d'emergenza, una nuova legislazione sui partiti e sulla stampa, la fine degli arresti arbitrari (mai negati dal regime nel suo lunghissimo esercizio del potere). A conferma di queste intenzioni il presidente dimise il governo, il 29 di quello stesso mese. Ma già il giorno seguente fu traumatico. Nel suo attesissimo discorso il presidente Assad si concentrò quasi esclusivamente sul complotto internazionale contro la Siria, definendo gli insorti "terroristi". Di solito in discorsi di chiusura si concede qualcosa solo sulla lotta alla corruzione; ma in quel discorso non ci fu neanche questo, si limitò a dire che il problema era già stato affrontato. Il fratello del presidente, il capo della guardia repubblicana, Maher al-Assad, il fautore della repressione senza riforme, aveva vinto lo scontro interno all'inner circle presidenziale? Se uno scontro del genere c'è mai stato, forse non finì così presto, visto che ad aprile il regime tornò a parlare di concessioni: una ridicola, la sostituzione delle leggi emergenziali con una "moderna" legge anti-terrorismo, una drammatica, il rilascio dei curdi arrestati nel 2010 per aver festeggiato il loro capodanno, proibito in un Paese dove i curdi non hanno diritti. 
Arrivò così il secondo discorso pubblico di Bashar, quello del 16 aprile, che riaprì le porte del negoziato con le "legittime richieste del popolo", distinto dai terroristi ovviamente. Si tornò così a parlare di abolizione della legge marziale e altre riforme. Ma intanto il tempo era passato, e le voci di quanti sostenevano che si trattasse di parole a cui non sarebbero seguiti fatti aumentarono. Non a caso la repressione, di lì a breve, riprese, ancor più violenta, ma incapace però di porre termine alla protesta, che proprio in questa fase cominciò a pensare alle armi. Giunse così la terza fase, la riproposizione di riforme, sul finire di maggio.
Si riprese a parlare di riforme, e di un terzo discorso di Assad su un imminente "dialogo nazionale". Ma chi era disposto a crederci? Pochi. E dopo che il governo abbozzò qualche riforma il presidente siriano smentì i pochi ottimisti con il suo terzo discorso, il 20 giugno. Bashar definì gli insorti germi, qualcosa di simile ai "ratti" evocati da Gheddafi. 
Guarda caso fu proprio in quei giorni che il regime cancellò qualsiasi ipotesi di "pulizia interna". Il più discusso miliardario siriano, Rami Makluf, la testa che doveva rotolare per prima per apparire credibili, rilasciò un'intervista politica al New York Times, dicendo che "la stabilità di Israele passa per la stabilità della Siria". Rami Makluf, guarda caso, è un parente del presidente Bashar, come il responsabile della sicurezza di Deraa. E questo spiega perché sia inutile domandarsi se l'andirivieni di aperture e chiusure da parte del regime indichi che in quei mesi decisivi ci spossa essere stato uno scontro tra falchi e colombe.Il fatto è che quel regime è irriformabile, perché costruito su un intreccio di interessi illegittimi che se scalfiti farebbero crollare tutto il sistema.
La riprova la abbiamo da quanto accaduto negli anni precedenti l'insurrezione popolare siriana nel campo economico. Bashar, proprio come Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto, scelse di seguire la via cinese, capitalismo e totalitarismo. Il meccanismo di apertura economica cominciò con babbo Assad, ma suo figlio promise che sarebbe cresciuto, moltissimo. La globalizzazione rendeva questa scelta necessaria. E la Siria si lanciò a capofitto, consapevole che per procedere bisognava rendere efficiente l'apparato statale e creare un vero ceto imprenditoriale. I partner dovevano essere su entrambi i versanti, est e ovest, per non dipendere dalle scelte politiche dell'Unione Europea, che ha sempre avuto un'agenda opposta a quella siriana, L'area di libero scambio di Aleppo doveva essere il simbolo della nuova politica economica di Bashar, da lui definita "delle Cinque Stagioni". I grandi investimenti turchi, un paese che si trovava in quegli anni a fare la stessa scelta, fecero ben presto sperare, tanto che Ankara, convinta di aver trovato un vero partner, ha seguitato a investirci fino a pochi mesi fa. Ma lo "stato privato" siriano era incompatibile con qualsiasi riforma, anche in economia: non esisteva un apparato tecnico capace di gestire l'apparato pubblico e di aprire un'imprenditoria fatta di illegalità, favoritismi, monopoli ad personam. 
La riprova che le cose siano andate proprio così sta nel fatto che nel 2009, quando, dopo tante esitazioni di carattere politico, l'Europa ha proposto alla Siria l'agognata associazione economica Damasco ha rifiutato. Perché? Perché quel trattato era incompatibile con i monopoli di famiglia, con la malversazione, con l'appropriazione indebita. E così l'esito del modello cinese applicato dai siriani è stato lo stesso che si è avuto in Tunisia ed Egitto: impoverimento dei contadini e degli operai, niente nuovi ceti imprenditoriali, ricchezze enormi concentrate nelle mani degli amici e dei parenti. Ecco perché un dirigente siriano che lavora al palazzo presidenziale ha dichiarato, con garanzia dell'anonimato, al direttore di International Crisis Group: "La realizzazione delle necessarie riforme metterebbe in pericolo l'enturage del Presidente perché significherebbe ridurre il loro potere. Il Presidente può fare qualcosa contro di loro? Questo è il punto strutturale: lui appartiene all' enturage che dovrebbe combattere." 
Il gruppo dirigente siriano non valuta il Presidente in base alle sue qualità, ma in base alla sua capacità di difendere e promuovere i loro interessi. E' questo il motivo di fondo per cui nel marzo del 2011 il regime ha scelto il suicidio, perché non poteva fare altro che cercare di andare avanti, a qualsiasi costo. Secondo un rapporto pubblicato pochi giorni fa da Save the Children, dall'inizio dell'insurrezione siriana sono stati uccisi 348 bambini, una media di uno al giorno. Non è stato il prodotto di un caso, di una barbarie occasionale. E' stato il prodotto di un calcolo: quale sistema intimidatorio nei confronti del genitori è più efficace del mostrargli il sangue dei figli dei vicini di casa?
L'intimidazione, la tortura, le sparizioni, sono stati, con l'ausilio dei pasdaran iraniani e degli hezbollah libanesi, gli ingredienti della linea messa in pratica dai vertici militari. Ci si può sorprendere che ora arrivi il rischio di una militarizzazione anche degli insorti? L'arrivo di elementi "inquinanti" dall'estero è quanto di più logico in un scenario barbaro come quello creato da Bashar al-Assad. 
In questo contesto quel che sorprende di più è il sostegno pieno e costante offerto da numerosi patriarchi cristiani al regime di Bashar al-Assad. Dimentichi della regola che si legge in tantissimi manuali cristiani di morale , "non si può fare il male per perseguire il bene", loro hanno offerto una stampella fondamentale al regime, dicendo che volevano evitare violenti e fondamentalisti, mentre l'unica speranza per evitare derive e scontri confessionali era cercarne di accorciare l'agonia di un regime senza scrupoli, radicato in un'ideologia nazionalista molto vicina al fascismo. Il leader del "fratello", il baathista iracheno Saddam Hussein, ha riassunto questa ideologia fascista magistralmente molti anni fa, quando, rispondendo alle richieste di autonomia dei curdi iracheni, disse: " arabi, curdi, siamo tutti arabi."

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