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9 Settembre 2012

Risposta a un “pacifista” italiano
di Elena Chiti

Due aspetti, nella Lettera di un “pacifista” italiano firmata da Giovanni Maggi, mi trovano in completo disaccordo e mi portano a metterne seriamente in dubbio i fondamenti: in senso storico e intellettuale (non dico morale per scelta).

Il fondamento storico. L’affermazione per cui tutti i mali italiani deriverebbero dalla Resistenza, perché ha preso le armi anziché intavolare un dialogo pacifico con la controparte fascista mi sembra una riscrittura della storia così libera e felice da sfociare nella mitologia. La Resistenza armata italiana ha una precisa data post quem, ed è l’8 settembre 1943: prima si parla eventualmente di antifascismo, ma nessuno ha imbracciato lo schioppo e preso la strada dei monti prima di quella data. E a quella data l’Italia è in guerra già da alcuni anni e le ambiguità dell’armistizio la faranno precipitare in una situazione ancora più tragica, di paese sotto doppio fuoco: degli “Alleati” anglo-americani e dell’ex-alleato tedesco. Non vedo molto margine per intavolare discussioni pacifiche con rappresentanti fascisti che hanno fatto dal canto loro la scelta di collaborare, armi in pugno, con l’occupante nazista.

E poi le genealogie culturali necessitano un minimo di scavo storico, di verifica dei loro fondamenti: non basta affermare di derivare da un dato fenomeno perché la derivazione si avveri come per magia. Il fatto che un certo terrorismo italiano – di sinistra, le Brigate Rosse – abbia dichiarato di essere figlio della Resistenza non ci dice che lo sia (non lo è); ci dice semplicemente che considerava la Resistenza un momento nobile a cui richiamarsi, per ritagliarsi una paternità e una legittimità.

Per quanto mi riguarda, penso che il dialogo sia mancato, sì, ma dopo la Resistenza, dopo la Liberazione, quando il dialogo era possibile, anzi doveroso, quando era il momento di mettere il dito nella piaga e affrontare, da una parte e dall’altra, gli sbagli commessi e le colpe. Perché non equiparerò mai le due parti, né a livello storico né morale, ma sono innegabili gli atti di sangue, di giustizia sommaria, le rappresaglie commesse anche da resistenti o ex-resistenti. Anche a guerra finita. Ed è grave il fatto che prima di Giampaolo Pansa la questione non abbia nemmeno sfiorato il grande pubblico.

Se le colpe fossero state dibattute, o almeno passate in rivista da entrambe le parti per arrivare a un discorso condiviso, forse la nostra storia sarebbe stata diversa. Invece non si è fatto, e credo che questo abbia contribuito a un clima da guerra civile larvata, sopita ma infinita, che ha insanguinato gli anni Settanta e a sprazzi avvelena ancora oggi la scena politica italiana.

Quindi mi spiace, ma no: non si piega a piacimento la storia per tirarne fuori la morale che ci serve.

Il fondamento intellettuale. Ho già dei problemi con il pacifismo inteso come lente assoluta attraverso cui vedere il mondo, per agire o non agire nel mondo, figuriamoci con questa concezione (egoistica) di non-violenza (altrui).

A differenza del pacifismo, che può essere una scelta collettiva, di società, la non-violenza è solo e soltanto una scelta morale personale. Su questo non transigo.

La non-violenza non si chiede e non si chiacchiera. Si pratica. Chi ha la fermezza e la convinzione, religiosa o morale, per portare avanti una scelta del genere in una situazione di forza, simmetrica o asimmetrica, e pensa che sia utile farlo, lo faccia. Tutto il mio rispetto. Ma non scriva lettere in cui predica una non-violenza da salotto, di fronte al televisore che trasmette ogni giorno (per chi abbia ancora voglia di guardarle) scene di violenza inaudita. Anch’io so essere non-violenta così, seduta a guardare. Ma è solo un’illusione della distanza.

Chiedere a un popolo che viene massacrato di praticare la non-violenza, equivale a dire: “fatevi ammazzare uno dopo l’altro e state zitti, perché mi fate venire il mal di testa. Non voglio dubbi, solo scene catartiche in cui l’eroe sfida da solo il carro armato e arriva a farsi schiacciare pur di indicarmi a lettere d’oro dov’è il Bene assoluto e dov’è il Male assoluto”.

Di queste scene di quotidiano eroismo di cittadini inermi, in Siria ne abbiamo viste per più di quattro mesi, e non ci sono bastate. E sono stufa di sentire frasi del tipo: “Ah! se solo tutto si fosse svolto senza spargimenti di sangue, come in Egitto!”. Durante la rivoluzione egiziana, nei cosiddetti “diciotto giorni di Piazza Tahrir” (25 gennaio-11 febbraio 2011) ci sono stati almeno ottocento morti e svariate migliaia di feriti. Se non li abbiamo visti è, ancora una volta, un’illusione ottica della distanza e forse un approccio viziato in partenza: quei morti ci sono andati bene perché sono stati da una parte sola. Come all’inizio in Siria. Hanno fatto numero (un numero presto dimenticato in Europa), ma non hanno creato dubbi: non ci hanno messo di fronte alla tragica necessità di abbandonare il sostegno catartico all’arabo buono, che si ribella pacificamente, per rinegoziare la nostra posizione di spettatori. Senza diventare attori, per carità (del resto nessuno ce lo chiedeva), ma rendendoci conto di essere spettatori scomodi: impotenti, o silenziosi, o complici, o insomma in una situazione in cui è sempre più difficile tirare in ballo categorie assolute e ripararcisi dietro, in cui si comincia a stare seduti sul divano come in punta di spillo e in cui ci si sente più sporchi, anche solo a guardare.

Certo la violenza, da qualunque parte la si consideri, è una cosa sporca. Ma anche lavarsene le mani esigendo esemplare eroismo da chi la subisce non mi sembra un’operazione molto pulita.

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