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15/03/2012

La rivolta in Siria oltre la mattanza
di Lorenzo Trombetta

Al di là degli oltre 9 mila morti, presentiamo qui una rassegna delle principali questioni della vicenda. La guerra mediatica e quella reale; le voci su salafiti e iraniani. La solidità del regime e la debolezza delle opposizioni.

Cominciamo dalla bandiera. Una questione meno decisiva per gli equilibri sul terreno ma cruciale a livello simbolico. Da mesi chiunque sostenga la rivoluzione siriana ha adottato il tricolore bianco, verde e nero con tre stelle rosse, che venne sostituito dai golpisti baatisti nel 1963 con l'attuale tricolore rosso, bianco e nero con due stelle verdi.

Per i primi lunghi mesi delle proteste, i manifestanti in Siria scendevano in piazza portando con sé il tricolore attuale, quello con cui sono nati e cresciuti tutti i siriani che hanno fino a cinquant'anni di età. Col passare del tempo e soprattutto con l'inasprirsi della repressione, la bandiera bianco-verde-nera - inizialmente sventolata da alcuni leader tribali siriani durante la prima conferenza di Antalia, in Turchia, di giugno 2011 - si è gradualmente sostituita a quella nazionale.

Per segnare una rottura netta e per distinguersi dai lealisti, che sin dai primi cortei pro-regime portarono in piazza lunghissimi tricolori bianco-rosso-neri. Chi sostiene la tesi del complotto e accusa i manifestanti e i rivoluzionari di essere, oltre che terroristi, anche dei traditori, trova conferma nell'uso della bandiera pre-1963 nel fatto che questa fu adottata già durante il mandato francese (1920-1946). Precisamente, nel 1936.

Per i fedeli del regime quindi, chi sventola questo vessillo vuole riportare la Siria all'epoca coloniale, non più sovrana e indipendente. A legger meglio i libri di storia si scopre però che quando i francesi imposero la loro autorità sui territori che fino a pochi anni prima erano parte dell'Impero ottomano scelsero una bandiera totalmente diversa da quella adottata oggi dai rivoluzionari, con uno sfondo azzurro, una mezzaluna bianca al centro e una bandiera francese riprodotta in scala nell'angolo alto a sinistra.Quella del 1932 - che rimase in vigore fino al 1963 e che fu mantenuta come bandiera della Siria indipendente nel 1946 - fu frutto di una lunga negoziazione tra Parigi e i nazionalisti siriani nell'ambito dell'accordo che preludeva alla graduale indipendenza del paese e alla fine del mandato.

Il tricolore bianco-verde-nero con l'elemento rosso delle stelle si ritrova nella primissima bandiera siriana, del 1918-20, quella del regno di Faysal che si oppose strenuamente - con la guerra e con la politica - all'imposizione del dominio francese. I combattenti dell'esercito di Faysal sono chiamati "resistenti" dalla storiografia ufficiale baatista. Quelli che oggi combattono contro la dittatura degli al Assad sono invece "terroristi" e "traditori".

Sul terreno, continuano giornalmente in numerose località manifestazioni pacifiche per la caduta del regime. Basta iscriversi alla mailing list dei Comitati di coordinamento locali degli attivisti per ricevere ogni sera la lista dei cortei con i relativi video amatoriali che dimostrano la veridicità dell'informazione.

Il movimento non violento negli ultimi mesi ha dovuto cedere molto spazio alla resistenza armata. Questa è organizzata per lo più nelle regioni frontaliere, dove l'Esercito libero (Esl, dei disertori ma a cui si uniscono anche civili abili alla guerra) ha le spalle coperte e un territorio dove ripiegare e può rifornirsi di armi, comprandole dai contrabbandieri locali. Le regioni di Idlib (nord-ovest), Homs (centro), Daraa (sud) e Dayr az Zor (est) sono a vario grado quelle dove il confronto armato tra partigiani e governativi è più continuo.

Dall'inizio di febbraio, le forze fedeli al presidente Bashar al Assad hanno parzialmente riconquistato Homs e di Idlib. Daraa e Dayr az Zor non sono mai veramente uscite dal controllo di Damasco. Ma non è la fine della guerra, è solo la vittoria di una battaglia. Le retrovie - in Turchia e in Libano - si stanno riorganizzando e non è escluso che queste regioni possano esser teatro di una lunga guerra di attrito.

Si fa tanto parlare di infiltrati qaedisti, salafiti, mercenari libici, algerini, di consiglieri militari europei, occidentali, dei paesi del Golfo. Tutto possibile, ma finora scarsamente dimostrato. Quando è stata dimostrata la presenza di libici o di salafiti in Siria i numeri parlano di poche decine di unità e scarsamente armate. Non certo una forza in grado di cambiare gli equilibri sul terreno. Nessuna prova concreta invece della presenza di forze speciali straniere nel territorio siriano. Dal canto loro, gli attivisti denunciano la presenza di miliziani libanesi di Hezbollah e di Pasdaran iraniani a sostegno di Damasco. Anche in questo caso, le prove concrete non sono sufficienti a cambiare il condizionale nell'indicativo.

Le armi in mano ai resistenti sono fucili automatici, fucili di precisione, mitragliatori leggeri, lanciarazzi, mortai e qualche carro armato che i disertori si sono portati con sé al momento di abbandonare l'esercito governativo e unirsi all'Esl. Di contro, le forze di Damasco hanno finora impiegato vari mezzi blindati e carri armati - tutti di fabbricazione russa - elicotteri da combattimento, aerei da ricognizione, mitragliatori anti-aerei usati per sparare ad altezza uomo e non verso il cielo.

Impossibile quantificare le unità dell'Esl. Si parla di qualche migliaio; c'è chi afferma siano circa 30 mila. Si sa invece che l'esercito governativo è composto da più di 300 mila uomini, cui si aggiungono le forze di sicurezza e le milizie irregolari (shabbiha). I vertici delle Forze armate e i quadri alti dell'esercito sono dominati da generali fedelissimi al regime, non solo per legami confessionali (membri di influenti clan alawiti, minoranza sciita) ma anche uniti da diversi interessi clientelari.

La fedeltà al potere degli al Assad non è invece assicurata da parte dei ranghi medio bassi dell'esercito, per lo più costituiti da coscritti, sottufficiali e ufficiali sunniti, potenziali disertori. Le loro unità da mesi vengono usate per operazioni minori, e comunque la loro azione è sempre sorvegliata da membri delle forze di sicurezza. A riconquistare Homs e Idlib il regime ha inviato la Quarta divisione (comandata di fatto dal fratello minore del presidente, Maher al Assad) e la Diciottesima, oltre a reparti della Guardia repubblicana.

Il regime è coeso. Nonostante qualche defezione marginale nell'apparato dello Stato, il nucleo del potere reale (distinto da quello formale: le istituzioni e il Baath, quest'ultimo ridotto ormai a una scatola vuota) è formato ai vertici da una dozzina di persone, per lo più membri della famiglia al Assad e dei clan alleati dei Makhluf e degli Shalish, uniti da legami di parentela e consapevoli che la propria sopravvivenza individuale è legata alla sopravvivenza del regime.

L'opposizione è invece sempre più frammentata. Un dato che molti osservatori usano per colpevolizzare i dissidenti e gli oppositori siriani, senza prendere in considerazione due fatti: 1) per la prima volta dopo decenni i siriani in patria e all'estero riscoprono il gusto del pluralismo e del dibattito politico. L'Occidente chiede invece un altro ra'is con cui interloquire. Ma i siriani non possono e forse non vogliono passare da una dittatura all'altra; 2) mezzo secolo di lobotomizzazione politica mostra ora i suoi effetti in una società divisa tra chi ha vissuto sempre e soltanto col pensiero di arrivare a fine mese, chi si è accontentato del regime e ha costruito sopra il proprio fragile equilibrio e chi è fuggito all'estero perdendo gradualmente il contatto con la madre patria e con le istanze dei giovani della rivoluzione.

Il Consiglio nazionale (Cns) è sì diretto da una segreteria generale plurale di cui fanno parte laici, liberali, indipendenti e Fratelli musulmani, ma è dominato per un terzo dal movimento islamico sunnita illegale in Siria dal 1980 e i cui quadri sono da decenni tutti all'estero. In molti denunciano la volontà dei Fratelli di impossessarsi della rivoluzione, investendo ingenti quantità di denaro nella militarizzazione della protesta e monopolizzando in seno al Cns le decisioni. Alcun illustri dissidenti storici - Haytham al Maleh, Kamal Labwani e Walid al Bunni - hanno espresso critiche esplicite a questo stato di cose, e i primi due si sono dimessi ufficialmente dal Consiglio. Il suo attuale presidente, Burhan Ghalioun, è sempre meno considerato dalla piazza, ritenuto "bravo solo a parlare" e "ostaggio dei Fratelli".

Gli oppositori in patria - riuniti attorno alla sigla del Coordinamento per un cambiamento democratico - rappresentano ormai solo sè stessi e sono descritti dagli attivisti in patria e dai profughi nei paesi vicini come "gente che cerca di tenere il piede in due staffe". Tra loro c'è anche Haytham Mannaa, per anni attivista per la difesa dei diritti umani a Parigi e ora sempre più visto come un "opportunista" che "ha contatti con l'Iran".

La dimensione regionale è la salvezza degli al Assad. Per lunghi mesi nessun attore regionale e internazionale poteva immaginare un Medio Oriente senza la Siria di Bashar. Ora, a spingere di più per una caduta cruenta del regime sono l'Arabia Saudita e il Qatar che hanno cominciato a inviare aiuti economici ai rivoluzionari. Le potenze occidentali e la Turchia, come Russia, Cina e Israele, non hanno ancora compreso come i loro interessi possano esser difesi da chi prenderà il potere nella Siria di domani. Per questo, grazie alla posizione esplicita di Mosca e Pechino, gli attori che contano hanno finora parlato moltissimo ma agito pochissimo. La rivoluzione dei siriani non è solo contro gli al Assad ma contro un granitico ordine regionale.

Su tutto, il numero dei morti. Una delle armi principali usate nella guerra mediatica in corso da mesi attorno alla questione siriana è quella della conta delle vittime. Damasco, che attribuisce i morti a non meglio precisati terroristi pagati dall’estero, ha fornito il 13 febbraio scorso l’ultimo bollettino che parla di “migliaia di morti” senza precisare quanti militari e quanti civili.

Gli attivisti, che accusano le forze del regime di compiere una sanguinosa repressione, forniscono - mentre si scrive - un conteggio che varia dai 9.707 uccisi ai 10.858.

L’agenzia ufficiale Sana pubblica quotidianamente notizie di funerali di militari e poliziotti uccisi dai terroristi. Fornisce le generalità dei martiri ma non dice quando sono stati uccisi. In altre notizie, riferisce dell’uccisione di terroristi, senza dare le generalità, e di membri delle forze dell’ordine, anche in questo caso senza fornire precisazioni, ma indicando la località e la regione dell’uccisione. Il sito internet è anche in inglese, francese, spagnolo, tedesco, russo e cinese ma le pagine in queste lingue non sono aggiornate come quelle in arabo.

La tv di Stato siriana e la tv Addouniya, quest’ultima di proprietà di una cordata di imprenditori vicini al regime, hanno in questi mesi trasmesso presunte confessioni di terroristi, per ora tutti identificati come “siriani” con l’eccezione di un “contrabbandiere libanese”, ma sul numero e sull’identità delle vittime non forniscono più informazioni di quelle già riferite dalla Sana. Oltre all’arabo, la tv di Stato trasmette notiziari anche in inglese e francese.

Il centro delle violazioni in Siria (Vdc) è in arabo e solo un mese fa ha aperto una pagina in inglese, aggiornata però con meno frequenza della prima. È frutto del lavoro di attivisti e ricercatori siriani sul campo, in collegamento con i Comitati di coordinamento locali. Dopo lunghe verifiche incrociate, gli autori del Vdc pubblicano quasi in tempo reale un bilancio assai dettagliato delle vittime, specificando se si tratta di civili e militari, di disertori o governativi. Per ogni “martire” è inoltre indicato il sesso, l’età, il luogo di origine, il luogo dell’uccisione e la circostanza della morte, e vengono spesso allegati foto e link a video amatoriali in cui si mostra il corpo della vittima. Viene raramente citato dalla stampa internazionale ma è la fonte che offre maggiori informazioni.

Syrian Shuhada (shuhada vuol dire “martiri” in arabo) è solo in arabo ed è frutto di un’altra piattaforma di attivisti. È arricchito da grafici e tabelle riassuntive regione per regione o per data, ma è meno dettagliato nel fornire le identità delle vittime. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), è la piattaforma che vanta una più fitta e consolidata rete di attivisti e testimoni sul posto. Attivo dal 2004, è diretto da Osama Sulayman (foto a destra), originario di Banias, meglio noto con lo pseudonimo Rami Abdel Rahman, avvocato sunnita, da anni esiliato in Gran Bretagna. Fornisce bollettini quotidiani sulle vittime della repressione. Da anni riferisce notizie sulle violazioni dei diritti umani da parte del regime.

I sostenitori siriani e stranieri di Damasco si sono accaniti sull’Osservatorio - il più citato dall’Agenzia France Presse e da Reuters - accusandolo di essere un centro finanziato dall’Occidente per diffondere menzogne. Nessuno di questi critici conosceva l’Ondus prima del 15 marzo. Se ne sono accorti solo a inizio della repressione.

Eppure da anni l’Osservatorio denuncia arresti di dissidenti e oppositori, rivolte nelle carceri, violazioni di vario tipo commesse dal regime. Tutte denunce confermate dai fatti in questi lunghi anni. A rafforzare la tesi che l’Ondus è parte del complotto straniero contro la Siria, questi critici ricordano che il suo portavoce Rami Abdel Rahman è residente in Gran Bretagna. Forse perché nel suo paese non potrebbe lavorare liberamente.

L’Organizzazione nazionale per i diritti umani in Siria, diretta dal 2006 da Ammar Qurabi, 41 anni, originario di Aleppo, attivista e dissidente siriano più volte in carcere. Come l’Ondus, Qurabi lavora da anni nel settore e dal 15 marzo 2011 fornisce ai media internazionali aggiornamenti quotidiani delle vittime cadute in Siria, distinguendo tra vittime civili e militari, e militari disertori e governativi.

 

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