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23 Nov 2013

Arctic Sunrise, lo scontro Russia-Greenpeace
di  Matteo Tacconi

La Russia deve dissequestrare la Arctic Sunrise e liberare il suo equipaggio, questa la decisione giudici del Tribunale internazionale dell’Onu per il diritto del mare

In parole povere: la Russia deve dissequestrare la Arctic Sunrise e liberare il suo equipaggio, permettendogli di lasciare il proprio territorio. Questa la sentenza con cui i giudici del Tribunale internazionale dell’Onu per il diritto del mare (Itlos, sede ad Amburgo) si sono espressi, ieri, sulla contesa tra Greenpeace e la Russia. Erano stati chiamati a pronunciarsi dal governo dei Paesi Bassi. La Arctic Sunrise batte, infatti, bandiera olandese. Per la cronaca, su 21 magistrati solo due hanno votato contro la sentenza: Vladimir Golitsyn e Markiyan Kulyk. L’uno russo e l’altro ucraino.

Forse non accadrà né l’una e né l’altra cosa. La Arctic Sunrise rimarrà ormeggiata nel porto di Murmansk e il processo a carico degli attivisti di Greenpeace proseguirà. Se non altro perché la Russia, da subito, ha dichiarato di non accettare, in questo caso specifico, la giurisdizione dei togati dell’Onu.

La sentenza dell’Itlos avrà senz’altro un’eco non irrilevante, tale da superare le mura del Cremlino. Potrebbe, questo, indurre le autorità russe a riconsiderare ulteriormente – ammorbidendolo – l’approccio alla questione della Arctic Sunrise?

Non è facile capirlo. Ma, intanto, riavvolgiamo un attimo il nastro e andiamo al 19 settembre, all’origine del braccio di ferro tra Mosca e Greenpeace. Quel giorno la guardia costiera russa è intervenuta, bloccando la protesta ingaggiata dagli ambientalisti contro le esplorazioni petrolifere condotte dalla Russia nel Mar di Barents. La Arctic Sunrise è stata sequestrata e le trenta persone a bordo – 28 attivisti, un fotografo e un video-maker – sono state arrestate e condotte nella città portuale di Murmansk. Lì, successivamente, sono state formalmente accusate di pirateria. Reato che ai sensi della legge russa può prevedere, in caso di condanna, fino a 15 anni di reclusione.

L’accusa, però, è decaduta a inizio novembre. Ma il procedimento giudiziario non s’è fermato. L’inchiesta va avanti, sulla base del reato di vandalismo. L’unico attualmente contestato. La pena massima prevista è di sette anni.

Nel frattempo quelli della Arctic Sunrise sono stati trasferiti a San Pietroburgo, una decina di giorni fa, al termine di una vera odissea sulla strada ferrata, durata più di venti ore. Il motivo della traversata? Il tribunale di Murmansk non ha competenza sui reati di vandalismo.

Negli ultimi giorni le cronache riferiscono dei rilasci degli accusati. Uno dopo l’altro, i membri dell’equipaggio sono usciti dalle loro celle su cauzione. Compreso Christian D’Alessandro, l’attivista italiano. L’unico a restarsene dentro è Colin Russell, australiano, 59 anni. Non si capisce perché. L’ambasciata australiana sta cercando di approfondire.

Ora, la domanda è se – tornando alla notizia di oggi – la decisione dei giudici Onu porterà la Russia a ripensarci, a chiudere qui l’udienza e a mandare tutti a casa. Difficile, si diceva. È vero che c’è una campagna internazionale forte, martellante. È vero che la sentenza dell’Itlos può mettere in imbarazzo Mosca, che da anni tenta di cucirsi addosso l’immagine della paladina del diritto internazionale, salvo poi – come in questo caso – cambiare registro nel momento in cui emerge una possibile collusione con sovranità e interessi nazionali. Temi, questi, su cui i russi sono molto spesso perentori. La tentata scalata della piattaforma petrolifera di Gazprom da parte degli attivisti di Greenpeace ha cozzato, secondo la Russia, proprio questi due principi.

Sembra dunque difficile, al netto di tutto questo, che le cose possano variare. Che Christian D’Alessandro e i suoi colleghi possano lasciare presto la Russia, evitando il processo e la possibile condanna. Ma non è da escludere che possa finire così o che, persino, Mosca “baratti” la questione della Arctic Sunrise con qualche concessione, su qualche altro tavolo. La partita è aperta. Come tecnicamente aperta, riferisce Greenpeace, è l’accusa di pirateria. Ancora la giustizia russa non ha impresso il timbro dell’ufficialità all’archiviazione di questo capo.

Quello che sembra inevitabile, in ogni caso, è il confronto di lungo periodo tra l’ambientalismo e il Cremlino. Potrebbero esserci, in futuro, altri casi analoghi a quello della Arctic Sunrise. Altre proteste, altre iniziative volte a fronteggiare la corsa all’energia nascosta sotto i fondali del Mar di Barents. Lo scioglimento dei ghiacci artici la favorisce, e lì sotto pare ci siano vaste riserve di petrolio e gas. Mosca non vuole lasciarsele scappare, pur se gli attuali costi di estrazione sono difficilmente sostenibili.

Parallelamente, c’è un’altra conseguenza dello scioglimento dei ghiacci polari. È l’apertura della rotta marittima del nord. Collega l’estremo oriente russo alla Norvegia. Negli ultimi due anni imbarcazioni sud-coreane, giapponesi e russe, un centinaio in tutto, pressappoco, hanno affrontato il tragitto. Ancora non è così agevole, ma in prospettiva potrebbe dare il via a una rivoluzione di proporzioni gigantesche, tagliando costi e tempi di trasporto del passaggio delle merci dall’Asia all’Europa (attualmente si solca l’Oceano indiano e si transita da Suez). Alcune sigle ambientaliste già denunciano che lungo la rotta del nord si assisterà a una processione di navi cargo e petroliere, con il rischio che l’ecosistema artico venga preso a schiaffi.

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