Originale: Down to Earth
10 novembre 2013

L’imperativo della crescita contro l’imperativo del clima
di Tarique Niazi
traduzione di Giuseppe Volpe

Nel 2007 il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico dell’ONU (IPCC) ha consegnato la sua quarta valutazione del cambiamento climatico globale, un lavoro che è stato riconosciuto con un Nobel. In tale valutazione l’IPCC concludeva con il 90% di certezza che la crescente concentrazione di carbonio nell’atmosfera era provocata dall’uomo. Questa rivelazione ha fatto balzare dal sonno il mondo facendogli vedere la sua infinita impronta su un pianeta finito. Il Comitato del Nobel di Stoccolma ha fatto eco a questo risveglio – sui pericoli imminenti – con un premio appropriato al lavoro dell’IPCC e del suo onorato vicepresidente Al Gore. Sei anni dopo lo stesso IPCC presso lo stesso ONU ha parlato con un grado di certezza più elevato (95%) del fatto che le emissioni di carbonio sono credibilmente di fonte umana. Tuttavia il mondo si è limitato a uno sbadiglio e ha continuato con i suoi soliti affari.

Cosa più importante, l’IPCC, per la prima volta, ha limitato le emissioni globali a un trilione di tonnellate per evitare un cambiamento climatico estremo!! Il limite consentito è un terzo dei più di tre trilioni di tonnellate di carbonio ancora presenti nei combustibili fossili sottoterra. Il mondo ha già emesso più di metà di un trilione di tonnellate di carbonio (560 miliardi di tonnellate) a partire dalla rivoluzione industriale. Si stima che avrà consumato il restante bilancio del carbonio entro il 2040.  Al ritmo attuale di 50 miliardi di tonnellate di emissioni annuali di gas serra, la trilionesima tonnellata di carbonio sarà bruciata molto prima del 2040. Se il riscaldamento medio globale va mantenuto sotto i due gradi Celsius, il mondo dovrebbe mantenersi all’interno del suo bilancio del carbonio.

Capitalismo industriale e metabolismo industriale

Molti sostengono, e persuasivamente, che è stata l’abbuffata di combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) del capitalismo industriale a creare la crisi del clima. Dal 1850 la rivoluzione industriale ha accelerato l’ascesa del capitalismo e il capitalismo ha alimentato la rivoluzione industriale. Il rapporto di mutuo rinforzo è stato battezzato in impetuosi fiumi di combustibili fossili. Il capitalismo industriale ha da allora consumato gran parte dei combustibili fossili la cui creazione ha richiesto milioni di anni. Di essi il petrolio è stato il pilastro della macchina industriale. Il suo consumo è stato quello più rapido tra tutti i combustibili, ciò che lo ha portato sull’orlo del virtuale esaurimento.

Se al consumo mondiale di petrolio fosse fissato un tetto al livello di suo utilizzo attuale pari a 89,9 milioni di barili al giorno  (bpd) ci vorrebbero solo trent’anni prima che l’ultima goccia delle riserve dimostrate, pari a quasi un trilione di barili di petrolio, fosse estratta dalla terra. Il consumo globale di petrolio, tuttavia, è in ascesa: 87,4 milioni di bpd nel 2010; 88,9 milioni di bpd nel 2011; e 89,9 milioni di bpd nel 2012. Tuttavia la produzione globale di petrolio sta diventando inferiore alla sua domanda globale. In conseguenza il mondo ha già toccato quello che è diventato noto come il Picco di Hubbard, cioè il picco del petrolio, vale a dire il momento in cui la domanda globale di petrolio eccede la sua disponibilità. Ciò che rende più allarmante il picco del petrolio è la sinistra previsione del collasso climatico che impone che i combustibili fossili residui, petrolio compreso, debbano essere lasciati sottoterra, non bruciati e non utilizzati. Questo fossili contengono, come ha riferito l’IPCC, tre trilioni di tonnellate di carbonio.

Bill McKibben, uno studioso statunitense diventato un attivista, sollecita da molto tempo il mantenimento dei fossili dove si trovano: sottoterra. Ha fondato un’organizzazione attivista chiamata 350.org. Il numero 350 si riferisce a 350 ppm (parti per milione) come al livello massimo della concentrazione atmosferica di carbonio. Il superamento di questo livello, secondo McKibben, sarà il punto critico del cambiamento climatico. 

Il climatologo di fama mondiale James Hansen fa eco a queste preoccupazioni e fissa il livello di carbonio nell’atmosfera a un livello ancor più basso: 340 ppm. La triste realtà è che, a maggio di quest’anno, la concentrazione di carbonio ha già superato le 400 ppm, il che significa che per ogni milione di tonnellate di gas nell’atmosfera ci sono 400 tonnellate di carbonio. Ogni anno 2 ppm di carbonio sono aggiunte all’atmosfera già satura. La scienza del clima o la quinta valutazione sembrano lungi dall’invertire le tendenze attuali o previste di crescenti livelli di emissioni di gas serra in un mondo che continua ad alimentare la sua dipendenza dai combustibili fossili.

Capitale fossile: tutto il lasciato è perso

L’industria dei combustibili fossili è così potente e così redditizia che qualsiasi sfida ai suoi radicati interessi è una sfida al Golia dei tempi moderni. Perché una simile sfida abbia una qualsiasi possibilità di successo deve provenire dalla fionda di un David. Ma il David contemporaneo è cercato nell’economia del libero mercato e nelle sue offerte apparentemente allettanti di permessi di inquinare, tetto e scambi di certificati di emissione, imposta sul carbonio, scambi di riserve di carbonio eccetera.

In questa ricerca quello che è dimenticato è il fatto che i mercati sono intrinsecamente mirati a servire i fini del capitalismo e a saziare la sua fame di materiali ed energia. Marx, nella sua espressione memorabili e  duratura, chiama la fame di materiali ed energia del capitalismo il suo “metabolismo ecologico e sociale”, che oggi è al centro della crisi climatica! Gli studiosi della globalizzazione affermano che la continua battaglia del capitale è per l’espansione dei mercati di materiali e di fabbriche.

Dal centro e dalla periferia, passando per la semiperiferia in mezzo a essi, il capitalismo è cresciuto in quello che Immanuel Wallerstein ha notoriamente definito un “sistema mondiale”, persino una “società mondiale”. Gli stati al centro e la periferia e semiperiferia operano come suoi agenti per sostenere il suo progresso. In conseguenza la portata del capitalismo si è estesa all’intero globo. E’ diventata “globalizzazione”.

Il suo potere può essere misurato dal fatto che l’industria dei combustibili fossili continua a essere inondata di sussidi statali, anche se nuota nei profitti trimestre dopo trimestre, anno dopo anno. Secondo il Worldwatch Institute l’industria mondiale ha ricevuto, nel suo segmento più esclusivo, più di un trilione di dollari di sussidi statali nel 2012. Nel corso degli anni tali sussidi hanno seguito una tendenza al rialzo. La prolificità dello stato e l’oro nero sono la linfa vitale dell’industria dei combustibili fossili.

D’altro canto i combustibili fossili sono stati il motore dell’economia capitalista globale. Anche l’alba della civiltà è sorta dopo che il mondo industrializzato ha scoperto il segreto dell’energia solare immagazzinata nella vita vegetale che ci sono voluti milioni di anni perché si trasformasse in fossili. Questa interdipendenza ha fatto sorgere un dilemma che il sociologo John Urry ha appropriatamente colto nel suo libro più recente, ‘Societies Beyond Oil: Oil Dregs and Social Futures’ [Società oltre il petrolio: giacimenti petroliferi e futuri sociali] e che il sociologo Ultich Beck ha sintetizzato in modo affascinante così: “Non possiamo né vivere con il petrolio, né senza di esso.”

Trattato sul clima: costruire Kyoto II

Se il mondo deve convivere con i combustibili fossili, è tanto più importante ridurre le emissioni di gas serra e mantenere il riscaldamento medio globale al di sotto dei due gradi Celsius (3,6 gradi Fahrenheit). In breve, al pianeta va dedicata urgente attenzione per ridurne le sofferenze causate dagli eccessi umani. L’attenzione, tuttavia, è finita coinvolta nei nodi del conflitto che complicano ogni progresso verso il risanamento del globo.

Il fiasco del Trattato di Copenhagen sul clima nel 2009 è una delle molte manifestazioni di divisione in allargamento su questo tema. Un raggio di speranza è venuto da Doha, Qatar, nel 2012, che ha contribuito a ridare vita al protocollo di Kyoto che essenzialmente mira a ridurre le emissioni al livello del 1990 o sotto di esso. Un accordo su Kyoto deve essere raggiunto entro il 2015, o prima, se si vuole che abbia una qualche possibilità di essere messo in atto in futuro.

E’ incoraggiante che le Nazioni Unite abbiano promesso di convocare una riunione dei capi di stato nel 2014 per spingerli a un patto globale sul cambiamento climatico. Qualsiasi trattato generale richiede che tutte le nazioni giungano a un accordo sulle emissioni globali. Ma in passato questa necessità è stata ridotta a logore banalità e ad ancor più logore adesioni di facciata. Ciò che rende ancor peggiori le cose è che il Nord globale e il Sud globale sono distanti anni luce su come e quante emissioni vanno tagliate per salvare il pianeta dal surriscaldamento.

Falsa scelta tra il pianeta e i poveri

Le economie emergenti in Africa, Asia e America Latina sono più interessate a ridurre la povertà che a tagliare le emissioni perché queste ultime sono collegate alla sostenibilità sociale. Nonostante gli inni di lode innalzati al capitalismo, esso sino è stato al servizio del solo 7% della popolazione globale (500 milioni di persone) mentre il 93% della popolazione sta ancora aspettando che il flusso della sua marea elevi anche le sue barche (anziché i fardelli che gravano sulla sua vita). Tuttavia il PIL globale (prodotto interno lordo) è stato stimato in 71,8 trilioni di dollari nel 2012.

La sinistra è frequentemente irrisa per le sue idee utopistiche, ma l’utopia capitalista è raramente chiamata a rispondere del suo illusorio nirvana. Con una percentuale di riuscita del 7% negli ultimi 150 anni, l’utopia capitalista si trasforma in distopia. Questo è evidente per il fatto che miliardi di persone continuano a trascinarsi nella miseria anche se i governi di tutto il mondo tentano di sottostimare i poveri. Tali governi si confrontano con una falsa scelta tra salvare il pianeta e dar da mangiare ai suoi abitanti viventi.

La scelta tra tagliare la povertà e tagliare le emissioni divide tuttora il mondo. Questa divisione non è limitata al Nord e al Sud globali. Nel Nord globale la classe capitalista e i suoi sostenitori nell’élite nazionale fiutano una trappola in qualsiasi trattato vincolante sul cambiamento climatico. Un trattato simile, secondo loro, porterà a un massiccio taglio della crescita economica che è imperativa per la marcia in avanti del capitale e la fine della povertà. Anche le classi economicamente depresse si alimentano di apprensioni circa il fatto che un trattato sul cambiamento climatico eliminerebbe i loro posti di lavoro. Esiste perciò un sostegno trasversale al “continuare come al solito”.

Questa divisione è ulteriormente aggravata dalla polarizzazione politica – anch’essa schierata su linee di classe – che crea una distanza di anni luce tra i conservatori e i liberali, i liberali e i progressisti, i Conservatori e i Laburisti nel Regno Unito, o i Repubblicani e i Democratici negli USA. Lo sbandamento generale in direzione del conservatorismo religioso e fiscale in occidente si è aggravato nei decenni portando a formazioni politiche come il Tea Party negli Stati Uniti e all’etnicizzazione della politica dall’Australia alla Germania.

In gran parte dell’Europa e dell’America del Nord i piani neoliberali di austerità hanno reso ancor più difficile per i leader accettare un qualsiasi piano globale che abbia il potenziale di limitare, per non parlare di invertire, la crescita economica liberandola dal carbonio. Questo interesse spiega anche perché un evento globale quale la quinta valutazione dell’IPCC è passato praticamente sotto silenzio quando è stato reso pubblico, il 27 settembre.

Conclusione

Negli ultimi 150 anni il capitalismo industriale ha consumato più di metà della disponibilità di carbonio ed è probabile che ne esaurisca il resto entro il 2040 o ancor prima. La sua storia d’amore con i combustibili fossile è mossa dalla sottovalutazione del costo del carbone, del petrolio e del gas i cui costi sociali e ambientali sono esternalizzati facendone carico alla massa generale dei consumatori e dei cittadini.

La conseguenza è un pianeta diviso e messo a rischio da disuguaglianze sociali che si ampliano e dal cambiamento climatico che si aggrava.

Le disuguaglianze sociali sono il sottoprodotto dell’accumulazione verticale che crea gli uomini più ricchi del mondo, come Carlos Slim Helù, il cui patrimonio finanziario nel 2010 è stato superiore alle economie nazionali di 72 paesi! Inoltre queste disuguaglianze fanno sostenere ai mansueti della terra in peso maggiore del cambiamento climatico.

Cosa più importante, l’”imperativo della crescita” (cioè della crescita infinita) dell’economia capitalista è in conflitto con l’”imperativo del clima” di una economia a zero emissioni. L’imperativo della crescita, tuttavia, non può essere alimentato dai combustibili fossili senza il rischio di un collasso climatico a livello planetario. Analogamente l’imperativo del clima di un’economia privata del carbonio resterà un’illusione senza sostenibilità sociale basata su una crescita orizzontale della ricchezza. Il cambiamento climatico, pertanto, non è una questione di scienza del clima; è piuttosto una questione di giustizia economica, ambientale e sociale.


Tarique Niazi è docente associato di sociologia ambientale presso l’Università del Wisconsin – Eau Claire.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/growth-imperative-versus-climate-imperative-by-tarique-niazi.html

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