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21/06/2013

Shell, altro che sabotaggi
di Luca Manes

Le perdite di petrolio dagli oleodotti che attraversano in lungo e in largo il territorio del Delta del Niger sono di solito addebitate dalle multinazionali presenti sul campo (soprattutto Shell, Eni e Total) a pratiche di sabotaggio. Un rapporto di un’agenzia governativa olandese sembrerebbe smentire quanto affermato almeno dalla Shell, da decenni la oil corporation più attiva in Nigeria e legata a tragici episodi come la morte dell’attivista e scrittore Ken Saro Wiwa nel 1995.

In risposta a un esposto presentato da Amnesty International e da Friends of the Earth, il Punto di Contatto Nazionale sulle linee guida delle multinazionali stabilite dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha stabilito che le prove dei sabotaggi presentate dalla Shell sarebbero basate su “evidenze discutibili e indagini non adeguate”.

Le due organizzazioni della società civile internazionale hanno evidenziato come il Punto di Contatto Nazionale avrebbe dovuto esprimere un giudizio ancora più severo sulla posizione della compagnia anglo-olandese, chiarendo se c’è stata o meno violazione delle linee guida dell’OCSE. Amnesty e Friends of the Earth hanno ribadito che il problema dei sabotaggi esiste ma, anche in base a prove in loro possesso, è in un certo senso “gonfiato” ad arte dalle Shell per coprire le sue responsabilità – tanto che in alcuni casi l’azienda ha parlato del 98 per cento di “colpe altrui”.

L’azienda, infatti, è tenuta a pagare delle giuste compensazioni qualora si verifichino degli incidenti, mentre tutto il sistema di documentazione degli sversamenti, sempre secondo Amnesty International e da Friends of the Earth, sarebbe basato su prove presentate dalla stessa Shell e non da indagini portate avanti da organismi indipendenti.

Nel frattempo l’associazione inglese Platform ha realizzato un rapporto sul crescente ruolo giocato dal gigante petrolifero nell’ambito delle attività di fracking in tutto il pianeta. Una pratica, quella dell’estrazione del gas di scisto, che l’amministratore delegato della Shell Peter Voser ha definito a più riprese “sostenibile da un punto di vista ambientale”, ma che, come dimostrano i dati raccolti in varie località dove il fracking viene praticato, contribuisce in maniera esponenziale ad aumentare l’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria. Nel documento di Platform si sottolinea anche come in Australia e negli Stati Uniti la corsa al gas di scisto non abbia comportato un incremento dei posti di lavoro. La Shell continua a ignorare le accuse mosse nei suoi confronti, rafforzando le sue azioni di “greenwashing”, per esempio finanziando iniziative culturali un po’ ovunque, a partire dal Regno Unito. Ogni anno la compagnia stacca un corposo assegno per i musei londinesi, tra cui la Tate Gallery, tuttavia realtà della società civile britannica come Platform sono sempre più attive nello smascherare il “giochino”. In attesa che alla Shell finalmente cambi qualcosa.

Per scaricare il rapporto in inglese:
http://platformlondon.org/p-publications/shell-global-mega-frackers/

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