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12 luglio 2013

Sostenibilità, l’incapacità di decidere sarà la condanna della specie umana?
di Gianfranco Bologna

Siamo sommersi da rapporti e dossier, ma manca ancora la capacità d’azione politica Navigando incuranti verso la tempesta perfetta. Barry: «È senz’altro possibile che entro il 2100 la specie umana si sarà estinta o sarà confinata in poche aree»

Secondo la comunità scientifica che si occupa della sostenibilità e del Global environment change (il cambiamento ambientale globale) la situazione del sistema climatico sta peggiorando repentinamente, in una dimensione persino inaspettata rispetto agli scenari che gli studiosi hanno prodotto anche recentemente.

In attesa della pubblicazione del quinto assessment dell’Intergovernamental panel on climate change (Ipcc), il cui primo volume sarà definito entro il prossimo settembre – con la diffusione del Summary for policy makers, mentre i volumi successivi saranno resi noti entro il 2014 – si sono moltiplicate in questi primi mesi del 2013 le pubblicazioni di autorevoli rapporti che fanno il punto sulla situazione del clima mondiale e richiamano, con forza, l’impegno ad agire subito e a non perdere ulteriore tempo prezioso, per ridurre significativamente le emissioni di gas climalteranti dovute all’azione umana.

La stessa International energy agency (Iea), che certamente non può essere classificata come un’organizzazione ambientalista, ha ritenuto di dover pubblicare un rapporto speciale del proprio World energy outlook annuale, intitolato Redrawing the Energy-Climate Map, nel quale ammonisce chiaramente che le nostre società non sono affatto sulla strada di limitare la crescita delle temperature sotto i 2°C rispetto alla temperatura media della superficie terrestre in epoca preindustriale, come si sono invece impegnati i leader di tutti i governi nel mondo nei negoziati internazionali. Le emissioni globali di anidride carbonica hanno infatti raggiunto il livello più alto nel 2012 con 31.6 miliardi di tonnellate.

La World meteorological organization (Wmo) ha pubblicato il rapporto The Global Climate 2001-2010. A Decade of Extremes nel quale ricorda che il primo decennio del 21° secolo è stato il più caldo da quando esistono registrazioni moderne delle temperatura della superficie terrestre (iniziate intorno al 1850). E’ stato il decennio che ha visto abbattere tutti i precedenti record, rispetto alla media delle precipitazioni, nell’anno 2010, e con drammatici fenomeni meteorologici estremi come le lunghe siccità di Amazzonia, Australia e Africa orientale, l’ondata di calore eccezionale in Europa del 2003, le eccezionali inondazioni in Pakistan nel 2010, ecc.

La World bank ha rafforzato il tutto con un ulteriore rapporto dal titolo 4° Turn Down the Heat. Climate Extremes Regional Impacts and the Case for Resilience che è stato redatto da un gruppo di noti scienziati dell’autorevole Institute for climate impacts research and climate analytics di Potsdam, i quali ricordano come, in assenza di politiche concrete di riduzione delle emissioni vi è il 40% delle possibilità che la temperatura media della superficie terrestre entro il 2100 sia superiore ai 4°C.

In questo quadro diventa sempre più importante comprendere come sia possibile governare al meglio la situazione in una dimensione di straordinaria emergenza quale quella che si sta profilando rispetto ai sempre più deteriorati rapporti tra noi e i sistemi naturali.

Il noto studioso David W. Orr, professore di studi ambientali e politica all’Oberlin College nell’Ohio, così scrive nel suo capitolo dedicato alla governance nella lunga emergenza scritto per l’ottimo rapporto State of the World 2013 intitolato Is Sustainability Still Possible? (che sarà lanciato a settembre in edizione italiana per Edizioni Ambiente): «Siamo entrati in una “lunga emergenza” in cui una miriade di problemi e dilemmi ecologici, sociali ed economici sempre più gravi, a differenti scale geografiche e temporali, stanno convergendo come una crisi di tutte le crisi. È una collisione di due sistemi non-lineari – la biosfera e i cicli biogeochimici da un lato, e le istituzioni, le organizzazioni e i governi umani dall’altro. Ma la risposta a livello nazionale e internazionale finora è stata ampiamente indifferente o inconsistente, e da nessuna parte in modo tanto palese quanto negli Stati Uniti, responsabili di circa il 28% del carbonio da combustibili fossili che l’umanità ha immesso nell’atmosfera tra il 1850 e il 2002.

La “tempesta perfetta” che ci troviamo di fronte è dovuta allo scontro tra il cambiamento climatico; il disordine ecologico sempre più diffuso (che include deforestazione, perdita di suolo, scarsità d’acqua, perdita di specie, acidificazione degli oceani); la crescita della popolazione; le tensioni nazionali, etniche e religiose; e la proliferazione di armi nucleari – fenomeni accumunati da fallimenti sistemici di visione e policy. Di conseguenza, nelle parole del teorico politico Brian Barry, è senz’altro possibile che entro il 2100 la specie umana si sarà estinta o sarà confinata in poche aree sfuggite agli effetti devastanti dell’olocausto nucleare o del riscaldamento globale».

Tra le cause di questa paralisi vi è l’assoluta difficoltà del problema. Il cambiamento climatico è scientificamente complesso, politicamente controverso, economicamente costoso, moralmente dibattuto e facilissimo da negare o rinviare ad altri in un secondo momento. Ma il continuo fallimento nell’anticipare e prevenire i peggiori effetti della destabilizzazione climatica di fronte a schiaccianti prove scientifiche rappresenta il più grande fallimento morale e politico della storia, un crimine intergenerazionale a cui non abbiamo ancora dato un nome.

Escludendo un miracolo tecnologico, abbiamo condannato noi stessi e i nostri discendenti a vivere in una crescente instabilità climatica per centinaia o migliaia di anni. Nessun governo ha ancora mostrato la visione, la volontà, la creatività o la capacità per affrontare problemi a questa scala, complessità o durata. Nessun governo è pronto a prendere queste “tragiche scelte” verso il futuro con umanità e razionalità. E nessun governo ha ancora mostrato la volontà di ripensare la propria missione all’incrocio tra instabilità climatica e pratiche economiche convenzionali. Lo stesso avviene nell’ambito della governance internazionale. Nelle parole dello storico Mark Mazower: «Le vere sfide del mondo stanno montando intorno a noi in forma di cambiamento climatico, instabilità finanziaria… [ma non c’è] alcun singolo organismo in grado di coordinare la risposta al riscaldamento globale».

Desidero qui ricordare alcune riflessioni di Jorgen Randers nel rapporto al Club di Roma, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni (edizioni Ambiente) che ho già riportato in una precedente rubrica su Greenreport: «La rivoluzione della sostenibilità è iniziata, ma è ancora agli albori. Quando sarà completata? Sono sicuro che entro il 2100 avremo un mondo molto più sostenibile di quello attuale – dato che, nelle parole di Alan Knight, un esperto del settore, “l’insostenibilità è insostenibile”. Gli attuali sistemi insostenibili non possono per definizione essere portati avanti indefinitamente; dovranno essere sostituiti da sistemi e comportamenti che possano essere mantenuti a lungo termine. È difficile dire se il nuovo mondo sarà seducente o se comporterà un livello di benessere molto più basso. Dipende da quello che l’umanità sceglierà di fare durante il resto del XXI secolo. Come vedrete dalla mia previsione, credo che da qui al 2052 la transizione sarà stata completata a metà, e che potrà incontrare serie difficoltà nella seconda metà del secolo. La società globale dovrà compiere un miracolo dopo il 2052 se vorrà chiudere il secolo in una condizione auspicabile e durevole«.

Randers poi aggiunge : «Ci sono cose che richiedono tempo. In molti casi questo non è un male. Ponderando e consultandosi ci si aiuta a evitare azioni con effetti collaterali non voluti e indesiderabili. Ma in altri casi, come quando si sta correndo verso un muro di mattoni, i ritardi nelle decisioni sono fatali. Il mondo, almeno per come lo vedo io, si trova di fronte un paio di problemi che appartengono alla seconda categoria – innanzitutto in campo climatico. C’è bisogno di agire ora, non dopo decine e decine di anni di analisi. Altri la pensano in modo diverso, e quindi le attuali procedure decisionali sono insopportabilmente lente.

La democrazia ha molti vantaggi e spesso genera soluzioni che sono più sostenibili rispetto alle decisioni imposte dall’alto. Ma la velocità non è una delle caratteristiche del processo decisionale democratico. Quindi, secondo me, la questione fondamentale in questo ambito è se la democrazia sarà d’accordo su uno stato più forte (e un processo decisionale più rapido) prima che sia troppo tardi – prima che finiamo contro il muro di mattoni dei cambiamenti climatici che si autoalimentano, della perdita irreversibile della biodiversità e degli investimenti lungimiranti in ricerca e sviluppo».

E’ difficile non concordare con queste affermazioni. Non abbiamo ancora troppo tempo, soprattutto alla luce di quanto ci stanno documentando gli scienziati che si occupano delle dinamiche del sistema Terra (come è avvenuto anche in occasione della grande conferenza dedicata proprio agli effetti dei cambiamenti globali che ha avuto luogo a Londra nel marzo 2012 dal titolo Planet Under Pressure, e della quale cui ci siamo a lungo occupati nelle pagine di questa rubrica). Il cambiamento globale ed il cambiamento climatico in particolare sembrano accelerarsi in maniera difficile da governare e gestire. Agire domani sarà molto più difficile che farlo oggi. Ma ne siamo tutti consapevoli?

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