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22 novembre 2013

Varsavia, COP19. Questione di parole
di Alberto Zoratti

Il negoziato si basa sulla parola, sul suo significato. In questa Cop19 sembra che a volte i concetti perdano di senso: “finanza”, “equità”, “accordo globale”. Sembra sia questione di virgole e di accenti, in verità qui ci stiamo giocando la stabilità della biosfera e delle comunità umane per i secoli che verranno.

VARSAVIA – I negoziati come si sa sono questione di parole, ma la cosa che conta è il significato. Proviamo ad elencarle, le parole di questa COP19 (la Conferenza delle parti dell’Onu), perchè solo a partire dall’abbecedario si può capire cosa determinerà l’inadeguatezza di questa Conferenza.

La prima parola è “finanza”, in tutte le sue forme. Il Fondo globale per il clima, nato nel 2009 a Copenhagen e ripetuto come un mantra in tutte le COP seguenti, dovrebbe portare a mobilizzare oltre 100 miliardi di dollari entro il 2020 per politiche di adattamento e di mitigazione, per dare cioè risorse ai Paesi per aumentare la propria resilienza ai cambiamenti ambientali e per sviluppare nuove tecnologie di abbattimento delle emissioni di gas climalteranti. Gli impegni sono molti, ma la loro concretizzazione latita.

“Sto sollecitando i leader mondiali perchè dovrebbero aumentare il livello delle loro ambizioni e rendere proritarie le loro già limitate risorse sul cambiamento climatico” ha detto al Financial Times il segretario dell’Onu Ban Ki-moon. “Dovrebbero avere una visione di più lungo periodo, invece che tenere in conto considerazioni di politica interna di corto termine”. Sul testo del Green financing siamo ancora in alto mare, con decine di opzioni tutte possibili elencate una dietro l’altra e nessun serio impegno di stanziamento. Oltretutto, ricorda Martin Khor di Third World Network in una conferenza stampa, i fondi per il clima non dovrebbero andare a detrimento dell’Aiuto pubblico allo sviluppo, come invece pare stia accadendo. “Quando noi parliamo di fondi nuovi ed aggiuntivi – aggiunge – stiamo parlando di somme che devono andare a sommarsi a quelle destinate all’accesso ai farmaci, alla fornitura di latte per i neonati o alla costruzione di una scuola”.

Ma la parola “finanza” non si ferma all’adattamento e alla mitigazione. C’è tutto un capitolo molto in voga soprattutto nelle ultime settimane che si intitola “loss and damage”, e che tenta di chiarire chi paga di fronte alle centinaia di miliardi di dollari di perdite in seguito ai tifoni e ai tornado che in giro per il mondo stanno spazzando via economie e persone. L’accordo non c’è e nonostante il coup the theatre di due notti fa, quando G77 e la Cina hanno deciso di mollare il negoziato in piena notte perchè “non ce ne andremo a mani vuote”, tutto è ancora di là dall’essere deciso.

L’altra parola è “equità”. Posta pesantemente dall’India a Durban due anni fa, è un concetto che rimane almeno per ora nell’ambito della filosofia. Nessun riferimento ad impegni sostanziali di taglio delle emissioni ma diversificati a seconda delle possibilità, nessun accenno reale a cosa significhi “redistribuzione”, soprattutto di quei fondi necessari alla lotta al cambiamento climatico. E, soprattutto, un atteggiamento defilato dei Paesi industrializzati di fronte alla “Common But Differentiated Responsibility”, in poche parole “chi più ha inquinato più paga”. Quanto sia poco presa in considerazione lo dimostra il Giappone, sottolineando come rispetto al suo impegno di tagliare le emissioni del 25 per cento entro il 2020 rispetto al 1990, abbia deciso di ridimensionare il suo “commitment” ad un meno 3.8 per cento rispetto al 2005.

Altra grande parola chiave è “Accordo globale”: raggiungere un terreno comune entro il 2015, quando verrà lanciato un global deal che diventerà operativo nel 2020. Il testo del tavolo negoziale è ben lungi dall’essere nè ambizioso nè tanto meno efficace, tutto ciò che c’è di sostanziale rimane in ultima pagina in attesa di ulteriori convergenze. E’ un documento che è passibile di cambiamenti minuto per minuto, ma che dimostra la difficoltà che questi negoziati si portano dietro anche in un regime di lotta al cambiamento climatico sostanzialmente indebolito, visto che passerà sempre più da un approccio vincolante a uno volontario. Il problema sono gli impegni non presi, il problema, vero, è il tempo che passa. Il panel intergovernativo di scienziati ha più volte detto che per rimanere sotto i 2°C di aumento medio della temperatura bisognerà raggiungere il picco di emissioni al massimo nel 2015 e poi scendere, in modo deciso, negli anni seguenti, si capisce che un accordo che parta nel 2020 è molto vicino dall’essere una presa in giro. Anche se terrà tutti a bordo.

E il tempo passa anche per questa Conferenza. Oggi, ultimo giorno, dovrebbe essere quello delle decisioni finali. Non lo sarà, probabilmente si slitterà a domani. Nonostante la protesta dei movimenti sociali, nonostante le ultime informazioni diffuse dall’Ipcc in un video appena trasmesso durante una conferenza stampa oggi pomeriggio, le delegazioni continuano a lavorare sganciate dalla realtà.

Fino alla prossima tragedia climatica. O alla prossima protesta che, ci auguriamo, possa nascere questa volta dal mondo scientifico che potrebbe, per una volta, abbandonare i lavori di questo grande circo mediatico.

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