Fonte: La Jornada
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12 dicembre 2013

Il modello cinese
di Gustavo Esteva

The Economist, il settimanale che meglio esprime l’intellettualità organica dell’economia di mercato, lo scorso anno aveva definito il capitalismo di Stato cinese come il nuovo modello emergente nel mondo. In realtà, lo Stato protegge e accompagna il dominio del capitale fin dalla nascita “ma mai prima d’ora aveva operato su tale scala e con strumenti tanto sofisticati”. Peccato che la sfrenata esaltazione della pura logica del profitto comincia a mostrare il suo volto rovinoso e i cinesi non sanno più come uscire dai guai. Il capitalismo di stato, come quello liberale, funziona solo con un regime dispotico. Ha ancora senso considerare la conquista degli apparati dello Stato la sola via possibile per cambiare? 

È possibile che la maniera cinese di produrre e di governare stia contagiando il pianeta assai di più di quanto non lo stiano facendo i prodotti cinesi. Con il cambiamento di una sola parola, un mese fa il Partito Comunista Cinese ha precisato il significato delle riforme iniziate negli anni Ottanta. Fino a ottobre il ruolo del mercato era ufficialmente “basilare”; a partire da ora sarà “decisivo”.

Il 21 gennaio del 2012, The Economist, uno dei più intelligenti e meglio documentati intellettuali organici del capitalismo, aveva interpretato bene questa evoluzione cinese in un dossier speciale: “La nascita del capitalismo di Stato: il nuovo modello mondiale emergente”. Il settimanale ha riconosciuto che l’intervento statale ha accompagnato il capitalismo fin dal suo nascere, ma ha osservato che “mai prima d’ora aveva operato su tale scala e con strumenti tanto sofisticati”. Brasile, Cina e Russia rappresenterebbero questo modello.

La rivista non ha tenuto conto della tradizione intellettuale che aveva definito “capitalismo di Stato” l’esperienza dei paesi del socialismo reale e, in questo dossier, non si è azzardata a riconoscere ciò che a poco a poco è venuta ammettendo dopo: il “nuovo stile” si è esteso al mondo intero, dopo il fallimento del neoliberismo. La logica del profitto regola ora tutti gli investimenti, fino a quelli relativi alle infrastrutture; ha la priorità sulla gente e sull’ambiente e perfino sulla crescita economica.

Fino a una ventina di anni or sono pensavamo ciecamente che la Cina avrebbe potuto trasformarsi senza mettere in pericolo la propria condizione e il pianeta. Si circolava in bicicletta. Oggi sappiamo che questa era un’illusione. Cento milioni di automobili assediano già 700 milioni di biciclette, ora confinate su una sola corsia invece delle sei di cui disponevano prima. Si torna a usare l’espressione attribuita a Napoleone: “Il pericolo giallo”.

I cinesi sanno che sono nei guai, ma non sanno come uscire dal sentiero verso l’abisso in cui si sono cacciati. Apparentemente pensano che il meglio che potrebbe loro accadere è di sbattere contro un muro. Alcuni anni or sono il loro sottosegretario all’ecologia dichiarò a Der Spiegel che la miracolosa crescita economica cinese si sarebbe arrestata “perché l’ambiente non avrebbe potuto sopportarla”. Disse anche: “Credere che la prosperità economica vada automaticamente per mano con la stabilità politica è un grosso errore … Se il divario fra poveri e ricchi cresce, il paese e la società si destabilizzeranno”.

Il futuro li ha raggiunti. L’instabilità è già arrivata. Ottantamila consistenti mobilitazioni l’anno lo confermano. Invece della “società armoniosa” che perseguiva il piano quinquennale è arrivata una società conflittuale … che si estende in tutte le direzioni. E’ tanto ridicolo e irreale definire “socialismo di mercato” quel che sta accadendo quanto lo è parlare, nel resto del mondo, di capitalismo liberale o di democrazia rappresentativa. Siamo già in un’altra era. Per continuare il saccheggio e tenere sotto controllo la protesta sociale è indispensabile smantellare la facciata democratica. Il capitalismo di Stato può funzionare solo in un regime dispotico

Pochi governi si subordinano al capitale privato e alla logica del profitto come quello di Peña Nieto (l’attuale presidente del Messico, ndt) ma questo atteggiamento non è molto diverso da quello adottato dai governi cosiddetti progressisti dell’America Latina. Lula ha dichiarato con orgoglio: “Un operaio metallurgico … sta realizzando la maggior capitalizzazione della storia del capitalismo” (Proceso, 1770, 3/10/10). Alcuni vogliono sganciarsi. Per esempio, secondo García Linera, vicepresidente della Bolivia, lì “lo Stato non si comporta come un capitalista collettivo come è tipico del capitalismo di Stato, bensì agisce come un redistributore delle ricchezze collettive (La Jornada, 7/2/12). Impiegare una parte del plusvalore generato dagli enti pubblici per una politica assistenziale o redistributiva non cambia il carattere del regime e in realtà questa è una funzione tipica degli amministratori statali del capitalismo. Gustavo López, che capeggia in Uruguay l’anticapitalista Unidad Popular, che il prossimo anno tenterà di sloggiare il Frente Amplio (dal governo, ndt), pochi giorni or sono ha denunciato che questo promuove lo spossessamento e il saccheggio e che Mujica (attuale presidente dell’Uruguay, ndt) ha tramutato il suo antico sogno di trasformare il mondo nella pura amministrazione del capitalismo. I sostenitori della vendita di Pemex (azienda petrolifera pubblica, ndt) argomentano che il Messico starebbe solamente prendendo la decisione che è già stata presa in Brasile, Ecuador, Argentina o perfino a Cuba: associarsi al capitale transnazionale.

E’ possibile, nell’attuale situazione del mondo, continuare ad attribuire agli apparati statali un carattere puramente strumentale? Si può continuare a coltivare l’illusione che nuovi operatori potranno dare un deciso colpo di timone e incamminarsi verso un’altra direzione? Ha ancora senso tentare di conquistare quegli apparati? Oppure è necessario spostare la lotta in un altro spazio, con la convinzione che sarà possibile sostituire il regime dominante solo riorganizzando la società dal basso, creando la nuova società nel ventre di quella vecchia?

 

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