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Mercoledì 15 Maggio 2013

Né Dio né legge. La Cina e il caos armonioso 

di Renata Pisu

...insistendo sul fatto che i cinesi non subiscono volentieri alcuna coercizione, 
neppure semplicemente dogmatica, 
mi limiterò a caratterizzare lo spirito dei costumi cinesi con la formula: né Dio né legge.

Marcel Granet

Né Dio né legge si cimenta nell'ardito compito di comporre il quadro della spiritualità cinese. La cultura millenaria, il maoismo, la religiosità e la lingua sono elementi che spesso tralasciamo nel racconto della contemporaneità. Eppure ne sono radici e linfa vitale. L'ultimo lavoro della Pisu è uno strumento indispensabile per leggere la Cina in profondità. China Files ve ne regala uno stralcio (per gentile concessione di Laterza editori).

In questo libro Renata Pisu racconta storie di ieri e di oggi ed è un racconto di chi ha vissuto in Cina e l’ha compresa nel profondo del suo cuore. Va dalla predicazione dei missionari gesuiti alla più grande ribellione della storia cinese a metà Ottocento. Dai difficili tentativi di modernizzazione del Celeste Impero, quando fu necessario inventare una parola per dire ‘religione’, alla violenza della guerra dei Boxer; dal dichiarato ateismo dell’epoca di Mao e delle Guardie Rosse all’attuale rinascita di una religione popolare, che fonde buddhismo, daoismo e confucianesimo.
Se ora si assiste alla convergenza di elementi cinesi e occidentali, sarebbe sbagliato giungere alla conclusione che stanno diventando come noi. È più probabile che noi si sia obbligati a diventare più simili a loro in un prossimo futuro.

Negli anni ho intrecciato un saldo rapporto con la Cina, un rapporto di consuetudine, di conoscenza, di lunghi soggiorni di studio e di lavoro, di viaggi, di amore e di ripulsa. La pratica della Cina è stata il segno costante del mio tentativo di spiegarmela e spiegarla agli altri. Se non avessi studiato la lingua, non avessi trascorso anni a esercitarmi nella scrittura degli ideogrammi e della fonetica, di certo non avrei affrontato alla leggera tanti argomenti. E poi non avrei potuto leggere i giornali cinesi, non avrei potuto parlare con tanti amici all’epoca dell’università, con la gente per la strada, con i quadri del partito comunista, con i monaci daoisti, con le donne al mercato, con gli operai delle fabbriche dismesse. Non avrei potuto litigare in cinese. Già, ho anche litigato in cinese.

Oggi, giunta alla pausa di riflessione, mi rendo conto della necessità di unire la teoria alla pratica. Di affrontare finalmente qualche argomento che penso di aver trascurato perché sospinta dall’urgenza delle occasioni della storia giorno per giorno. Nelle mie cronache cinesi, chiamiamole così, ho sempre privilegiato il tempo verbale del presente, sono, vado, il tale mi dice... e qualche volta il passato prossimo, sono andata, ho visto, mi ha detto il tale... Ora vorrei introdurre l’imperfetto del nomade, che racconta con nostalgia, a volte, qualcosa che avvenne tanto tempo fa, che non ha visto con i suoi occhi ma che l’esercizio dello sguardo attivo e vigile gli permette di visualizzare e di prolungare nel presente quasi come se il flusso fosse continuo. Rifuggo invece dal passato remoto che porta alla conclusione. Non intendo mai concludere, sempre sfiorare il possibile. Forse questa mia attenzione ai tempi dei verbi deriva dalla conoscenza della lingua cinese. I verbi non ci sono, ovvero ogni sostantivo può anche essere verbo. Così non ci sono i tempi e i modi. Eppure parlare una lingua senza verbi è possibile, ci si intende benissimo.

C’è un verbo che secondo noi occidentali è indispensabile: è il verbo essere. Non intendo inoltrarmi in elucubrazioni metafisiche, filosofiche e teologiche, ma in cinese non c’è. Così non c’è nemmeno il non essere. Allora, come si dice in cinese «Essere o non essere, questo è il problema»? E «Cogito ergo sum»? E «Io sono colui che è»?

Quanti equivoci possono nascere quando in una lingua non ci sono le parole per dirlo...

«Essere o non essere, questo è il problema» diventa in cinese, a seconda delle preferenze: Dopo la morte, vivere ancora o non vivere? Vivere o morire? Morire o non morire? Esistere o non esistere? Sussistere o annientarsi? Sopravvivere o sparire? Essere in vita o non più vivere? Essere vivo o morto?

Ecco, questo è il problema perché quell’«essere o non essere», così apparentemente semplice, rimanda a tanti interrogativi di senso. Non è semplicemente un caso di genio della lingua, non è un gioco intraducibile di parole: ma come tradurlo in cinese? Forse è davvero intraducibile anche se non è un gioco?

C’è però un gioco di parole cinese che forse sta alla pari con il dubbio di Amleto.

Eccone la storia. Nel 1972 il giornalista americano Edgar Snow domandò a Mao Zedong come avrebbe amato definirsi. Mao rispose: come un monaco solo sotto un ombrello, che da Snow fu tradotto come «un monaco solitario che cammina sotto un ombrello bucato», ma in realtà si tratta di un antico indovinello: e cioè, alla domanda «cosa vede un pidocchio che sta sul cranio rasato di un monaco?», si deve rispondere (e qui trascrivo la fonetica dei quattro caratteri cinesi usati da Mao) wu fa wu tian, cioè niente capelli (i monaci si radono il cranio), niente cielo (nascosto dall’ombrello). Wu vuol dire niente, senza; fa, se è pronunciato con il quarto tono discendente, significa capelli, con il secondo tono significa invece legge. Allora, se Snow avesse conosciuto l’indovinello avrebbe dovuto tradurre che Mao si sentiva «senza legge e senza Dio», visto che Cielo in cinese sta in generale per Dio.

È lunga e abbastanza contorta la spiegazione della traduzione di questo gioco di parole, soprattutto per chi non sa che i fonemi in cinese possono essere pronunciati con cinque toni diversi e lo stesso monosillabo cambia di significato a seconda del tono (non così il carattere scritto che è diverso e immediatamente riconoscibile); ma una volta risolto l’indovinello, ecco che la definizione che Mao dà di se stesso appare lapidaria: «senza legge e senza Dio» non una sua invenzione linguistica, visto che i proverbi o gli indovinelli o i calembour sono la saggezza di un popolo, come si dice anche in Cina (e Mao vi ha fatto sempre ampiamente ricorso), ma certamente appropriata dato il personaggio. Così potrebbe sembrare che essere «senza legge e senza Dio» in Cina sia una condizione umana abbastanza comune, visto che è passata nei modi di dire popolari.

Mi domando se il grande sinologo francese Marcel Granet, quando caratterizzò lo spirito dei costumi cinesi con la formula «né Dio né legge», avesse coniato la sua lapidaria definizione sulla scorta dei suoi studi originali o sulla saggezza popolare. Preferisco pensare che sia stata la sua disamina del pensiero cinese, specie di quello arcaico, a portarlo a questa conclusione che mette in luce come una civiltà dalla lunga e ininterrotta tradizione abbia potuto strutturarsi senza quelli che sono considerati i pilastri della nostra civiltà occidentale, da Mosè in poi.

Renata Pisu, Né Dio né legge. La Cina e il caos armonioso. Prologo

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Renata Pisu ha frequentato per quattro anni l’Università di Pechino fino allo scoppio della rivoluzione culturale, affermandosi poi come esperta di Cina. Giornalista da sempre attenta ai problemi dell’Asia orientale, è stata corrispondente de “La Stampa” da Tokyo dal 1984 al 1989 e dal 1990 è inviato di “la Repubblica”. Ha tradotto dal cinese opere di narrativa e ha scritto saggi sulla società cinese per varie riviste italiane e straniere.

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