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09-07-2013

Lo Xinjiang e la pace duratura
di Wang Dahao

Contadini. Poveri. Basso livello di istruzione. È questo il profilo del “terrorista” uiguro ritratto da Wang Dahao, giornalista di etnia han che da anni cerca di offrire un’informazione obiettiva sulla regione. Dopo la rivolta del 2009, quest’anno, nei mesi di aprile e di giugno, si sono verificati nuovi disordini a Kashgar e a Turfan dove – stando alle stime ufficiali - sono morte circa cinquanta persone. In seguito ai primi incidenti, Wang Dahao riflette sul fallimento delle politiche etniche cinesi.

Il 24 aprile 2013 è caduto il terzo anniversario della nomina di Zhang Chunxian, che aveva preso il posto di Wang Lequan come segretario generale del Partito nella Regione autonoma dello Xinjiang

[...].

Dal giorno del suo insediamento, ho iniziato a osservare Zhang, avevo bisogno di tempo per conoscerlo. Tre anni sono passati in un batter d’occhio ed è giunto il momento di scrivere qualcosa. È impossibile dire tutto ciò che penso, posso solo sbilanciarmi quanto basta per lasciarlo intendere.

Appena arrivato, Zhang Chunxian era pieno di entusiasmo e di energie. Durante il congresso e la conferenza consultiva politica del popolo cinese del 2011, un giornalista lo interpellò in merito al lavoro da svolgere nello Xinjiang. Lui rispose che in primo luogo lo Xinjiang era grande, così grande da provocargli eccitazione; poi disse che era anche bellissimo, un posto oggettivamente meraviglioso, con degli scenari diversi da quelli della Cina continentale. Quindi aggiunse che era un luogo interessante, per via della diversità etno-culturale, della ricchezza e della varietà, dell’intelligenza e del carattere operoso della gente, del calore e dell’ospitlità. Proseguì dicendo che era un luogo dalle potenzialità illimitate, ricco di risorse e confinante con otto paesi, una regione veramente in grado di divenire il fulcro strategico dello sviluppo della nazione cinese e il cuore di una società prospera. Alla fine concluse: «infine è impegnativo, impegnativo a tal punto da togliere il respiro; di base, devo lavorare più di dieci ore al giorno».

[...]

In occasione dei congressi del 2012, Zhang Chunxian rispose alle domande della stampa dicendo: «in generale ritengo che il tempo non basta mai, c’è molto lavoro da fare». Durante i lavori del gruppo di discussione in cui fu inserito raccontò in modo toccante come la gestione delle regioni di confine non sia facile; per questo, esprimeva un totale rispetto verso coloro che avevano precedentemente svolto quell’incarico.

Dal giorno in cui entrò in carica, Zhang Chunxian ha costruito strade, cisterne e case per i ceti svantaggiati; da ogni parte della Cina sono giunti finanziamenti per la costruzione di ospedali, scuole e fabbriche, e l’edificazione economica della regione si può dire che si stia rinnovando di giorno in giorno. Ma allo stesso tempo, i casi di terrorismo violento si sono susseguiti senza sosta.

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Nello Xinjiang, molte persone nutrivano speranze nell’amministrazione presieduta da Zhang Chunxian, il quale, di media, riceve più di duemila lettere al giorno dalla gente comune. I fatti hanno dimostrato che molte di queste aspettative erano irrealistiche

[...].

I disordini del luglio 2009 sono stati come un grande terremoto: dopo la prima scossa si sono susseguite in rapida successione altre scosse di assestamento. In quel periodo, dopo sedici anni, Wang Lequan lasciò la guida del governo e il gravoso compito di stabilizzare la regione ricadde sulle spalle di Zhang Chunxian.

Alla gente che viveva nello Xinjiang, di qualsiasi nazionalità essa fosse, sarebbe servito non solo un leader che capiva di economia, ma anche abile nella gestione della questione etnica [...].

Nel nostro paese ci sono molti governatori regionali e ministri che padroneggiano le dottrine economiche, ma è molto difficile trovare un politico che abbia familiarità con la questione etnica, poiché il “terreno” politico cinese non favorisce la sopravvivenza di questo tipo di persone.

In passato, Zhang Chunxian è stato ministro dei Trasporti e segretario generale del Partito nello Hunan, ma le questioni di cui si occupava allora erano molto differenti dalla gestione dello Xinjiang. Con le nomine a membro dell’Ufficio politico e a segretario generale nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, il governo centrale ha affidato a Zhang Chunxian il gravoso compito di attuare uno sviluppo a grandi passi e di creare uno stato durevole di pace e stabilità, un’aspettativa necessaria, condivisa anche dalla popolazione appartenente a tutte le nazionalità dello Xinjiang. Contemporaneamente, avrebbe dovuto impegnarsi per conseguire lo sviluppo economico e non abbassare mai la guardia di fronte all’incessante sfida contro le “tre forze” [terrorismo, separatismo ed estremismo religioso, ndr]. Il peso di queste due enormi responsabilità ha reso Zhang Chunxian il governatore con maggiore pressione in tutta la Cina.

Gli esperti ritengono quasi all’unanimità che sia pratica diffusa quella di voler risolvere la questione dello Xinjiang con misure provvisorie, senza risalire alla radice del male. In parte condivido questo pensiero. Il motivo per cui non sono del tutto d’accordo è che in molti casi, anche se c’è un problema, non si assiste a nessun intervento; in secondo luogo, molte malattie vengono ignorate solo perché non danno dolore né prurito. Di problemi ignorati o valutati non correttamente ce ne sono davvero molti.

In Cina, la questione etnica è rimasta a lungo priva di una linea di pensiero e di una strategia di guida matura; di conseguenza, si sono moltiplicate e accumulate una grande quantità di contraddizioni sociali che, sotto l’influenza di diversi fattori interni ed esterni, hanno iniziato a estendersi come un contagio [...]. La soluzione del problema non dipende dall’operato del singolo Zhang Chunxian all’interno dello Xinjiang; per molti problemi è indispensabile un intervento dal governo centrale, che lavori a una soluzione alla radice.

Per valutare la questione dello Xinjiang non ci si deve abbandonare a giudizi ottimistici sulla base dell’aumento del reddito pro capite e del Pil.

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Per realizzare un periodo di pace e stabilità durevole occorre mutare radicalmente l’attuale equilibrio di interessi, [...] ovvero intervenire sulla distribuzione degli interessi. Bisogna rimodellare e intraprendere una nuova pianificazione nella distribuzione del potere e della composizione etnica, religiosa, culturale e demografica. Occorre dare forma a strette relazioni di interesse, votate alla coesistenza, all’interdipendenza, all’integrazione e allo sviluppo comune tra tutte le nazionalità, tra i diversi gruppi di interesse e tra le differenti aree dello Xinjiang, nonché tra lo Xinjiang e le altre regioni della Cina. Solo in questo modo e solo con la formulazione di una pianificazione strategica a lungo termine dello sviluppo delle relazioni etniche potrà scaturire un periodo di lunga pace e stabilità.

Tradizionalmente, in Cina, per risolvere le questioni etniche ci si affida a metodi conservatori. Si intraprendono misure che non mutano equilibri di interessi radicati, come quando si da’ l’ossigeno a un malato per tenerlo in vita. Se anche il male dovesse diventare incurabile non sarebbe affare di chi è in carica: l’importante è riuscire nell’arduo compito di preservare la propria posizione fino alla fine del mandato, mentre il resto passerà sulle spalle del successore. Nessuno vuole prendersi troppi rischi, né tanto meno intaccare gli interessi in gioco: c’è semplicemente una sequenza di mandati e tutti fanno leva sugli apparenti successi e sulla simulazione di pace, mentre i problemi, naturalmente, aumentano e le contraddizioni e gli scontri inevitabilmente si fanno sempre più acuti.

Con il forte sostegno giunto da ogni parte della Cina, la realizzazione di un modello di sviluppo economico a grandi passi è stata relativamente semplice; l’edificazione di un sistema di interessi al passo con i tempi, collaudato e stabile, in grado di tutelare una sostanziale armonia nelle relazioni etniche, è invece un percorso arduo e lungo.

La questione dello Xinjiang non può essere risolta con il denaro, bisogna usare la testa. Credere che i soldi possano accomodare tutto denota un pensiero da bifolco arricchito. La questione dello Xinjiang non deve essere risolta con questa mentalità, bensì con quella di uno stratega. Immettere soldi senza la testa di uno stratega equivale a versare acqua in un cesto di bambù.

Yang Zengxin, al potere nello Xinjiang dal 1912 in un contesto interno e internazionale estremamente delicato, guidò la regione per diciassette anni. Dall’esterno non arrivava alcuna ricchezza e all’interno non esisteva un esercito, però portò a termine una vera impresa, riuscendo a mantenere l’ordine in tutta la regione dall’inizio alla fine. Una volta disse fiero di sé che per governare lo Xinjiang non serviva nessun esercito, ma era sufficiente la sua testa e una penna.

Per instaurare pace e stabilità durevoli non è sufficiente tenere insieme le nazionalità e affidarsi agli investimenti a supporto dello Xinjiang; i politici devono anche necessariamente fare leva su una grande capacità strategica, su una devozione nobile e su una risolutezza fuori dalla norma. Solo l’intelligenza saprà come procedere, solo la devozione produrrà l’ardente desiderio di realizzare un ideale, solo la risolutezza saprà dare il coraggio di osare dove necessario.

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L’attuale modello sta producendo un grande numero di contraddizioni. Se non verranno apportati dei cambiamenti, l’economia dello Xinjiang produrrà il conclamato balzo in avanti, ma non determinerà uno stato di pace e stabilità duraturo. Se anche tutti gli abitanti dello Xinjiang potranno gustare ogni giorno l’agnello intero arrosto, la stabilità nella regione non sarà maggiore rispetto a ora.

Per risolvere la questione dello Xinjiang serve un intervento chirurgico complesso, ma non un intervento di chirurgia estetica.

Molta gente mi chiede una previsione sul futuro dello Xinjiang. Io rispondo sempre: se nello Xinjiang non muteranno gli equilibri nella distribuzione degli interessi, al momento della fine del proprio mandato nessun leader politico potrà sentirsi meglio di Wang Lequan.


*Wang Dahao è un giornalista cinese han nato nello Xinjiang. Nel suo blog affronta temi legati all’identità etnica, alla questione dello Xinjiang, al patriottismo e al separatismo. Quello di Wang Dahao è un esempio abbastanza rappresentativo di una piccola parte di Cina che nell’ultimo decennio si è sforzata di osservare più a fondo la delicata questione delle relazioni etniche nella Repubblica popolare cinese, partendo da una conoscenza diretta della realtà analizzata.

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