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16 giugno 2013

Che cosa hanno in comune la Bosnia, la Bulgaria e il Brasile?
di Jérôme Roos
Traduzione di Maria Chiara Starace

Che cosa hanno in comune un parco a Istanbul, una neonata  a Sarajevo, un capo della sicurezza a Sofia, un’emittente televisiva ad Atene e i biglietti di autobus a San Paolo? Per quanto all’inizio la sequenza possa sembrare casuale, un tema comune attraversa e connette tutti quei fatti. Ognuno rivela, nel suo modo precipuo, la crisi sempre più profonda della democrazia rappresentativa al centro del moderno stato-nazione. E  ognuno, come conseguenza, ha dato origine a proteste popolari che a loro volta hanno suscitato dimostrazioni in tutto il paese, occupazioni e conflitti tra la gente e lo stato.

In Turchia i dimostranti sono scesi in strada e si sono scontrati con la polizia antisommossa per circa due settimane, come reazione ai tentativi del governo di abbattere gli alberi e di costruire  una replica di una vecchia caserma di epoca Ottomana e di ubicarla nell’amato Parco Gezi di Istanbul,

[per trasformarla in un centro commerciale, n.d.t.]. Però, come ho indicato nella lunga analisi sulla proteste, il violento  giro di vite della polizia su Occupy Gezi è stata soltanto la scintilla che ha incendiato la prateria, lasciando che una vasta gamma di lamentele rivelassero infine la crisi della rappresentanza nel cuore del governo autoritario neoliberale di Erdogan.

Proteste per simili reclami  locali apparentemente “banali” stanno scatenando dimostrazioni di massa altrove. In Brasile, proteste di piccola portata  contro un’impennata nelle tariffe dei trasporti a San Paolo, hanno rivelato l’estrema brutalità delle forze di polizia, che hanno assalito violentemente i dimostranti – perfino spruzzando di spray al peperoncino  un cineoperatore, colpendo con una pallottola di gomma l’occhio di un fotografo, e arrestando coloro che portavano dell’aceto per difendersi dal gas lacrimogeno. Dopo quattro notti di repressione violenta in questa settimana,  le proteste  sembra che ora stiano prendendo slancio.

Stufi della crescente inflazione, delle strutture che si frantumano, della disuguaglianza disperatamente elevata e del tasso di criminalità, molti brasiliani sono semplicemente indignati che il governo sia disposto a investire miliardi in progetti faraonici che non soltanto ignorano la brutta situazione  della gente, ma la danneggiano attivamente. La militarizzazione e l’abbattimento delle favelas povere e dei villaggi indigeni prima della Coppa del mondo del 2014 e delle Olimpiadi del 2016 sono un esempio tipico. Come al solito, il Partito dei Lavoratori che governa, sembra più interessato ad accontentare il capitale che ad aiutare i lavoratori.

Nel frattempo, a Sarajevo, l’impossibilità per una famiglia di ottenere una carta di identità valida per viaggiare per la loro neonata malata che ha bisogno di urgenti cure mediche che non può ricevere in Bonsnia-Herzegovina, ha rivelato difetti  fondamentali che sono al centro dello stato post-jugoslavo democratico di nome. Il 5 giugno, mentre  il governo era occupato a negoziare con i banchieri stranieri per attirare nuovi investimenti, migliaia di persone hanno occupato la piazza del  parlamento, chiudendovi dentro  a  chiave temporaneamente i politici della nazione e costringendo il primo ministro a scappare attraverso una finestra.

Mentre le fazioni etniche in concorrenza lottano per il potere politico, il popolo bosniaco continua a soffrire. Giocando le carte della razza e della religione, i politici bosniaci sperano  di tenere la gente divisa e contemporaneamente trattenere per se stessi il bottino finanziario degli investimenti stranieri e i prestiti della Banca mondiale e dell’Unione Europea destinati allo sviluppo.  Ma come segnale che la maggior parte delle divisioni etniche sono costruite politicamente invece che socialmente, i dimostranti di Occupy Sarajevo hanno adesso un messaggio semplice per i loro politici: “siete tutti disgustosi, indipendentemente dall’etnia alla quale appartenete.”

Venerdì la Bulgaria si è unita in un’ondata fiorente di lotte che sono iniziate in Tunisia e in Egitto nel 2011 e che con l’ insurrezione turca ha fatto di recente resuscitare. Dopo la nomina a opera dei media (e della “mafia”) del magnate Delyan Peevski come capo dell’Agenzia statale per la sicurezza nazionale diecine di migliaia di persone sono scese nelle strade di Sofia e di altre città del paese  per protestare contro questa nomina, che è stata approvata dal parlamento senza alcun dibattito e con uno spazio di soli 15 minuti tra la sua designazione e la sua elezione (già garantita).

Scandendo la parola “mafia” e chiedendo a Peevski di dimettersi, i Bulgari avvertono i loro politici che si è raggiunto il limite. Fin da quando la transizione dal comunismo di stato al capitalismo democratico ha autorizzato una piccola minoranza di oligarchi  ad arricchirsi traendo energia dai  beni pubblici dello stato, la Bulgaria è stata di fatto governata da un governo di ladri della mafia.  Come in qualsiasi stato capitalista, le elite politiche e finanziarie sono diventate una cosa sola, indebolendo la promessa di democrazia che erano state fatte ai  Bulgari alla cosiddetta Fine della Storia.**

Nel frattempo la Grecia sembra che si sia finalmente svegliata dal suo torpore che è stato indotto dall’austerità. Dopo la decisione del servo neoliberale della Troika, Antonis Samaras, di chiudere l’emittente pubblica statale ERT (Radio Televisione Ellenica)  da un giorno all’altro e di licenziare i suoi 2.700 lavoratori senza nessun tipo di preavviso, i lavoratori della ERT hanno semplicemente occupato le stazioni radio televisive e hanno continuato a diffondere i programmi in streaming dal vivo, in modo che la ERT è stata la prima emittente  pubblica in Europa gestita dai lavoratori. Da allora ai dipendenti della ERT si sono uniti diecine di migliaia di dimostranti e di lavoratori che giovedì hanno fatto uno sciopero generale nazionale per protestare contro la chiusura della ERT.

A prima vista, può sembrare che queste proteste siano tutte semplici riposte a lamentele locali e dovrebbero essere lette come tali. Però, mentre ogni contesto ha le sue proprie specificità che devono essere tenute in considerazione, sarebbe ingenuo eliminare i temi comuni che li uniscono. Come ha appena fatto notare il mio amico, collega, e compagno di collaborazione nella  rivista on line  ROAR in un nuovo editoriale, l’insurrezione turca può essere cominciata per un paio di alberi da tagliare, ma non dovrebbe farci chiudere gli occhi davanti alla foresta: la ovvia dimensione strutturale che è in gioco in questa nuova ondata di lotte.

Se guardiamo più da vicino ognuna delle dimostrazioni, troviamo che, dopo tutto, non sono così locali. Ognuna  di esse, infatti, in un modo o nell’altro tratta dell’ invasione degli interessi finanziari e del potere finanziario nei confronti dei tradizionali processi democratici, e la profonda crisi di rappresentazione questa ha provocato. Inoltre, le proteste mostrano una nascente consapevolezza che l’attuazione del principio: ‘dividi e governa’ da parte della classe di governo dovunque  -  mettere le persone religiose contro i laici, i Bosniaci contro i Serbi, i neri contro i bianchi indigeni, i poveri contro i poco meno poveri, e i nativi contro gli immigrati – sono soltanto parte di una strategia per che vuole impedire  che ci rendiamo conto del nostro potere.

In breve, ciò di cui siamo testimoni è quello che Leonidas Oikonomakis e io abbiamo chiamato la risonanza della resistenza: le lotte sociali in un luogo del mondo che trascendono i loro confini locali e che ispirano i dimostranti in qualche altro luogo a prendere le faccende nelle loro mani e a sfidare i loro governi per concorrere a realizzare  libertà genuina, giustizia sociale e vera democrazia. L’eco di queste lotte che attraversa confini nazionali, etnici e religiosi ci dice che tre decenni di pace neoliberale fino dalla Fine della Storia non  sono stati affatto di “pace”; erano semplicemente la vittoria temporanea di un’altra parte in una guerra globale di classe rimasta nascosta.

Ora questo è finito. E’ sorta una nuova Sinistra, ispirata da un  nuovo  spirito di autonomia che si è da lungo tempo ripulito dalle eredità ideologiche stantie e delle illusioni  collettive che hanno animato i conflitti politici della Guerra Fredda e oltre. Uno degli slogan scanditi dai dimostranti a San Paolo ha rivelato tutto questo: “La pace è finita, la Turchia è qui!” E ci sono qui anche la Bulgaria, la Bosnia e la Grecia – e anche la Tunisia, l’Egitto, la Spagna, il Cile, il Messico, il Québec e ogni altro posto del mondo dove la gente si è sollevata nella lotta globale per la vera democrazia.

La infausta conclusione per chi è al potere è semplice: siamo dovunque. E questo fatto dell’occupazione globale?  Sta appena cominciando.

 


* http://italintermedia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=57722

** http://it.wikipedia.org/wiki/Fine_della_storia

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/what-do-bosnia-bulgaria-and-brazil-have-in-common-by-j-r-me-roos

Originale: Roarmag.org

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