Originale: ALAI AMLAT
http://znetitaly.altervista.org
2 agosto 2013

La crisi alimentare e l’agroecologia: Sally Burch a colloquio con Miguel Altieri e Marc Dufumier
tradotto in inglese da Jordan Bishop
traduzione in italiano di Giuseppe Volpe

Non solo nel mondo rurale ma anche tra la popolazione urbana cresce l’interesse per l’agricoltura ecologica, per il suo potenziale di assicurare forniture alimentari che sono sane e comportano un impatto ambientale minore. Ciò nonostante questa scelta è stata sinora considerata marginale per un sistema di approvvigionamento alimentare, mentre la visione che tuttora prevale è quella che l’agricoltura su larga scala è l’unico modo per garantire il cibo al mondo. Ma quanto di ciò è vero?

La prima cosa da segnalare è che la fame cronica sofferta dalla gente in questo mondo non è dovuta a mancanza di cibo. Su ciò le cifre sono molto chiare. Ogni persona ingerisce quotidianamente circa 2200 calorie, per le quali è necessario produrre annualmente circa 200 chili di cereali per abitante, o il loro equivalente sotto forma di patate, manioca o prodotti simili. La produzione annuale ammonta a circa 330 chili per abitante; esiste cioè una sovrapproduzione di cibo, sufficiente ad alimentare circa nove miliardi di persone, la popolazione stimate per l’anno 2050.

Questi dati ci vengono da due ricercatori, in interviste che abbiamo realizzato per saperne di più delle cause della crisi alimentare e delle alternative offerte dall’agroecologia. Sono Miguel Altieri, professore dell’università della California a Berkeley e presidente della Sociedad Cientifica Latinoamericana de Agroecologia – SOCLA – e Marc Dufumier, professore dell’Institut National Agroeconomique di Parigi, AgroParisTech.

Dufumier segnala che, anche se la crisi alimentare si è fatta più critica negli ultimi quattro anni, “già nel 2006 ci sono stati ottocento milioni di persone che sono finiti nella fame. Ora sono un po’ di più, ma il problema è strutturale; questa non è una crisi a breve termine,” afferma, “questo è un problema di povertà in termini monetari. La gente non ha potere d’acquisto.” Nello stesso senso Altieri sottolinea: “Un terzo della popolazione umana guadagna meno di due dollari al giorno e perciò non può acquistare cibo. In Europa e negli Stati Uniti ogni anno sono gettati approssimativamente 115 chili di cibo per persona, quanto basta per dar da mangiare all’Africa intera.” Altri fattori che contribuiscono alla crisi alimentare, segnalati dalle fonti che abbiamo intervistato, includono l’aumento della produzione agricola per alimentare le automobili anziché le persone e un maggiore consumo di carne (che oggi si sta estendendo a paesi densamente popolati come la Cina e l’India), quando per produrre una sola caloria animale sono necessarie da tre a dieci calorie da fonti vegetali. Ci sono anche problemi strutturali relativi al sistema di distribuzione o collegati al controllo che le multinazionali esercitano sul sistema di approvvigionamento alimentare. 

Per Altieri la crisi alimentare, assieme alla crisi sociale, a quella energetica e a quella ecologica,” è una crisi del capitalismo, di un modello industriale di agricoltura basato su premesse che non sono più valide”. Lo spiega in questi termini: “Quando fu lanciata la rivoluzione verde, negli anni ’50 e ’60, fu creato un modello maltusiano di agricoltura, che considerava il problema della fame come un problema di popolazione crescente e di produzione alimentare stagnante, e che riteneva che tale problema dovesse essere risolto portando al sud le tecnologie del nord, come ad esempio varietà migliorate, fertilizzanti, pesticidi, ecc.. Si presupponeva che il clima sarebbe rimasto stabile, che il petrolio sarebbe stato abbondante e a buon prezzo, che ci sarebbe sempre stata abbondanza d’acqua e che i limiti naturali dell’agricoltura, come le infestazioni, potessero essere controllati agevolmente. Così oggi ci ritroviamo con un tipo di agricoltura che occupa qualcosa come 1.400 milioni di ettari con monocolture altamente dipendenti da prodotti esterni il cui costo di produzione varia con i prezzi del petrolio e in cui abbiamo più di 500 tipi di infestazioni che sono resistenti a più di un migliaio di pesticidi.” Una delle conseguenze è che oggi nel mondo c’è “circa un miliardo di persone affamate, mentre abbiamo peraltro un miliardo di persone obese, che sono vittime dirette del modello industriale di agricoltura.”

E’ vero che questo modello fortemente meccanizzato abbassa in misura significativa i costi diretti di produzione per acro e dunque consente la vendita di cibo a prezzo più basso, pur con accresciuti profitti. Ciò nonostante, come segnala Dufumier, questa è una trappola, poiché non tiene conto dei costi indiretti: sociali, ambientali, di sanità pubblica, ecc.. Egli cita l’esempio del latte in polvere a basso prezzo che “è estremamente costoso, a causa della contaminazione del suolo, dell’eccesso di nitrati sulle superfici idriche, di ormoni nel latte. Queste sono quelle che gli economisti chiamano esternalità negative”, che si traducono in ridotte aspettative di vita e problemi di salute per le persone. Altieri stima che nel caso degli Stati Uniti, se tali costi fossero internalizzati, ammonterebbero a circa 300 dollari per ettaro di terreno in produzione (o 120 dollari per acro).

L’agroecologia come alternativa

Di fronte a questo modello sorge la domanda: in quale misura l’agroecologia può offrire soluzioni attuabili, anche se si tratta di soluzioni parziali o marginali? E tali soluzioni possono avere il potenziale di risolvere il problema della fame? Miguel Altieri chiarisce la sua posizione: “Non amo coinvolgermi in discussioni sulla possibilità che l’agroecologia sia in grado di dar da mangiare al mondo perché, come ho detto, non si tratta di un problema di produzione. Con l’agroecologia possiamo produrre cibo sufficiente per alimentare il mondo, ma se le disuguaglianze, le forze strutturali che spiegano la fame, non sono risolte, allora la fame continuerà, non importa se produrremo o no mediante l’agroecologia.”

L’agroecologia, ricorda, “è una scienza che si basa sul sapere tradizionale campesino ma che impiega anche certi progressi della scienza agricola moderna (eccettuate, ovviamente, le biotecnologie transgeniche e i pesticidi), ma utilizza elementi dell’ecologia contemporanea, della biologia del suolo, del controllo biologico delle infestazioni, tutte cose che sono incorporate nell’agroecologia, e dunque implica uno scambio di conoscenze. Ci sono nel mondo circa 1,5 miliardi di contadini con circa 380 milioni di aziende agricole che occupano il 20% dei terreni, ma che producono il 50% del cibo consumato oggi nel mondo. (L’agricoltura industriale produce il 30% del cibo sull’ottanta per centro dei terreni agricoli). Di tali campesino il 50% pratica l’agroecologia. Cioè produce il 25% della produzione alimentare mondiale sul 10% della terra agricola. Immaginiamo cosa succederebbe se queste persone disponessero del 50% dei terreni grazie a un processo di riforma agraria: produrrebbero cibo in grande abbondanza e, in effetti, con dei surplus.”

Al tempo stesso l’agroecologia ha altri vantaggi che mancano alla rivoluzione verde. “Ad esempio”, segnala Altieri, “è socialmente stimolante, poiché al fine di praticare l’agroecologia si deve essere partecipativi e creare reti d’interscambio, altrimenti non funzionerebbe. Ed è culturalmente accettabile, in quanto non cerca di cambiare il sapere campesino e tenta di creare un dialogo tra saperi. L’agroecologia è anche economicamente vitale, perché impiega risorse locali, senza dipendere da risorse importate. La rivoluzione verde cerca di cambiare questo sistema e di imporre alla cultura campesino una base di conoscenze occidentale. A motivo di ciò”, conclude, “ha considerevoli ripercussioni sul terreno”.

Un fattore importante da tenere in considerazione è che la produzione agroindustriale su larga scala è minore quando si considera la produzione totale. Cioè le monocolture sono più produttive in termini di lavoro umano, ma l’agricoltura campesino produce di più per acro. “Se si fa un grafico della produzione totale in rapporto con l’area coltivata,” dice Altieri, “la curva della produzione scende in rapporto all’area di sfruttamento. Non siamo confrontando l’area di produzione del mais con il mais, stiamo confrontando la produzione totale dell’area coltivata. E cosa produce il coltivatore contadino? Produce mais, legumi, frutta, alleva maiali, polli … E quando analizziamo il sistema ci rendiamo conto che è tra le venti e trenta volte più produttivo. Questo ci dà una base importante per riflettere in termini di riforma agraria.”

Un altro grande vantaggio è la resilienza al cambiamento climatico. Non solo perché non genera riscaldamento globale – diversamente dall’agricoltura industriale, con il suo elevato consumo di combustibili fossili – ma ci sono prove che è più resistente a grandi fenomeni, quali una siccità. La monocoltura, che tende a dominare l’agricoltura mondiale, “è molto suscettibile, a causa della sua omogeneità genetica ed ecologica,” come è stato evidente nella siccità dell’anno scorso nel Mid-West degli Stati Uniti, la più grave da cinquant’anni, quando il trenta per cento della produzione totale di mais e soia transgenici è andato perso, secondo Altieri.

Politica pubblica

Quali, allora, sarebbero le politiche pubbliche chiave per un paese che voglia seriamente promuovere e sviluppare la produzione agroecologica? I nostri intervistati sono d’accordo nel riconoscere che la produzione agroecologica, poiché è artigianale e impiega maggior lavoro umano, ha costi di produzione più elevati e andrebbe remunerata meglio; perciò sarebbe necessario introdurre politiche di promozione e sussidi che proteggano l’agroecologia e i piccoli produttori. In questo modo è possibile rendere disponibile cibo sano alla maggioranza delle persone e far sì che tale cibo non sia solo un prodotto per il consumo di lusso delle classi abbienti (come accade con i prodotti organici che sono esportati al Nord).

Miguel Altieri sottolinea l’esperienza del Brasile in questo campo. Un programma del ministero dello sviluppo rurale acquista il trenta per cento della produzione campesino, riconoscendone il ruolo strategico. Questo cibo sano è destinato al consumo sociale, nelle scuole, negli ospedali o nelle carceri. “L’agricoltura di famiglia in Brasile coinvolge 4,7 milioni di contadini che producono il 70% del cibo del territorio; ciò è fondamentale per la sovranità alimentare”. Hanno capito che al fine di proteggerli, non possono esporre i piccoli produttori alla concorrenza, o dei grandi produttori o della produzione statunitense o europea “che è una concorrenza assolutamente sleale”. Il ricercatore considera una decisione sensata che questo paese abbia creato due ministeri del settore: quello dell’agricoltura, per i grandi produttori (che ovviamente continuerà ad esistere) e quella dello sviluppo rurale, per i piccoli produttori, con progetti di ricerca, ampliamento e politiche agricole specifiche per l’agricoltura campesino. In realtà questo ministero – afferma – ha più risorse del ministero dell’agricoltura. “Quello che non funziona è quando c’è un ministero dell’agricoltura con un piccolo ufficio o segreteria per l’agricoltura di famiglia”, cosa che accade nella maggior parte dei paesi

Sostenere le pratiche agroecologiche con ricerche e ampliamento dell’agricoltura è un elemento chiave per Altieri. “Molti chiedono: la produzione agroecologica può alimentare il mondo? Potrebbe essere così produttiva? Ma guarda, da sessant’anni tutti gli istituti nazionali di ricerca in agricoltura, i centri di ricerca internazionali, le università, finanziano ricerca nel campo dell’agricoltura convenzionale. E se indirizzassimo il 90% di tale bilancio al sostegno dell’agroecologia? La storia sarebbe diversa.” Egli segnala il caso di Cuba, come il paese più avanzato in quest’area, per la situazione affrontata durante il “periodo speciale”. Un vantaggio fu che avevano risorse umane per farlo, avevano gente addestrata all’agroecologia; e attraverso l’Associazione Nazionale dei Piccolo Agricoltori – ANA – centoventimila contadini, in dieci anni, acquisirono la pratica dell’agroecologia, con alti livelli di produzione e di efficienza energetica.

Forse l’ostacolo maggiore è la mancanza di volontà politica, sommata agli interessi delle multinazionali “che spingono sempre nella direzione sbagliata”. Altieri ritiene che il cambiamento climatico sarà quello che alla fine imporrà limiti all’agricoltura industriale. Nel caso di paesi come l’Ecuador e la Bolivia, le cui costituzioni prevedono la sovranità alimentare, questo ricercatore ritiene che abbiano “un’occasione storica: se non ora, quando?” Ha proposto che questi paesi creino un progetto territoriale pilota, poiché “la gestione territoriale implica l’ecologia della campagna e di altre dimensione che vanno ben oltre il progetto di una singola piccola fattoria. Se ci sono campesino che praticano l’agroecologia, ma sono dispersi, è impossibile conseguire la conversione del territorio. In questo modo possiamo imparare, perché non abbiamo tutte le risposte”.

Agricoltura su scala contenuta?

L’agroecologia può essere applicata su qualsiasi scala, ci chiediamo, o è qualcosa che fondamentalmente riguarda la piccola agricoltura e, se è così, si tratta di un fattore limitante? Marc Dufumier ritiene che sostanzialmente sia applicabile all’agricoltura famigliare, anche se riconosce che è più accessibile a unità famigliari medie, piuttosto che ai piccoli proprietari, per la loro esigua capacità di risparmiare e investire in trazione animale, carri, di produrre concime e fertilizzanti organici. Le unità famigliari medie sarebbero inoltre migliori per generare occupazione e limitare l’esodo rurale. I grandi produttori agricoli, d’altro canto, “hanno la capacità di investire, ma non hanno interesse [al progetto] perché vogliono massimizzare i profitti sul capitale finanziario investito e ammortizzare l’investimento su aree vaste: di qui il loro interesse alla monocoltura, che è del tutto contraria all’agroecologia.”

Per Miguel Altieri, d’altro canto, l’agroecologia è una scienza che offre principi per la progettazione e la gestione di sistemi agricoli su qualsiasi scala, ma con differenti risposte tecnologiche, a seconda dei singoli casi. “Ho mostrato esempi di fattorie tra i 500 e i 3.000 ettari che possono essere gestite su basi agroecologiche. Parlo di una riprogettazione di un sistema agroecologico che biodiversità funzionali, rotazioni, policolture, che può assumere altre forme su vasta scala, poiché si devono impiegare macchine; non si possono coltivare 3.000 ettari con zappe e trazione animale. Quindi ci sono molti casi in cui lo si può fare su vasta scala. Tuttavia ciò che sta accadendo in America Latina è che, considerata l’importanza strategica dell’agricoltura su scala ridotta, l’agroecologia si è dedicata a risolvere i problemi delle aziende familiari, dei campesino; ma ciò non significa che non si possa applicare su vasta scala.”

Sally Burch, giornalista, fa parte della squadra di ALAI.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:  http://www.zcommunications.org/dialogue-with-miguel-altieri-and-marc-dufumier-the-food-crisis-and-agroecology-by-sally-burch

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