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24 luglio 2013

Detroit crac: la follia delle città ridotte ad aziende
di Federico Zamboni

Negli USA, a quanto pare, il principio del “Too Big To Fail” vale per le banche e affini, ma non per le città. O forse, chissà, Detroit non è abbastanza grande per sfuggire alla logica esclusivamente contabile che conduce alla bancarotta: con i suoi 800 mila abitanti, e i suoi 18-20 miliardi di debiti, è un po’ l’equivalente di Lehman Brothers. Una società di notevoli dimensioni, e con una lunga storia alle spalle, che tuttavia non è indispensabile ai fini della sopravvivenza complessiva del meccanismo cui appartiene. E che, perciò, può essere abbandonata al suo destino.

D’altronde, e sempre restando negli Stati Uniti, i precedenti non mancano. La “novità” di Detroit è tale solo perché rientra tuttora fra le venti metropoli più popolose, nonostante la cittadinanza si sia più che dimezzata rispetto ai quasi due milioni degli Anni Cinquanta che la collocavano, addirittura, al quarto posto. Ma la regola, che è quella su cui concentrarsi, è appunto che le città siano soggetti assimilabili alle imprese private. Più che enti locali, la cui dissoluzione per via meramente contabile è assurda di per sé in quanto viola il fondamentale vincolo tra popolazione e territorio, entità collettive, rispetto alle quali i cittadini sono una sorta di soci, o di lavoratori dipendenti, che vengono risucchiati loro malgrado nei gorghi del fallimento.

Il tracollo della città-azienda li priva di qualsiasi certezza, vista l’assenza di una tutela pubblica di rango superiore, e infliggendo loro un impoverimento sicuro li espone a uno sradicamento probabile. Come sottolinea un articolo uscito oggi sul Sole 24 Ore (qui), «Fra i debiti non garantiti [di Detroit], ovvero quelli più a rischio, ci sono 9 miliardi di dollari di assistenza sanitaria e pensioni; gli ex dipendenti della città rischiano di ottenere il 10% di ciò cui avrebbero diritto».

Significa ritrovarsi sul lastrico, in pratica. E a un’età, per i pensionati, nella quale certamente non si può ricominciare daccapo, augurandosi di avere maggior fortuna. Una situazione che del resto non è troppo dissimile da quella di chi, benché non altrettanto anziano, si sia trovato a perdere la propria fonte di reddito e magari anche la massima parte del valore della sua piccola proprietà immobiliare, dalla casa al negozio o all’ufficio, a causa del crollo generale delle quotazioni e dello svuotamento di ampie zone, ormai ridotte a quartieri-fantasma.

L’idea, tipicamente statunitense ma ormai prossima ad affermarsi anche in Europa, è tanto semplice quanto brutale. Le cose vanno come vanno, e i singoli devono sbrogliarsela da soli. Una logica da Grande Depressione, o da fine della Corsa all’oro, o da ordinario Far West con le sue innumerevoli ghost town sorte sullo slancio di una qualunque spinta espansiva e poi schiantate dal mutare delle circostanze e delle opportunità. Una logica che esplode nei momenti di crisi, locale o nazionale, ma che in effetti non scompare mai del tutto, rimanendo invece nascosta-incombente-strisciante nelle altre fasi del ciclo economico liberista.

La lezione di Detroit aggiunge ben poco a ciò che già non si sapesse delle dinamiche degli USA e laggiù, dai santuari di Washington fino alle chiesette dei piccoli e piccolissimi centri abitati di cui i più non hanno mai sentito parlare ma che sono soggiogati dallo stesso cinismo, non innescherà alcun ripensamento sui vizi di un sistema che oscilla di continuo tra arricchimenti repentini e declini inarrestabili. Il loro dogma è che sia giusto così: molto si crea, molto si distrugge, e in teoria c’è posto per tutti, se si possiedono le “qualità” necessarie.

Per noi, come italiani e come europei, c’è ancora qualche possibilità di non ammalarci della stessa follia. Chiedendoci, ad esempio, se saremmo disposti ad accettare vicende come quella di Detroit, col fallimento, e la desertificazione, di qualche nostra città medio-grande.

O degli interi Stati, a maggior ragione.

Federico Zamboni

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