Fonte: la Jornada
http://comune-info.net
5 settembre 2013

Uscire dal vicolo cieco
di Gustavo Esteva
Traduzione di Matteo Chinosi.

Non c’è più alcun margine, in Messico e nel mondo, per invocare il dialogo democratico, le regole e le tutele fondamentali che prevede uno stato di diritto. La pressione sociale non basta più. Dobbiamo cambiare la direzione del nostro sguardo, andare oltre il vicolo in cui ci schiaccia il dispotismo democratico di un potere dello Stato che non può essere sfidato né conquistato né condizionato. Bisogna renderlo non necessario, rifiutare la sua guerra permanente contro di noi e riorganizzare la società guardando a quel che si sperimenta in basso. Non è un’illusione: ve lo immaginate cosa potrebbero fare mezzo milione di insegnanti trasformati in lanterne accese per illuminare gli spazi in cui lavorano?

Il pericoloso conflitto in cui ci troviamo (ora in Messico, ndt) rende evidente la natura del regime dominante: dispotismo democratico. Però i principali contendenti nella mischia non vogliono riconoscere la nudità dell’imperatore. Insistono con la favola della repubblica democratica, e si ingarbugliano in termini e sottintesi sempre più lontani dalla realtà.

Lo stato di diritto viene invocato a destra e a manca (Tirios y troianos nell’originale, ndt). I funzionari, i media e i loro intellettuali organici esigono la salvaguardia dei diritti dei “terzi non coinvolti”, eufemismo per riferirsi agli automobilisti (disturbati dalle manifestazioni, ndt), e applicare le misure legali pertinenti, eufemismo per alludere all’uso della forza pubblica. Difendono appassionatamente la base legale delle riforme in gioco. Le organizzazioni che si sono mobilitate per opporvisi rivendicano i propri diritti a manifestare e ad essere ascoltate, si impuntano a pretendere un dialogo democratico, per quanto tardivo, e mettono in discussione sia la forma che il contenuto delle riforme.

Nelle attuali circostanze in cui si trovano il Messico e il mondo manca di senso della realtà continuare ad affermare che viviamo in uno stato di diritto, cioè sotto leggi conosciute e accettate dal corpo sociale che si applicano in modo equo e universale all’interno di una società democratica.

Come ci avvertì Foucault molto tempo fa, le norme vigenti sono concepite perché alcuni possano violarle impunemente e la maggioranza debba sottomettersi alla loro applicazione arbitraria. E l’arbitrarietà vigente è quella di un dispotismo che sguazza nel fango dominante, quella in cui non è più possibile distinguere tra il mondo del crimine e quello delle istituzioni.

Ogni giorno di più siamo nelle mani di criminali che rompono le regole del patto sociale perchè accecati dalla brama o dal furore, però il loro dispotismo è transitorio. La loro proliferazione deriva dal dispotismo permanente e criminale di chi esalta il predominio del proprio interesse e lo pretende legittimo. Mentre il criminale è tiranno per una ragione accidentale, questi lo sono per statuto… sebbene il loro dispotismo non possa avere legittimità nella società e debbano imporre il loro volere al corpo sociale per mezzo della violenza e dell’intimidazione permanenti. Esercitano ed esaltano in modo criminale il loro interesse privato, agendo al margine dei regolamenti e delle leggi, però facendo in modo da restarne sempre coperti. Rompono il patto sociale, da cui dipende l’esistenza stessa della società, e fanno valere la loro violenza, i loro capricci, le loro ingiustizie come leggi generali e Ragion di Stato.

Cerco di raffreddare le parole: Foucault le utilizzò per alludere a epoche passate e alla forma in cui stavano tornando. Mi spaventa pensare che descrivono con precisione quello che sta accadendo sotto gli occhi di tutti. L’angoscia di ammetterlo spiega perché in molti preferiscano chiudere gli occhi e cullarsi nell’illusione che non sia così, che possiamo continuare a bussare alla porta di questi poteri con i nostri cortei e le mobilitazioni, che possiamo commuovere i loro portafogli, i loro cuori o le loro intelligenze con la pressione sociale.

Non è il momento. Lassù non c’è margine di manovra. In questo vicolo cieco c’è spazio solo per la mischia, la lotta di interessi, la violenza pura, particolarmente pericolose e insensate quando coinvolgono poteri fragili e in decadenza come quelli attuali. È indispensabile cambiare la direzione dello sguardo, come hanno fatto i giovani greci un paio di anni fa, quando, al passaggio delle autorità nella sfilata tradizionale, si sono voltati a guardare la gente.

È ora di guardarci. Siamo noi gli interlocutori validi, gli unici a poter rappresentare un’opzione credibile. Gli apparati dello Stato, corrotti fino al midollo, sono ogni giorno più lontani dalla volontà popolare.

Sfidarli o intestardirsi a volerli conquistare o condizionare dal basso è inutile, controproducente e pericoloso. Si tratta di smantellarli rendendoli non necessari, rifiutando radicalmente la loro guerra permanente contro  di noi, e occupandoci di riorganizzare la società. Lungi dall’essere un’illusione, questo può essere puro pragmatismo. Immaginiamo, ad esempio, cosa potrebbero fare mezzo milione di insegnanti trasformati in lanterne accese per illuminare quotidianamente di verità gli spazi in cui lavorano.

Se ci interessano davvero lo stato di diritto e un ordine sociale sicuro e affidabile, scappiamo dal vicolo cieco e andiamo a vedere quello che si sperimenta in basso, nelle comunità e nei quartieri che riescono a ricucire il loro tessuto sociale sfilacciato per affermarvi una nuova condizione. Oggi hanno un orizzonte di riferimento chiaro: c’è uno spazio sulle montagne del Chiapas in cui davvero prevalgono uno stato di diritto e un ordine sociale stabile e solido, nonostante la persecuzione permanente. Lì il popolo comanda e il governo ubbidisce, perché lì governo e popolo sono la stessa cosa, come dice la parola democrazia.

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