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1 marzo 2013

Scene da una crisi in Portogallo, fra i suoi “Vaffa Day” e i migranti all’incontrario

Nella sua traduzione più educata, lo slogan “Que se lixe a troika!” significa “Al diavolo la troika!”, anche se riecheggia quel “vaffa” che in Italia fa tanto Grillo. È questo il nome del movimento civile che il 15 settembre scorso ha fatto marciare pacificamente centinaia di migliaia di cittadini nelle principali città del Portogallo. Protestavano contro la politica di austerità imposta appunto dalla troika Bce-Ue-Fmi e dal governo di centro-destra uscito dalle elezioni del 5 giugno 2011, dopo che i socialisti dimissionari avevano firmato un’intesa per un prestito da 78 miliardi di euro.

Quel governo socialista era caduto proprio sull’ennesimo patto/pacco di stabilità e crescita architettato sulla pelle di lavoratori e pensionati e concertato con la signora Merkel, prima ancora che con le parti sociali e il Parlamento; sintomo tutt’altro che incipiente di quella perduta sovranità, non solo monetaria, che oggi tutti lamentano.

Il socialdemocratico Pedro Passos Coelho ne approfittò per indignarsi e prendere le redini del “risanamento”. Ed è in questo vicolo cieco che socialisti e socialdemocratici (nominalismo emblematico di un arco costituzionale nato dalla Rivoluzione dei garofani, quando dirsi di destra era tabù) giocano drammaticamente, da almeno un paio d’anni, la loro partitella a scaricabarile, dove il barile da scaricare è il Paese stesso.

L’ultima ricetta del Fmi, un semplice rapporto di consulenza divulgato a gennaio con il titolo Rethinking the State, già guarda al futuro, al post-troika, e introduce nel vecchio continente le cure da cavallo che per anni hanno messo in ginocchio le nazioni emergenti, che poi, chissà perché, non emergevano mai.

È scritto in un linguaggio ora anodino, ora quasi accorato, il rapporto dei tecnici del Fondo. E sfodera lodevoli princìpi di eguaglianza sociale e solidarietà fra generazioni. Dice infatti che i privilegi dei vecchi vanno corretti per aiutare i giovani. In soldoni, però, significa che la presunta pacchia è finita per tutti e ordina un taglio di quattro miliardi di spesa pubblica.

Lo scenario che si apre è di licenziamenti, o cessioni più o meno concordate, che potrebbero riguardare fino a 140 mila funzionari pubblici. Numero da spalmare un po’ ovunque, dalla scuola alla polizia, passando per la sanità, dove già si registrano preoccupanti notizie di medicinali razionati negli ospedali e aumenti della mortalità, specie in inverno (questo popolo che ha vissuto finora al di sopra delle proprie possibilità soffre, in molte regioni, di pobreza térmica, una povertà energetica che i più anziani non reggono, malgrado un noto banchiere locale abbia recentemente additato, a mo’ d’esempio, la prodigiosa resistenza fisica dei senzatetto).

Ecco allora che lo stesso movimento dell’autunno scorso torna in piazza sabato 2 marzo, proprio nella settimana aperta dalla settima missione degli “uomini in nero”, come qualche titolista ha ribattezzato gli ispettori internazionali che ogni tre mesi vengono a valutare le reazioni del malato (ammesso che reagisca).

Finora la malattia portoghese ha avuto un decorso differente da quella greca: meno sussulti, meno rigetti e meno ricadute (anche di governo). L’ambita etichetta di “bravo alunno”, per il Portogallo, doveva servire a calmare i mercati (dove, un mese fa, è stato riammesso a reindebitarsi) e a non spaventare i turisti. Infatti è ancora il belpaese di sole, mare e marisco, nelle cui strade si respira quel clima festoso che gli steroidi del turismo low cost tendono a gonfiare. La realtà infatti è più complessa e i movimenti di base rivendicano il diritto a esaminare gli esaminandi. I dati di questi due anni scarsi di assistenza finanziaria parlano di una disoccupazione in continuo aumento (era sotto il 13%, oggi è già oltre il 16%), di prezzi al consumo che salgono con l’IVA al 23%, della benzina più cara d’Europa (dopo quella italiana, secondo Bloomberg) e di stipendi tra i più bassi (il diffusissimo salario minimo nazionale non supera i 500 euro lordi), ridotti in due anni del 20%.

Un trauma per un Paese che, persino negli anni delle vacche relativamente grasse, è sempre stato un’incubatrice di esperimenti neoliberisti che non hanno mai portato a una seria politica di difesa e valorizzazione del lavoro e non hanno retto alla concorrenza della manodopera economica globalizzata. Il Portogallo ha chiuso il XX secolo con un’esposizione universale, a Lisbona, fatta con la manovalanza a basso costo non solo tra i muratori nei cantieri, ma anche fra i giovani neolaureati di mezza Europa, che correvano a lavorare entusiasti in studi di brillantissimi architetti, in cambio di paghette a ore (le famose “ricevute verdi”, simbolo della via nazionale al precariato).

La stessa paghetta a ore (a volte procacciata tramite agenzie di assunzione interinale) con cui la scuola pubblica ha subappaltato la rivoluzione del tempo pieno nelle scuole elementari, fiore all’occhiello della politica scolastica dell’ex premier socialista Sócrates.

Allungando lo sguardo, questo è già il terzo intervento del Fmi in poco più di tre decenni di democrazia. I primi due (1977 e 1983) servirono a “normalizzare” una nazione che usciva da mezzo secolo di dittatura e da qualche breve turbolenza rivoluzionaria che preoccupava i vertici NATO (residenti storici delle Azzorre, ma stanno smontando baracca e burattini anche loro). All’epoca, il miraggio di un ingresso in un’Europa in crescita poteva funzionare. L’europeismo rappresentava lo sbocco naturale di tanti democratici, avversi a una dittatura il cui motto, “orgogliosamente soli”, esibiva il falso non allineamento di un membro NATO, che in Africa combatteva solitario per conservare le colonie.

Ma questa settima missione della troika arriva dopo i più recenti dati OCSE, che vedono il PIB delle 27 economie UE in calo dello 0,5%; la vicina Spagna, rivale storica nelle epoche di fulgore iberico, è diventata una compagna al duol che non scema la pena, mentre le conseguenze delle elezioni italiane sulle economie dell’Eurozona sono ancora un’incognita da brivido.

Forse il vero segreto per mantenere la situazione relativamente calma l’aveva colto il premier Passos Coelho quando, in una delle sue prime dichiarazioni, ammise che l’emigrazione sarebbe stata una soluzione ragionevole per molti connazionali. E infatti le rimesse dall’estero, dicono le statistiche ufficiali, sono aumentate come non aumentavano da almeno 15 anni.

Arrivano dalla Francia, ma stavolta anche dall’Angola. Molti infatti rinunciano alla comodità dello spazio Schengen e tornano nelle ex colonie. I casi di successo non mancano, anche se recentemente i giornali hanno raccontato le file chilometriche all’ambasciata mozambicana di Lisbona. Il Mozambico ha limitato la concessione dei visti, a quanto pare proprio a causa di quei portoghesi che entrano da turisti e si fermano da clandestini. E intanto in Svizzera si discute una norma che cancellerebbe gli accordi del 1999 con la UE, estendendo i limiti, già imposti agli immigrati dell’est, agli europei meridionali: portoghesi, spagnoli, italiani. Se la nuova fobia per gli “intracomunitari” si allarga, orgogliosamente o no, i portoghesi saranno di sicuro meno soli.

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