Fonte: La Jornada
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14 aprile 2013

Tempi di rivoluzione
di Gustavo Esteva

Le rivoluzioni non sono momenti epici come quelli dell’assalto alla Bastiglia ma processi sorprendenti e non lineari. Non le fanno i mitici leader che poi passano alla storia ma le persone comuni, cioè i ribelli, i sognatori, gli irregolari. Come gli indigeni zapatisti del Chiapas. Dobbiamo imparare a guardare e ad ascoltare la gente comune, che è sempre potenzialmente pronta a ribellarsi. Anzi, lo sta già facendo ma non per sostituire i governanti con altri governanti migliori, non attraverso lo Stato. Quello è un cambiamento che sappiamo essere illusorio e temporaneo. Il cambiamento vero è in basso, apre nuove strade e rompe i recinti culturali, costruisce relazioni diverse e nuove realtà sociali. Per questo infastidisce tanto

Il cambiamento rivoluzionario non arriva come un cataclisma ma come un interminabile susseguirsi di sorprese, che si muovono a zig-zag verso una società più decente, diceva Howard Zinn poco prima di morire.

È sempre stato così. I rivoluzionari che vincono trasformano molto spesso episodi del momento in cui hanno giocato ruoli rilevanti in simboli del processo, a volte con intenzioni malevole. La rivoluzione francese, tuttavia, non è stata la presa della Bastiglia e quella sovietica non è stata la presa del Palazzo d’Inverno. Gli eventi che vengono commemorati ogni 20 di novembre significano poco in relazione alla Rivoluzione messicana. Non è in quella data che essa fu definita. E non è neanche cominciata lì.

Le rivoluzioni del secolo XX hanno insegnato che i dirigenti di un’azione rivoluzionaria, o coloro che si insediano nel sistema di potere creato da una rivoluzione, possono avere effetti nefasti, spesso anche controrivoluzionari. Sono pochi i casi in cui essi possono contribuire a realizzare o ad approfondire la rivoluzione cui hanno preso parte. Le rivoluzioni, tutte le rivoluzioni, sono della gente, degli uomini e delle donne comuni.

Più o meno quindici anni fa, il 3 agosto del 1999, il subcomandante Marcos ha spiegato: «Siamo donne e uomini, bambini e anziani abbastanza comuni, cioè ribelli, irregolari, scomodi, sognatori». Una bomba teorica, come ha osservato John Holloway. Una bomba che non solo si lascia alle spalle il principio leninista ma esige che si guardi in un’altra maniera alla gente comune, a tutta la gente comune, che può essere sul punto di esplodere, di esprimere con passione la sua ribellione. Una bomba che ci chiede di imparare ad apprendere dalla gente. Per esempio, da quella che ha inventato e costruisce lo zapatismo.

Pare che un’insurrezione si sia messa in moto. Dobbiamo insistere: un’insurrezione della gente comune. Non si tratta di un colpo di mano, di un episodio bellico congiunturale. A volte, la gente comune è costretta a fare un colpo di mano e lo fa. Non è questo, però, che definisce un cambiamento rivoluzionario e non è questo che sta accadendo ora.

L’insurrezione in corso non progetta repentini spostamenti del potere o delle politiche, perché, tra le altre cose, la gente comune ha imparato a diffidare profondamente di ciò che accade arriba (lassù, in alto, ndt). La gente sa che i cambiamenti delle persone nelle strutture del potere hanno un carattere illusorio e temporaneo. Il ricambio dei dirigenti o delle politiche non altera il carattere oppressivo di un regime. Generalmente, serve solo a soddisfare le necessità del momento o le ricomposizioni delle forze… per assicurare la continuità del regime.

Al contrario dei repentini spostamenti del potere o delle politiche, l’insurrezione in corso comporta un cambiamento nella posizione che rivendica il senso delle proporzioni. È necessario, come ha detto James Scott, cessare di pensare come Stato, come se fossimo lassù in alto e come se dalle alture del potere ci proponessimo di aggiustare il mondo. Come dice Scott, tutta quell’ostinazione nel voler migliorare la condizione umana dall’alto ha fallito. È ora di abbandonarla.

L’insurrezione rivendica anche il senso comune. Che non si trova nella ghiandola pineale (una ghiandola endocrina posta nel cervello che somiglia una piccola pigna, ndt), come pensava Cartesio, e quel che vedevano i Greci è troppo astratto. Il senso comune è quello che si genera in una comunità. Ed è la prima cosa che si può apprendere dalla gente comune, che, in genere, non può sopravvivere senza comunità e tende a pensare a partire da dove si trova, con i piedi per terra, riconoscendo quel che si è: semplici mortali.

Da lì, dal basso, a livello del suolo, non solo si concepiscono i cambiamenti rivoluzionari ma li si realizza. Cambiamenti che sono, come insegnava Ivan Illich, azioni che trasgrediscono le frontiere culturali e aprono un nuovo cammino, azioni che stabiliscono in modo irrevocabile una nuova e significativa possibilità. Sono azioni che offrono la prova sorprendente di una nuova realtà sociale. Una realtà che avrebbe potuto essere immaginata o progettata. Qualcuno avrebbe potuto anticiparla. Soltanto quando si realizza, tuttavia, si dimostra che essa è possibile.

E questo è, di sicuro, quel che possiamo andare ad imparare in Chiapas, da quegli uomini e donne, bambini e anziani, gente comune, gente ribelle, irregolare, scomoda, capace di sognare. Gente che si è messa a sognare, che ha espresso coraggiosamente la sua ribellione, la sua irregolarità, e che continua a infastidire tutti. Los de arriba (quelli che stanno in alto, ndt), naturalmente. Ma anche quelli a lato, come quelli i cui sogni si sono fatti incubo nel fango delle urne, o quelli convinti di possedere la verità rivoluzionaria e dunque chiamati a dirigere il cambiamento.

Quella gente ribelle del Chiapas è davvero scomoda, scomodissima. Non se ne perde una. Possiamo ascoltarla con la mente e il cuore aperti? Possiamo, di più, fare quello che ci tocca, quel che tocca a ciascuno di noi, nel nostro piccolo, nella nostra geografia, nel nostro tempo e nelle nostre condizioni, senza orgogliosa presunzione?

 

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