Fonte: La Jornada
Titolo originale: Rumbos de la protesta
14 ottobre 2013

Le direzioni della protesta
di Gustavo Esteva
Traduzione a cura di camminar domandando.

I governi del mondo hanno perso il controllo e spesso reagiscono alla protesta in preda al terrore, con ogni mezzo possibile. Il capitalismo non riesce più a dominarci e il velo della democrazia è caduto da un pezzo. Anche la resistenza deve cambiare.

Se ti ribelli sei un criminale, devi essere messo in condizione di non nuocere. Con qualsiasi mezzo. Anche con la violenza più brutale. I governi del mondo sono in preda al panico. Sanno di aver perduto legittimità e potere politico. Sanno di aver perso il controllo e, per farsi obbedire, non hanno che la forza arbitraria delle loro polizie. Spesso, però, non basta neanche quella. E allora il panico cresce. Il capitalismo è allo stremo, non riesce più a dominarci. Cosa accadrà? Potrebbe anche andar peggio. Si prepara un sistema di dominio che conserva lo sfruttamento ma rende la spoliazione della gente più aperta e diretta. La facciata democratica va in pezzi: anche la resistenza deve cambiare

La criminalizzazione della protesta sociale si estende rapidamente nel mondo intero.

I modi e i metodi sono così simili fra loro che è difficile resistere alla tentazione di immaginare che siamo di fronte a una cospirazione, o quanto meno a una precisa concertazione tra i governi. Si impiegano le stesse tattiche e gli stessi strumenti. Dovunque appaiono degli infiltrati che provocano la violenza. In tutti i luoghi si constatano le operazioni di violenza brutale e insensata di forze di polizia in uniforme o in abiti civili, illustrate con dovizia nei media. Dovunque si eseguono detenzioni arbitrarie di dirigenti o di giornalisti o di semplici cittadini che passeggiano in strada…

Tuttavia, non c’è necessità di ricorrere a questa ipotesi per spiegare la convergenza dei governi in queste azioni repressive… se ne adottiamo, in cambio, un’altra che sembra avere basi più solide. È certo che i governi scambiano informazioni e imparano gli uni dagli altri. È certo che confabulano a gruppi per adottare politiche somiglianti. Ciò che però rende uniformi le loro azioni è soprattutto la reazione istintiva di tutti loro di fronte all’ondata di panico che li attanaglia.

Il panico ha due sorgenti molto specifiche. Innanzi tutto, i governi hanno consapevolezza crescente di aver perduto legittimità e potere politico. Le loro capacità di gestione politica e di competenza amministrativa sono chiaramente messe in dubbio. La gente ormai sa che non esprimono la volontà generale. Il lemma di Wall Street comincia a essere condiviso universalmente:  loro rappresentano solo l’uno per cento. I governi, pertanto, perdono la capacità di controllo. Per ottenere obbedienza restano loro soltanto la polizia, l’intimidazione, l’arbitrarietà… e il panico cresce quando non la ottengono neppure così.

Il panico ha anche un’altra fonte. Al di là delle loro ambiguità, dei loro compromessi e delle loro incompetenze, i governi, tutti i governi, si trovano di fronte all’impossibilità reale di rispondere alle necessità della gente, che sono ogni giorno di più quelle vitali. Non hanno mezzi per farlo. Sanno in modo confuso, con un vago disagio, che il regime in cui siamo non è più in grado di rispondere…

Teodor Shanin lo anticipò alcuni anni or sono. “Vediamo ormai la fine del capitalismo reale, in un senso molto concreto. Alcuni tuttavia credono ancora di trovare un’alternativa all’interno del capitalismo. Ben presto perderanno questa illusione”.

Il capitale ormai non può governare un paese. Lo Stato nazionale era lo spazio ideale per il capitalismo, per poter esercitare il proprio dominio per mezzo delle sue amministrazioni statali, alle quali si riconosceva una certa capacità di gestione e di relativa autonomia, per governare i conflitti, mantenere la stabilità sociale e proteggere il capitale dai suoi stessi eccessi.

Oggi la forza stessa del capitale, la sua trans-nazionalizzazione, lo hanno privato del suo spazio naturale di esistenza, dell’arena in cui poteva governare. Le società reali, che tuttora hanno la forma di Stati nazionali, non possono più essere governate per mezzo del capitalismo, neppure nella forma del capitalismo di Stato che si sta ogni giorno di più adottando.

Questa non è in sé una buona notizia, perché al posto dell’attuale regime dominante ne è stato preparato un altro molto peggiore. Non viene abbandonato lo sfruttamento ma è in crescita la spoliazione aperta e diretta, quella che aveva caratterizzato il pre-capitalismo, l’accumulazione originaria. E sta scomparendo la facciata democratica per impiantare l’esercizio autoritario nella paura del disordine e del caos che si diffonde fra la gente allorché la protesta sociale si generalizza.

Quello che abbiamo visto in Messico in questo periodo non è la restaurazione del vecchio PRI e neppure il modo di governare stile Atenco. Come tutti gli altri governi, quello di Peña ha imparato ad ignorare la gente, quale che sia la dimensione della protesta nelle strade o l’insistenza dei non sottomessi. Lo sanno bene i lavoratori dell’impresa di elettricità (della quale si sta tentando la privatizzazione, ndt) o i dipendenti di Mexicana (l’azienda aerea già di Stato, ndt). Lo stanno imparando gli insegnanti.

Se il punto di origine del panico e di queste reazioni feroci dei governi è l’iniziativa della gente, di coloro che ormai non ne possono più di loro e lottano più per la sopravvivenza che per i propri diritti, sembra giunto il momento di cambiare il significato delle loro lotte.

Non si tratta di abbandonare la difesa dei propri territori o dei propri diritti: la resistenza deve continuare, con tutti i mezzi, fino al successo. Però il modo di condurre la resistenza, nelle condizioni reali che oggi abbiamo di fronte, consiste nel portare la lotta sul nostro terreno, concentrarla sulla riorganizzazione della società dal basso e cercare un’articolazione efficace delle larghe coalizioni di scontenti che si sono venute creando.

 

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