http://pierluigifagan.wordpress.com/
8 ottobre 2013

Quanto è abbastanza.
Recensione del libro di R. ed E. Skidelsky.
di Pierluigi Fagan

Questo è il titolo del libro uscito quest’anno ad opera di Robert ed Edward Skidelky. Il primo, Robert, è un Lord britannico, professore emerito di economia, politicamente inquieto aderì ai laburisti, uscì per fondare il partito socialdemocratico, poi divenne conservatore ed infine membro del gruppo misto dei Cross Bencher. Il secondo, Edward è il figlio ed insegna filosofia. E’ autore di un rilevante studio su E. Cassirer. Skidelsky padre è meglio conosciuto come il più importate biografo ed esegeta di J. M. Keynes di cui curò una monumentale biografia in tre volumi e di cui esiste anche una utile riduzione (R. Skidelsky, Keynes, Bologna, Il Mulino, 1998).

Il principale merito del libro è portare un ulteriore contributo a quella posizione di pensiero che si muove in critica ed alternativa al pensiero economico dominante, in particolare per quanto attiene al dogma della crescita infinita. Dalla decrescita, all’economia della felicità, agli ecologisti, agli economisti dello stato stazionario, la pattuglia degli “obiettori della crescita”, include oggi anche un punto di vista keynesiano. E’ questo un segnale importante per il formarsi di una consistenza a favore di nuovi paradigmi ed è rilevante anche che questo contributo provenga dall’ambito anglosassone che è altresì l’Urheimat del dogma crescista, mercatista, liberale ed econocratico.

La tesi è doppiamente fondata. Da una parte sul concetto di “abbastanza”, cioè su una limitazione quantitativa che Skidelsky sr deriva da Keynes ed in particolare da un testo (da noi più volte citato) scritto nel 1931 “Possibilità economiche per i nostri nipoti” (in J.M.Keynes, Sono un liberale? Milano, Adelphi, 2010, p. 233). Dall’altra su considerazioni di filosofia morale, che si interrogano sulla consistenza del concetto di “vita buona” di chiaro sapore aristotelico, quindi su un concetto qualitativo.

Non molti sanno che il pensiero economico moderno, ai suoi esordi, era interno proprio alla filosofia morale tant’è che A. Smith reggeva proprio questa cattedra all’Università di Glasgow, cattedra  a cui succederà T. Reid, a cui non avrà accesso per sentore di ateismo D. Hume, cattedra che Smith ereditò da F. Hutscheson. Così come forti accenti di critica del moralismo si trovano in B. de Mandeville, vero iniziatore del concetto di “società di mercato”. Anche la successiva tesi utilitaristica à la Bentham ricade nel genere.  La moderna econocrazia fatta di mercato e parlamento rappresentativo delle élite che sovraintendono alle condizioni di possibilità per cui vi sia una società di mercato, nasce proprio in contrapposizione all’etica ed alla morale cristiano-cattolica che fece da perno al Medioevo e quindi il luogo morale, fu il primo territorio in cui le due diverse concezioni del mondo si scontrarono (il secondo fu quello parlamento-monarchia che agitava i baroni anglosassoni dai tempi della Magna Charta). Non a caso i primordi del liberalismo, si trovano in quel libertinismo francese ed inglese di Gassendi e Bayle che fu proprio una posizione morale. L’operazione di decostruzione morale che compie il Skidelky figlio è quindi meno bizzarra di quanto possa apparire anche se poi diventa un possibile limite del libro.

Il lato keynesiano dell’argomentazione si rifà, come detto, a quel testo del ’31 in cui Keynes profetizza che in base all’incedere automatico dell’interesse composto da una parte e in base all’incremento dell’innovazione tecnologica che sostituisce le prestazioni del lavoro umano dall’altra, nel giro di più o meno un secolo, avremo avuto “abbastanza” ricchezza e ci saremo trovati con la necessità di lavorare per non più di 15 ore settimanali. Addirittura Keynes sosteneva che tecnicamente avremo dovuto lavorare solo 5 ore/settimana ma poiché questo era psicologicamente destabilizzante, avremo “fatto finta” di ritener necessarie le 15 ore. Le previsioni di Keynes sulla crescita risultano abbastanza esatte (anche se per vie diverse da quelle argomentate da Keynes) ma la riduzione dei tempi di lavoro non si sono realizzate. Perché?

C’è chi sostiene che il lavoro sia socialità, creatività, sfida, divertimento, insomma una gioia a cui non è spontaneo rinunciare. Oppure si può dire che poiché i redditi medi e bassi non hanno ricevuto alcun dividendo della crescita, rimane il problema di sommare tante ore-lavoro quanto è necessario per conseguire un modesto reddito per vivere. Oppure ci si può appellare all’insaziabilità umana, il desiderio di primeggiare, di avere beni posizionali o vebleniani (da T.Veblen, La teoria della società agiata, Torino, Einaudi, 2007 ). Skidelsky sr. opta proprio per questa terza. Il capitalismo, dopo aver soddisfatto i bisogni primari, iniziò a soddisfare (chi dice “a creare”) quelli secondari e anche grazie ad un mancata redistribuzione della ricchezza, si annullarono le condizioni logiche del contenimento del tempo di lavoro. Questo dà al nostro modo di vivere, una prospettiva infinitista, cioè senza limite, da cui il paradigma della crescita senza fine.

Prende allora la palla Skidelsky jr che aggiunge che non solo questa crescita è senza fine (procedurale) ma anche senza un fine (di contenuto). Anche perché ad un certo punto il progresso quantitativo si è andato decorrelando da quello qualitativo, come dicevano i Sette Sapienti: “Nulla di troppo” ( “Ottima è la misura” etc. della stessa pasta del “Conosci te stesso”, una sapienza pre-filosofica ingiustamente sottovalutata).  

Giunge qui la decostruzione moralista che attaccando le origini da Mandeville a Smith, passando per il protestantesimo, Pope, F. Bacon, Faust, mostra come si operò quella inversione che portò “interesse”, “avarizia” ed “egoismo” a diventare motori del nuovo modo di stare al mondo. Gli errori di Marx e Marcuse privarono la critica di efficace possibilità di corrodere le fondamenta di questo nuovo impianto, così le cose andarono avanti indisturbate sino ai giorni nostri.

Segue la disamina dei concetti di valori d’uso e valori di scambio, il ruolo mefistofelico del denaro, le censure morali cristiane, la vita activa e quella contemplativa sebbene manchino stranamente accenni alla Arendt. Simili considerazioni si trovano nella cultura induista-buddista, in quella confuciano-taoista e quindi questa posizione morale forte, secondo Skidelsky diviene “universale”. L’economia moderna ha confuso necessità e bisogni, beni di prima necessità e beni di lusso, ha obliato il concetto di sufficienza, ha obliterato quello di valore d’suo, ha de-socializzato l’attività economica e fondatasi sull’individualismo utilitario, ha compiuto indisturbata l’efferato delitto del Bene.

Seguono due capitoli controversi. Il primo è contro gli “economisti della felicità”. Se l’obiezione sulla consistenza delle ricerche che stimano il valore di felicità percepito dalle persone ed espresso su  autodichiarazione è accettabile, la polemica è condotta forse verso un particolar modo di affrontare la questione da parte di alcuni autori anglosassoni.

Ma altri autori che i Skidelsky dovrebbero pur conoscere, come “La misura dell’anima” di R. Wilkinson e K. Pickett, Milano, Feltrinelli, 2009; operano su dati oggettivi, più o meno come poi nel capitolo VI° fanno gli stessi Skidelsky per cui la polemica mal si comprende. Si può comunque anche condividere che l’assunto “felicità” sia un parametro sfuggente, forse valido per misurare le presunte performance del capitalismo in sede critica, ma poco consistente per una parte “costruens”.

Del tutto irricevibile invece è il successivo, quello sulle argomentazioni anti-crescita di stampo ambiental-ecologista. Gli Skidelsky si accodano a quel mainstream liberal-marxista che ogniqualvolta si parla di aumento della popolazione, tirano fuori il pupazzo Malthus e si mettono a ridere. La popolazione terrestre è aumenta di quattro volte in un secolo, questo è un fatto, fatto che è successivo all’800 malthusiano, fatto che tralasciando volutamente ogni considerazione sulla scarsità delle risorse alimentari, impatta su quelle non alimentari, su quelle energetiche, su i rifiuti, sul disordine dei prezzi e dei mercati, sulla speculazione, sulla geo-politica, sul rischio guerre, su i limiti alla crescita oggettivi e gli oggettivi feedback disordinanti su un sistema che non prevede questa limitazione. La messa in ombra della credibilità dell’IPCC, occhieggia a certo negazionismo spudorato e mal si comprende come un tema così delicato venga trattato con tale superficialità da “studiosi”.  Un grave deficit di complessità per i due keynesiani-moralisti.

L’exit strategy di tanta critica è come direbbero i liberali, una forma di “paternalismo” di stampo platonico: uno Stato promotore del Bene. Un Bene, una vita buona che gli Skidelsky in preda a forti sentimenti universalistici, finalistici, necessitanti, individuano in: salute, sicurezza, rispetto, personalità (un misto di intenzione ed autonomia), armonia con la natura, amicizia e tempo libero. Su questi items la Gran Bretagna  (e non solo) dell’ultimo trentennio, segna certamente un ristagno e ciò non è Bene. Che fare?

Lo Stato dovrebbe improntarsi ad un nuovo concetto di virtù, ad un “paternalismo non coercitivo” (?), più equa distribuzione di proprietà privata, di benessere, di prestazioni di primo livello, più localismo meno globalizzazione, meno lavoro più tempo libero. Seguono tassazione fortemente progressiva e puntata in particolare sulle rendite ed i movimenti finanziari, work sharing a parità di reddito (o forse addirittura incremento per via della ridistribuzione), reddito minimo e reddito di base (o di “cittadinanza”) come dotazione di capitale e/o come reddito annuale garantito, finanziandolo al limite anche con la vendita dei permessi di inquinamento e una robusta Tobin tax. Detratto il finanziamento della nuova ricchezza sociale, più investimenti nell’educazione. Segue la lotta al consumismo con limitazioni severe alla pubblicità (imposta sul peccato) ed una qualche forma di ripristino di leggi suntuarie anche attraverso tassazioni selettive al consumo. Contrazione della globalizzazione, eliminazione della libera circolazione dei capitali, consapevole autoriduzione nei paesi sovrasviluppati ed aiuto attivo a quelli sottosviluppati (concetto della crescita sistemica, illustrato qui). Sul piano delle idee, una forte alleanza con certo cattolicesimo sociale ( quanto a paradigma dominante, il cattolicesimo va ricordato fu ciò che veniva prima del capitalismo, questo si affermò contro quello e da Leone XIII a Paolo VI a Francesco I, i toni anticapitalistici si affermano e crescono di intensità e volume), con le concezioni socialdemocratiche, con alcune concezioni neo-liberaliste (attenzione, non neo-liberiste!) che spaziano da Keynes a Beveridge, Roosevelt, Sen, Nussbaum e financo con il benecomunismo. Uno snobismo tipicamente british permette la citazione dell’italico Slow food ma non quella del “francese” Latouche.

Che dire? Personalmente sono da tempo convinto che la strada per la transizione da questo sistema cominci con una forte rivendicazione di meno lavoro-più reddito-più tempo libero. Sono però convinto che questo tempo non sarà libero del tutto. Sarà certo libero dall’alienazione, dalla ripetizione, dal vincolo esistenziale, dalla fatica, dalla noia e dalla deformazione professionale. Sarà certo disponibile, in parte, per l’impiego in affetti, creatività, socialità, amicizia, autoformazione. Ma esso dovrà essere per la sua gran parte investito nell’unica altra cosa che ci può permettere di dominare il meccanismo economico (ed ogni altro meccanismo sociale) dandoci autonomia e liberazione all’eteronomia.

Questa altra cosa è la politica, precisamente la partecipazione attiva a molte forme di consesso di dialogo, disputa e decisione democratica diretta e non delegata.  Fuori di questo rimangono appelli volontaristici, elenchi di buone intenzioni, economie utopiche, ignoranza dei prezzi reali di ogni nostra decisione, idealismi pindarici, manipolazione, rischio demagogico, errori che possono condurre a reazioni contrarie pericolose (il tiranno benefico).

E’ incredibile quanto tra liberali, marxisti, keynesiani, moralisti, cattolici dalle buone intenzioni , neo-pauperisti medievaleggianti, sia diffusa la cecità democratica diretta, quanto in fondo si disprezzi il diritto inalienabile e primario, di decidere ognuno di noi cosa pensare e fare del proprio modo di stare al mondo, senza delegarlo ad un mandatario che “ne sa più di noi”. In questo “ne sa più di noi” si annida il principio di gerarchia, per annullarlo non basta sbraitare e lamentarsi, occorre battersi per creare le condizioni che possano colmare il gap, sapere cosa fare e pretenderlo di essere noi in prima persona a decidere insieme a gli altri cosa e come farlo, a tutti i livelli. Per questo serve tempo non impiegato in un lavoro che per altro non c’è più.  Fuori della democrazia degli individui c’è solo una qualche forma oligarchica o monarchica che sia il capo carismatico, il tiranno, il mercato, la religione, l’élite, il re-filosofo che interpreta il Bene, l’avanguardia che detiene la coscienza e qualsiasi altra forma del principio di gerarchia.

Tolte queste forme di dominio ed imposizione rimane l’auto-dominio, l’unica condizione che permetterà di rispondere con sincerità e convinzione partecipata alla domanda: “quanto è, abbastanza?”, sapendo quale ne è il prezzo e scegliendo consapevolmente la quadratura tra cosa si può, cosa si deve e cosa si vuole fare.

top