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02/12/2013

Ucraina, il fallimento dell'Europa
di Stefano Grazioli

Il disastro di Vilnius è frutto dell'incapacità strategica dell'Ue: a Kiev ha chiesto l'impossibile

L’Europa si é fermata a Vilnius. Il vertice del Partenariato orientale, tenutosi la settimana scorsa nella capitale lituana, poteva rappresentare un’occasione storica per l’Unione Europea: se l’Ucraina avesse firmato l’Accordo di associazione (Aa), comprendente la creazione di un’area di libero scambio (Dcfta) con Bruxelles, la più popolosa ex repubblica sovietica dopo la Russia avrebbe fatto un grande passo in avanti verso la casa comune europea, abbandonando così l’orbita di Mosca. Ma il presidente ucraino Yanukovich non ha ceduto alle pressioni dei leader europei che chiedevano la liberazione di Yulia Tymoshenko in cambio dell’intesa. Preso tra due fuochi, con Vladimir Putin che minacciava a sua volta ritorsioni nel caso l’Ucraina avesse abbracciato l’Europa, il capo di Stato ucraino ha scelto l’alternativa per lui meno dolorosa, facendo naufragare le speranze di una svolta verso Occidente.

In realtà, Bruxelles si è tirata la zappa sui piedi, chiedendo a Yanukovich ciò che il presidente non voleva e non poteva dare. Una strategia miope, quella dell’Ue, che ancora una volta dimostra come gli strateghi europei riescono a sbagliare tutto quello che c’è da sbagliare, soprattutto quando si tratta delle relazioni con i paesi dell’ex Urss. La linea intransigente nei confronti dell’Ucraina, portata avanti soprattutto dalla Germania - mentre altri Paesi, a partire dalla Polonia, sarebbero stati disposti a scendere a patti firmando l’Accordo anche con la Tymoshenko dietro le sbarre - si è schiantata contro il muro della Bankova e quello del Cremlino.

Le mire di Putin in Europa. Fonte: Limes

Non è una novità: anche con la Bielorussia, altro dei sei stati che partecipano al programma del Partenariato orientale, Bruxelles non è mai riuscita a cavare un ragno dal buco e il risultato che è uscito negli ultimi cinque anni (il via alla Eastern Partnership è stato dato nel 2009) è che Alexander Lukashenko continua a farsi beffe dell’Unione e ha svenduto mezzo paese alla Russia. Un esempio che vale per tutti: Mosca è già entrata in possesso del sistema dei gasdotti bielorussi (gts), con il colosso Gazprom che già da un paio d’anni ha rilevato il controllo totale di Beltrangaz. Una sorte simile potrebbe presto capitare all’ucraina Naftogaz, dopo la svolta filorussa di Yanukovich e la necessità di non lasciar prosciugare le casse dello stato, già in sofferenza per la crisi interna e congiunturale. Anche da questo punto di vista, Bruxelles ha lasciato inascoltati gli appelli del presidente ucraino, che dal suo arrivo alla Bankova nel 2010 ha proposto di continuo un piano congiunto con Russia e Unione europea per modernizzare il gts, e alla fine ha lasciato strada libera all’ingordigia Cremlino.

Poco prima del vertice di Vilnius, è stata anche l’Armenia a voltare le spalle all’Europa, respingendo il miraggio di una futura integrazione nell’architettura occidentale e spostando il baricentro verso l’Unione Euroasiatica capitanata da Mosca. La piccola e povera repubblica caucasica non ci ha pensato due volte per accettare le offerte di Putin e non tranciare il cordone ombelicale con la Grande Madre Russia. L’Unione Europea ha fatto festa in Lituania per i passi in avanti di Moldavia e Georgia, ma non è tutto oro quel che luccica e non è escluso che una delle due, la Moldavia, possa dare la prossima delusione. 

A Vilnius gli accordi di associazione sono stati soltanto parafati, cioè sono tecnicamente pronti per la firma che dovrebbe arrivare, come ha detto il presidente della Commissione Europea Juan Manuel Barroso, nell’autunno del 2014. Il condizionale è più che mai d’obbligo, visto che già l’Ucraina aveva parafato l’Aa nel 2012 e poi è andato tutto a rotoli. Mentre per la Georgia non dovrebbero esserci sorprese, visto che il nuovo presidente Georgi Margvelashvili non devierà dal corso europeista del suo predecessore Mikhail Saakashvili, per la Moldova le pressioni russe potrebbero portare invece a un esito simile a quello dell’Ucraina. Chisinau, con il Cremlino che nei prossimi mesi metterà probabilmente mano più al bastone che alla carota, rischia insomma di fare la fine di Kiev. E per l’Europa, che l’anno prossimo dovrà rinnovare il parlamento e la commissione, sarà un altro problema.

Il sesto degli stati del Partenariato orientale è l’Azerbaigian. È con questa repubblica del Caucaso che l’Ue ha meno frizioni, per il semplice motivo che il gas del Mar Caspio fa chiudere un occhio a chiunque abbia sete di energia. L’autocratico presidente Ilham Aliyev, da poco confermatosi per la terza volta in elezioni che la delegazione del Parlamento europeo ha giudicato libere e trasparenti facendo andare su tutte le furie le organizzazioni umanitarie e per i diritti civili che due lustri lo criticano pesantemente, è trattato con i guanti di velluto, anche se le sue doti democratiche sono meno appariscenti di quelle di Lukashenko o Yanukovich. L’Azerbaigian non ha molto interesse a dire il vero a integrarsi nell’Unione Europea. Quello che interessa a Baku è fare affari un po’ con tutti e la “diplomazia del caviale” - ossia le prebende distribuite scientemente a livello europeo e portate alla luce lo scorso anno da un report dell’Esi (European Stability Initiative) - è la strategia che fa tornare i conti alla corte di Aliyev. Oltre ad essere l’ennesima prova del doppiopesismo dell’Unione che è sfociato nel disastro di Vilnius.

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