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8 maggio 2013

Lasciateci gridare
di Gianluca Carmosino

Di fronte ai familiari disperati di Dhaka, di fronte alla strage più grande della storia dell’industria del mondo, di fronte alle preoccupazioni per i danni di immagine di imprese e governi, di fronte ai media che minimizzano, tutte le parole sono inadeguate. Cresce il bisogno di gridare la nostra rabbia. Cresce il bisogno di continuare ad alimentare speranza per riconoscere, perfino in questa apocalisse, la debolezza del capitale. Che continua a dipendere dal lavoro di chi lo crea e dai cittadini consumatori. Tutti possiamo contribuire a mettere in discussione quel dominio. Tuttavia, oggi lasciateci soltanto gridare.

Due settimane dopo il crollo del Rana Plaza a Savar, vicino a Dhaka, Bangladesh, mentre sale il bilancio dei morti (705 quelli accertati al 7 maggio, ma sono ancora numerosi i dispersi e i feriti in gravi condizioni), sentiamo il bisogno di gridare.

La lettura dei siti internazionali che forniscono notizie su questo massacro orribile di umanità, è un girone dell’inferno. Le immagini di bambini e bambine in cerca della propria mamma o della sorella (la maggior parte delle vittime sono giovani donne), di uomini, di donne, di anziani con in mano la fotografia del proprio familiare disperso, tra detriti e abiti sporchi griffati, tolgono il respiro. Le parole da scrivere sono tutte dannatamente inadeguate.

I professori di storia ci hanno raccontato che il capitalismo industriale dell’800 è stato spietato quanto a sfruttamento nelle fabbriche del lavoro di adulti e di bambini; poi, poco a poco, i diritti dei lavoratori sono stati riconosciuti. Ora sappiamo che hanno mentito oppure si sono sbagliati: il parziale riconoscimento, in una parte del mondo di quei diritti, oggi messo in discussione, nascondeva il feroce dominio da un’altra. Le violenze dell’800 hanno soltanto cambiato forme e residenza.

La domanda è: come continuare il business?

Intanto, la preoccupazione principale del governo del Bangladesh e delle multinazionali sembra essere una: come continuare il business. L’associazione nazionale dei produttori ed esportatori (Bgmea) e il governo si sono rifutati finora di rendere noti il numero totale e l’elenco completo dei nomi delle donne e degli uomini che lavoravano nelle fabbriche distrutte.

La scorsa settimana, con centinaia di persone vive ancora seppellite sotto le macerie, mentre il governo parlava di un centinaio di vittime, il Bgmea ha trovato il tempo per incontrare quaranta società transnazionali, tra cui H&M, Nike, JC Penney, C&A, Levi, Marks & Spencer, Tesco, per discutere della crisi globale.

Sheikh Hasina, la primo ministro del governo, già alle prese con manifestazioni politico/religiose enormi e violente, sembra piuttosto preoccupata per questa storia di Dhaka: teme il danno di immagine. Hasina ha cercato di minimizzare il disastro. Ha detto, neanche fosse la reincarnazione di Margaret Thatcher, che un «incidente può accadere ovunque», e che nessuna azienda dovrebbe essere incolpata «soltanto per un incidente». Aziende che, consigliate dai loro strateghi della comunicazione, hanno subito publicato post e twit per rendere noto il loro sgomento e per prendere le distanze da quanto accaduto, oppure hanno perferito la tattica del silenzio. La complicità dei grandi media, che sopravvivono con le loro inserzioni pubblicitarie, in fondo non manca mai. Hasina ha anche minacciato più o meno esplicitamente i lavoratori del settore dell’abbigliamento che continuano a protestare in strada, perderanno il posto di lavoro.

Cento dollari al mese

Il disprezzo della classe dirigente per la vita dei lavoratori e delle lavoratrici è enorme. Il governo è ancora alla ricerca di capri espiatori con i quali cercare di coprire la propria responsabilità: al momento, come ripetono in modo ossessivo le televisioni nazionali, sono stati arrestati il costruttore, un ingegnere e alcuni dei proprietari delle cinque fabbriche. Intanto, tra i sopravvissuti c’è chi ha iniziato a denunciare le condizioni nelle quali erano costretti a lavorare ogni giorno: piccole stanze senza finestre, bagni condivisi con centinaia di persone, salari che non superavano i cento dollari al mese.

E allora lasciateci gridare. Lasciateci tirare fuori la nostra rabbia per una strage che si poteva e doveva evitare.

Lasciateci gridare la nostra rabbia per i silenzi e le risposte delle multinazionali.

Lasciateci gridare la nostra rabbia per come i media minimizzano quanto accaduto, per i criteri con i quali un fatto diventa notizia.

Lasciateci gridare la nostra rabbia contro chi ostacola le campagne di consumo critico.

Dominatori e dominati

Questo è un grido di angoscia. Ogni giorno è sempre più evidente, non solo nel sud del mondo, quanto il capitalismo sia una forma catastrofica di organizzazione sociale che distrugge le persone. L’angoscia è insopportabile se fossimo soli, ma non lo siamo. In ogni angolo del mondo, da Dhaka alle periferie di Roma, dalla Selva Lacandona agli slum di Durban c’è chi resiste e costruisce relazioni di mutuo aiuto. Questa è l’unica speranza alla quale non smetteremo di aggrapparci. E’ la speranza con la quale possiamo riconoscere la debolezza del capitale che dipende dal lavoro di chi lo crea. Il dominio dei grandi marchi dipende dai suoi operai sfruttati, dai cittadini consumatori, da chi contribuisce a raccontare il mondo, perfino da chi lavora per il marketing delle grande aziende: tutti possono contribuire a mettere in discussione quel dominio, tutti possono sperimentare in qualsiasi momento forme, anche se fragili, di ribellione. Tutti possono diventare obiettori dello sviluppo capitalista.

Ma la speranza per crescere si nutre anche di urli. E allora oggi, per favore, lasciateci soltanto gridare.

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