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20/11/2013

L’attentato contro l’Iran e le lezioni di Beirut

Per la prima volta un duplice attacco suicida viene compiuto contro l'ambasciata iraniana nella capitale libanese. Teheran comincia a pagare caro il prezzo del suo coinvolgimento nella guerra siriana. Le differenze con le due autobombe estive nei quartieri di Hezbollah e il monito di un anziano diplomatico americano.

"Beirut mi ha sempre dato dure lezioni sul Medio Oriente: stai attento a dove metti i piedi e alle leggi degli effetti collaterali". A parlare è Ryan Crocker, uno dei diplomatici americani con più lunga esperienza in Medio Oriente.

Parole che sembrano risuonare in queste ore nei corridoi e nelle stanze dei bottoni dei vertici del sistema politico iraniano, all'indomani del duplice attacco suicida contro la sede dell'ambasciata della Repubblica islamica di Beirut. Tra i 25 uccisi - per lo più civili libanesi - figura l'addetto culturale iraniano, hojatolislam Ibrahim Ansari, giunto in Libano da appena un mese. Sono periti nell'attentato anche 8 miliziani di Hezbollah, tra cui il capo della sicurezza dell'ambasciata iraniana (sì, se ne occupa Hezbollah!) Radwan Fares e tre suoi assistenti.

L'attacco all'ambasciata iraniana di Beirut segna più di un precedente: uno dei maggiori simboli del potere di Teheran nel paese dei Cedri non era mai stato preso di mira nemmeno durante gli anni della guerra civile libanese (1975-90); obiettivi iraniani, in generale, non erano mai entrati nel mirino in modo diretto ed esplicito durante l'aspra crisi politico-militare che ha dilaniato il Libano dal 2004 al 2008.

La novità è che l'Iran e i suoi alleati si sono tuffati a piedi uniti nella trincea siriana, dove non si combatte più soltanto per conquistare o difendere il potere a Damasco. Ma anche per mantenere posizioni acquisite da decenni (Iran e Russia), ora minacciate da una rivolta popolare gradualmente dirottata da attori esterni (Arabia Saudita, Qatar, oltre ai diversi sponsor di gruppi qaidisti), interessati più a indebolire i propri rivali regionali che a servire la causa dei siriani liberi.

Come il presidente siriano Bashar al Assad e il leader degli Hezbollah libanesi, il sayyid Hasan Nasrallah, hanno più volte ricordato, la guerra siriana è cruciale per gli equilibri del Medio Oriente [carta]. Non solo per il cosiddetto "asse della Resistenza" (Iran-Asad-Hezbollah), ma anche per chi da anni vede in questo asse un limite alla propria influenza regionale (Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Stati Uniti, Francia). Gli esiti del conflitto siriano sono determinanti anche per Israele, arci-nemico dell'Iran e del suo alleato libanese, ma di certo più a suo agio nel vedere Asad a Damasco che non jihadisti col coltello fra i denti a pochi metri dal Golan occupato.

A la guerre come à la guerre sembra dunque essere il motto di tutti coloro che, a vario titolo e con differenti gradi di coinvolgimento, si danno battaglia nei diversi scenari siriani: dentro e attorno a Damasco, sulle aspre colline del Qalamun, a Homs, nella regione dell'Oronte, ad Aleppo e nei suoi dintorni, sulle pendici montagnose di Latakia, lungo l'Eufrate e nella Jazira, a ridosso delle alture del Golan e nella pianura di Daraa.

Il graduale e crescente coinvolgimento di mercenari estremisti sunniti provenienti da ogni angolo del pianeta (mancano ancora quelli con passaporto marziano e lunare), assieme alla radicalizzazione in senso islamista dei ribelli siriani, è andato di pari passo con quello, altrettanto graduale e altrettanto crescente, dei miliziani sciiti di Hezbollah, dei loro correligionari armati iracheni e di quadri qualificati dei Pasdaran iraniani.

Le parole del diplomatico americano Ryan Crocker sono state di recente raccolte in un'intervista pubblicata in occasione del trentesimo anniversario dei drammatici attentati suicidi contro le caserme dei militari statunitensi e francesi a Beirut. Poco dopo l'alba del 23 ottobre 1983, due kamikaze si fecero saltare in aria in un attacco coordinato uccidendo, oltre a se stessi, 305 persone: 241 marines, 58 parà transalpini e 6 civili.

Per il corpo speciale americano fu il bilancio più sanguinoso dalla battaglia di Iwo Jima del 1945. Per l'esercito francese fu la perdita più devastante dalla guerra di Indocina del 1954. Si era in una delle fasi più drammatiche del conflitto intestino libanese e Crocker all'epoca dirigeva da due anni la sezione politica dell'ambasciata americana a Beirut.

Pochi mesi prima, nell'aprile del 1983, lo stesso Crocker era scampato a un altro attentato, condotto da una cellula dell'allora nascente movimento Hezbollah contro l'ambasciata americana nella capitale libanese: oltre al kamikaze morirono in tutto 63 persone (32 impiegati locali, 17 americani per lo più dirigenti e membri della squadra locale della Cia; 14 tra passanti e visitatori dell'ambasciata).

Per questi tre maggiori attentati sia Washington sia Parigi puntarono e puntano ancora il dito contro l'Iran rivoluzionario, identificando negli esecutori uomini della neonata milizia sciita libanese addestrata nella valle orientale della Beqaa dai Pasdaran venuti da Teheran. In quello stesso periodo, tra il 1982 e il 1984, le truppe statunitensi e francesi facevano parte, assieme a quelle italiane, del contingente militare occidentale inviato in Libano dopo la massiccia invasione israeliana.

Ma a differenza dei soldati italiani - che di fatto godettero di un'immunità garantitagli non solo dal diverso atteggiamento sul territorio, ma soprattutto dal sapiente equilibrismo della politica estera di Roma - i marines e i parà francesi pagarono caro il prezzo delle scelte politiche regionali dei rispettivi governi.

Come più volte accaduto anche di recente e sempre in Libano in occasione di attentati contro militari del contingente Onu nel sud del paese (Unifil), anche allora chi intendeva inviare avvertimenti politici a questo o a quell'altro attore rivale lo faceva attaccando i suoi simboli: militari in divisa, agenti dei servizi segreti, sedi diplomatiche.

Lo stesso è avvenuto il 19 novembre a Beirut: attaccare o tentare di attaccare l'ambasciata iraniana è un'azione mirata a inviare un messaggio fin troppo esplicito. E al di là di chi sia realmente il mandante - ormai anche un gruppo di buontemponi arabisti e studiosi di Islam può produrre rivendicazioni verosimili e diffonderle usando alcuni siti 'autorevoli' - il fronte armato che si presenta come il "difensore dei sunniti" in Libano, in Siria e in Iraq ha ricordato alla Repubblica islamica che la presenza in forze dei suoi uomini e dei suoi alleati a sostegno di Asad ha un prezzo.

Il 15 agosto scorso un'autobomba era esplosa nel cuore della periferia sud di Beirut, a Ruayss, roccaforte degli Hezbollah, uccidendo una ventina di persone. E poco più di un mese prima, il 9 luglio, un ordigno piazzato in un parcheggio a Bir al Abed, sempre nella parte meridionale di Beirut, aveva ferito una cinquantina di passanti. A differenza dell'attacco all'ambasciata iraniana, questi due attentati sembrano esser stati diretti contro il movimento armato libanese e, in generale, contro la sua base popolare di Beirut sud.

In entrambi i casi (15 agosto e 9 luglio) c'è chi non ha escluso che, come capitato nel caso siriano dei primi attentati a Damasco nel 2011 e 2012, i primi beneficiari degli attacchi siano stati coloro che sono poi stati descritti come vittime degli stessi: gli Hezbollah. Che hanno così rafforzato tra i settori della propria comunità di riferimento il senso di assedio e minaccia, legittimando dunque il maggior coinvolgimento dei loro miliziani in Siria a difesa della comunità sciita e dei suoi luoghi santi, minacciati da estremisti sunniti.

Il 19 novembre invece non è stato colpito un simbolo religioso (una moschea, un centro culturale) né civile (una scuola, un mercato), bensì politico. E non sono stati colpiti gli Hezbollah o la loro comunità di riferimento, ma i loro padrini regionali. Si è voluta colpire la scelta politica di Teheran di tuffarsi a piedi nudi nella trincea siriana.

È sempre più diffusa negli ambienti siriani e libanesi vicini al sunnismo politico e ostile agli Asad, all'Iran e agli Hezbollah, la percezione di essere "invasi", "occupati" da "agenti iraniani". In tal senso, di recente su uno dei siti solidali con la radicalizzazione in senso islamista della rivolta siriana è circolato un poster emblematico: una carta del Medio Oriente trasfigurata, in cui una longa mano iraniana si estendeva dall'Asia Centrale fino alla Siria. La didascalia recitava in arabo e in inglese: "No all'occupazione iraniana".

Rimanendo nella rappresentazione delle percezioni, passeggiando per i quartieri sciiti di Beirut centro, anche il visitatore più distratto non potrà non notare i numerosi manifesti appesi ai muri dei "martiri" di Hezbollah morti "in Siria per compiere il dovere del jihad". Il profilo del giovane "martire" è sempre in primo piano sullo sfondo della cupola dorata del mausoleo sciita di Sayyida Zaynab, alla periferia sud di Damasco.

La componente confessionale esiste eccome, ma oggi come ieri serve agli attori politici rivali per muovere le piazze, per ottenere e mantenere consenso sotto la sempiterna minaccia del nemico, per assicurarsi un flusso sempre costante di giovani pronti a ingrossare la lista dei "martiri" in quella o in quell'altra trincea.

La trincea libanese rimane sempre affollata. E non è un caso che a esser colpita sia stata la sede diplomatica iraniana di Beirut. Perché è a Beirut che si inviano i messaggi più espliciti. Ed è a Beirut - come ricorda Crocker - che gli attori in lotta fra loro devono esser capaci di apprendere le dure lezioni sul Medio Oriente.

"Abbiamo imparato qualcosa?", si chiedeva retoricamente l'anziano diplomatico americano dopo aver snocciolato le scelte fallimentari della politica mediorentale di Washington dal 1982 fino all'invasione irachena del 2003.

"Probabilmente no", rispondeva Crocker alla domanda, che ora forse circola in modo insistente anche a Teheran e a Beirut sud.

Per approfondire: L'Iran torna in campo

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