Le Monde
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sabato 30 novembre 2013

Beirut sotto il vulcano
di Laure Stephan
Traduzione di Paola Robino Rizet

Nella sua vulnerabilità la città rivive i demoni delle sue divisioni. Un scontro segreto è al lavoro, una "guerra fredda" incoraggiata dal conflitto siriano.

Beirut, 30 novembre 2013, Nena News

Sotto il ponte Cola, a due passi dalla stazione degli autobus dove viaggiatori si riversano in minibus senza età, delle ombre ripiegano dei pezzi di cartone. Su questi letti di fortuna, decine di siriani trascorrono la notte, a volte con la famiglia. Mentre la giornata inizia tra il caos dei clacson e l'anarchia tipica del traffico di Beirut, altre sagome furtive raggiungono una rotonda: anche loro sono siriani. Sono alla ricerca di un lavoro, a giornata, a ore, poco importa, giusto per racimolare quel che basta per mangiare.



Giorno e notte, profughi in difficoltà si aggirano tra le strade di Beirut. "La città è piena di persone che vagano senza meta e nel bisogno", racconta Mohamad Hamdan, ingegnere e attivista nel movimento sociale Alayyi Haqqi, che lotta per l'accesso ai servizi pubblici (sanità, istruzione). "I cittadini si sentono impotenti, anche quando cercano di aiutare i profughi siriani. Questa presenza massiccia acutizza in qualche modo anche le paure". Sono ovunque, nelle strade del quartiere dello shopping di Hamra a Ovest della capitale, o sulle corniche, o chiedono l'elemosina all'incrocio di Achrafiyeh, a Est, in cambio di un fiore o di un pacchetto di fazzoletti". 



I più benestanti frequentano i caffè sul lungomare di Manara, all'ombra della grande ruota, o a Zeituna Bay, di fronte al porto turistico. Le donne della borghesia damascena si riuniscono per la sobhiyé, una parola intraducibile che evoca sia la condivisione di un caffè al mattino che gli ultimi pettegolezzi. Ma anche il gossip mondano è carico di gravità, quando il dramma siriano, così vicino, è ogni giorno in prima pagina. Scioccata dall'afflusso di rifugiati, Beirut, definita provinciale nonostante più di un milione di abitanti, si scopre più povera, più popolosa, più preoccupata.



La città congelata Dopo la crisi interna del 2006-2008, che ha visto una paralisi della vita politica e l'incremento di tensioni comunitarie, la capitale libanese aveva sperato in un nuovo inizio, aveva sperato di tornare ad essere il fulcro del Medio Oriente, come sostiene di essere sempre stata con le sue banche e con i suoi media. Ma, ahimè, la rivolta siriana nel marzo 2011 ha messo fine a quei sogni. Divisa in blocchi quasi uguali tra sostenitori e oppositori al regime siriano, Beirut sta lentamente scivolando in una guerra per procura.



La frenesia quotidiana delle sue strade, solcate dalle selvagge connessioni elettriche, è solo apparente: la città è congelata. Dietro un'illusoria aria di normalità, la malinconia e l'immobilità hanno invaso i suoi quartieri che conservano le cicatrici della guerra civile (1975-1990) su alcune facciate segnate dall'impatto di proiettili e cannoni. Baciata dal sole autunnale, Beirut si domanda ansiosamente cosa le riserva il futuro. 



Houssam Itani, giornalista del quotidiano panarabo Al-Hayat, non si fa illusioni. Per lui, il conflitto siriano "ha inferto un colpo mortale" alla città già "depressa" per l'espropriazione del ruolo centrale che occupava nel mondo arabo prima della guerra civile, durante gli anni 1960-1970. 



Polo finanziario e commerciale, Beirut era entrata nella leggenda come la capitale degli esuli arabi: oppositori e intellettuali in fuga dalla censura o dalla morte e fedayyn palestinesi. Questo fermento l'ha conosciuto bene la regista Jocelyne Saab, autrice del pregevole "Il Libano nella tormenta" (1975) che aveva 20 anni all'inizio della guerra. "In quell'epoca, andavamo a trovare i rivoluzionari di tutto il mondo arabo che si davano appuntamento nei caffè della corniche, sospesi tra cielo e terra". "Mentre una parte degli abitanti di Beirut pensa di vivere nell'epicentro della libertà, un'altra è preoccupata già da tempo per questa irrequietezza che considera pericolosa". 



Oggi, gli intellettuali siriani hanno timidamente raccolto la fiaccola nei caffè di Hamra. Ballerini, musicisti e pittori danno un nuovo impulso alla scena locale. Ma Beirut non è la loro destinazione preferita: troppo vicina a Damasco, ai suoi servizi segreti e ai suoi complici locali, troppo pericolosa.



Niente Primavere Arabe



In ogni caso, Beirut non fa più sognare. 



La "primavera araba" non è stata che una debole scintilla, giusto qualche manifestazione contro il confessionalismo che si è velocemente spenta. Ranghi esigui dei sostenitori del regime di Damasco e partigiani della rivolta siriana si sono affrontati nel 2011 davanti all'ambasciata siriana, quando era ancora ad Hamra Street. I meeting convocati dalle correnti di sinistra nella mitica piazza dei Martiri, trampolino di un'immensa folla nel 2005 - che chiedeva la fine dell'occupazione siriana e reclamava la verità sull'assassinio dell'ex primo ministro Rafiq Hariri - (attribuito a Damasco) non hanno avuto successo.



"A Beirut come a Tripoli, i salafiti sono stati più numerosi a mobilitarsi. Il conflitto siriano segna la crisi della società civile. Ognuno trova più facile appartenere alla sua comunità che lottare per essere libanese", sospira Houssam Itani. 



Un'economia di piombo



Sede di un potere politico paralizzato, Beirut assiste al crollo della sua economia. Tutti ne risentono, dai piccoli esercizi ai grandi alberghi disertati dai turisti. Anche se la sezione "lifestyle" delle riviste americane, innalza la città al allo status di metropoli indiscussa per la sua vita culturale, la sua cucina raffinata e per le sue feste notturne. Dopo la gioia dell'adulazione, resta l'amarezza della decadenza. 



Nel centro della città, antico luogo di ritrovo per chiunque, distrutto dalla guerra e trasformato nel quartiere degli uffici, molti negozi hanno già chiuso. I quartieri popolari sono essi stessi teatro di un'altra battaglia, più dura: le bandiere dell'opposizione siriana a tre stelle appaiono per le strade di Tarik Jdide roccaforte sunnita e filo-ribelle a cui rispondono i ritratti dei "martiri ", i combattenti di Hezbollah caduti in Siria, nelle strade del confinante quartiere misto sciita Barbir. Ovunque, i giovani si fingono oziosi, in realtà fanno la guardia, scrutando qualsiasi presenza "straniera" e imponendo le loro regole in uno spazio pubblico che si fa sempre più privato.



Quanto al quartiere cristiano Achrafiyeh, si tiene lontano dal dissidio tra sunniti e sciiti nonostante le sue divisioni interne riguardo il dramma siriano. Le sue mura rivelano il dubbio: "Federalismo", slogan a lungo caro ad alcuni cristiani e riapparso durante l'estate, citato qua e là.



Alla fine di maggio, il malessere si è trasformato in psicosi. La bolla in cui viveva Beirut è scoppiata. Fino ad allora, nonostante l'attacco mirato contro Wissam al-Hassan, capo dell'intelligence della polizia, nell'ottobre 2012, la capitale era stata relativamente risparmiata dalla violenza, a differenza di Tripoli o della Valle della Bekaa.



Ma a maggio due missili sono caduti sul quartiere Chiyah alla periferia di Dahiye, roccaforte di Hezbollah, nella periferia Sud di Beirut. Nel mese di luglio, una bomba ha colpito la zona causando una cinquantina feriti. A questa è seguita un'esplosione devastante, il 15 agosto sempre a Dahiye causando 29 morti, oltre 300 feriti, colonne di fumo e di scene di macerie familiari agli abitanti di Beirut.



La tensione si è poi attenuata, ma non il disagio. Tanto più che i responsabili alimentano quest'atmosfera. Il 14 ottobre, alla vigilia di Eid al-Adha, grande festa islamica, l'esercito ha annunciato di aver disinnescato una carica di esplosivo di 50 chili in un'auto parcheggiata a Maamoura. Pochi giorni prima, un altro servizio di sicurezza aveva lanciato un avvertimento per il rischio di autobombe. 



Il ritorno della sicurezza ad oltranza



Beirut, inquieta, rispolvera le misure di sicurezza come nei periodi di crisi: all'ingresso dei parcheggi dei supermercati, le auto passano per i rilevatori di esplosivi. Le aree pubbliche sono delimitate da blocchi di cemento. E fuori le moschee, la preghiera del Venerdì si svolge sotto l'occhio vigile di poliziotti o soldati. La crisi accelera l'idea di emigrare, argomento onnipresente nelle conversazioni.



Nella sua vulnerabilità Beirut rivive i demoni delle sue divisioni politiche e religiose. In alcuni ambienti, gli attacchi contro i sobborghi meridionali sono stati accolti con indifferenza o da manifestazioni di gioia. "Quando un attacco viene celebrato, è davvero il segno che abbiamo raggiunto un basso livello del senso di appartenenza - dice il giornalista Houssam Itani - Nonostante poi si ritorni alla vita normale, questi attacchi lasciano cicatrici profonde", avverte.



Le ferite visibili durano poco, accompagnate da vecchi reazioni: assicurarsi il più velocemente possibile del destino dei propri cari con una telefonata, disertare le strade per alcune ore o un paio di giorni, durante i quali Beirut si trasforma in una città fantasma, rinchiudersi in casa finché non passa. 



"E al mattino, ci si sveglia con il rumore di una gru, dei cantieri perenni, come se nulla si fosse fermato. Quando c'è un picco di violenza, ognuno si richiude in se stesso, è impossibile reprimere la paura. E quando la tensione è scemata, risalgono l'amnesia e la violenza latente", dice Mohamad Hamdan. 



Beirut può sprofondare di nuovo in una guerra? La maggioranza degli osservatori rifiuta questa ipotesi. La città ha sofferto troppo a causa della guerra civile, dicono, un nuovo confronto sarebbe inutile. Ma affermano che un conflitto segreto è al lavoro. Una "guerra fredda" che ha avuto inizio nel febbraio 2005 con l'assassinio di Rafik Hariri, leader della comunità sunnita, incoraggiata oggi dal conflitto siriano, valuta Houssam Itani.



"Ci sono più di divisioni. Molte cose non dette, relazioni prudenti, odio represso. E di sera ognuno guarda la sua televisione (canali privati sono quasi tutti affiliati ai partiti politici) per vedere cosa sta succedendo in Siria, con la speranza di veder schiacciare l'avversario", dice. Una "guerra virtuale", aggiunge la regista Jocelyne Saab, e quindi invisibile.



"Ma nelle relazioni sociali si percepisce la violenza, nelle conversazioni le opinioni si inaspriscono, viviamo in uno condizione di degrado. E poi c'è la ricomparsa dei confini che la guerra civile aveva tracciato nella città". 



A causa di un passato doloroso, alcune persone si astengono per paura, disagio o nostalgia, dall'andare nei quartieri dominati dall' "altro". Per via degli attentati, la periferia Sud è diventata un spazio proscritto per quanti avevano l'abitudine di recarcisi a fare la spesa. E poi ci sono quei luoghi dove avvengono incidenti circoscritti, colpi di arma da fuoco, strade sbarrate da pneumatici bruciati,eppure causa di tante paure. 



"Recentemente, ero con una donna che si è rifiutata di passare per Cola, era convinta che ci fossero dei cecchini in agguato", afferma Jocelyne Saab. Coinvolta nel tumulto siriano, Beirut trattiene il respiro. "Finché la guerra continua, siamo condannati", dice la regista.



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