Europa Quotidiano
28 dicembre 2013

Beirut, le leggi del caos
di Lorenzo Trombetta

Anche il caos ha le sue regole. Anzi, le sue leggi. A Beirut, una di queste impone da circa dieci anni che chi si oppone all’influenza siro-iraniana sia punito con la morte. Violenta, ovviamente.

L’ex ministro libanese Muhammad Shatah, uomo di rappresentanza della famiglia Hariri sostenuta dall’Arabia Saudita, non è riuscito a scampare alla ferrea legge ed è saltato in aria ieri mattina nel centro ricostruito di Beirut assieme alla sua giovanissima guardia del corpo e ad almeno altre quattro persone. Shatah da oltre un anno rispondeva ai politici e ai giornalisti che in Libano volevano parlare con Saad Hariri, ex premier e leader della coalizione politica ostile all’Iran, al regime di Damasco e agli Hezbollah. Proprio per paura di essere ucciso in un attentato simile a quello che ha fatto fuori Shatah e che nel 2005 fece fuori suo padre Rafiq Hariri, Saad Hariri vive da tempo lontano dal suo Paese, tra l’Europa e l’Arabia Saudita.

L’uccisione di Shatah in un contesto regionale da più parti definito “caotico” a causa soprattutto del vicino e sanguinoso conflitto siriano, appare come un evidente messaggio agli Hariri e ai suoi protettori regionali e internazionali. Tra meno di un mese si aprirà all’Aja l’atteso processo contro cinque membri di Hezbollah accusati, in contumacia, di aver partecipato a diversi livelli all’uccisione di Rafiq Hariri nel febbraio del 2005 e a quella di altri personaggi politici e intellettuali anti-siriani libanesi.

Pochi minuti prima di morire tragicamente, Shatah aveva scritto sul suo profilo Twitter: «Hezbollah sta esercitando enormi pressioni per garantirsi quei poteri in affari di sicurezza e in politica estera che la Siria ha esercitato per 15 anni». Il riferimento era prima di tutto all’attuale braccio di ferro politico-istituzionale in corso da mesi per la formazione del nuovo governo libanese e all’altra contesa, avviata invece da poche settimane, riguardante la proroga o meno del mandato del presidente della Repubblica Michel Suleiman.

L’auto sulla quale viaggiava Shatah era diretta a una riunione del gruppo parlamentare dell’opposizione dominata dal partito Futuro della famiglia Hariri. Sul suo blog e nelle dichiarazioni alla stampa, Shatah non aveva mai nascosto il suo appoggio a una soluzione militare esterna contro il regime siriano del presidente Bashar al Assad. Come molti altri esponenti libanesi ostili agli Assad, l’ex ministro considerava la caduta del regime di Damasco un passo preliminare e necessario per la risoluzione dell’interminabile crisi libanese.

In questo senso la sua morte va letta nel più ampio quadro della contesa tra il fronte filo-saudita e quello filo-iraniano. Col sostegno della Russia, la Repubblica islamica e i suoi alleati arabi siriani, iracheni e libanesi, fanno di tutto per mantenere in Medio Oriente la loro supremazia, rilanciata nel 2003 dalla caduta del regime di Saddam Hussein a Baghdad e dalla consegna da parte di Washington all’Iran del piatto iracheno. Dall’altro lato del fronte, l’Arabia saudita – indebolita al suo interno da una difficile transizione di potere – tenta con fatica di guidare l’offensiva, ma si trova frenata da un’amministrazione americana priva di una strategia mediorentale a lungo termine e da alleati sunniti – Qatar e Turchia – con interessi non sempre convergenti.

Su una collina in apparenza al riparo dall’incendio regionale, Israele guarda i suoi nemici farsi la guerra. E gioca una partita tutta personale mirata a difendere il fortino. L’assassinio a Beirut il 4 dicembre scorso di un importante membro dell’ala militare di Hezbollah, Hasan Laqqis (incaricato di seguire il dossier delle forniture iraniane di droni anti-israeliani al movimento sciita libanese), sembra proprio inserirsi nella volontà dello Stato ebraico di approfittare del “caos” mediorentale per assestare meglio i suoi colpi. Secondo regole ben precise.

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