di Lettera22
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10 ottobre 2013

Libia, i retroscena del rapimento di Ali Zeidan: da Al Qaida ai gruppi armati
di Joseph Zarlingo

Dopo la caduta del regime di Gheddafi, il Paese, già caratterizzato da una forte presenza di formazioni jihadiste, è lacerato dalle lotte tra le diverse milizie che si spartiscono il territorio. Una di queste ha organizzato il sequestro del primo ministro

L’allarme sulla tenuta delle istituzioni libiche post-Gheddafi era stato lanciato da tempo. I vari governi, di transizione e non, succedutisi dopo la caduta del Colonnello non erano finora riusciti a sciogliere alcuni dei nodi principali: la ripresa dell’attività estrattiva dell’industria petrolifera (scioperi e blocchi di produzione ci sono stati fino a settembre scorso) e soprattutto il disarmo generalizzato delle varie milizie sorte durante la guerra, in grado di controllare alcune fette di territorio e di limitare pesantemente l’autorità delle istituzioni centrali o di quel che ne resta.

Il rapimento/arresto del premier Ali Zeidan mostra anche agli osservatori più distratti quanto la situazione nel paese nordafricano sia “volatile e fragile”, per usare due termini cari agli analisti di cose internazionali. I contorni dell’operazione che ha portato al fermo di Zeidan sono ancora poco chiari e, se è vera la ricostruzione di alcuni media arabi, a condurre il raid sarebbe stato un “commando” molto numeroso, alcune decine di persone armate. Una vera e propria operazione militare, dunque.

Dall’attacco contro il consolato statunitense a Bengasi, l’11 settembre 2012, ci sono stati in Libia altri episodi di azioni contro le rappresentanze diplomatiche internazionali, come per esempio l’autobomba contro l’ambasciata francese a Tripoli, il 23 aprile di quest’anno. Inoltre, ci sono stati frequenti scontri tra le varie milizie, soprattutto nel sud del paese e il governo di Tripoli non è ancora riuscito a imporre il monopolio dell’uso della forza. Il 26 settembre scorso, la regione sudoccidentale del Fezzan si è dichiarata “autonoma” e tre giorni dopo, a Bengasi, tre agenti dei servizi di sicurezza sono stati uccisi in quello che è sembrato un attacco molto mirato. Come se non bastasse, ad agosto di quest’anno, il livello di allarme è salito ancora: in pochi giorni ci sono state alcune evasioni di massa, in Pakistan, Libia e Iraq hanno fatto temere, soprattutto all’intelligence britannica, una nuova possibile offensiva della galassia jihadista legata in qualche modo ad Al Qaida e alle sue affiliate.

In Libia, in particolare, secondo Al Jazeera, ci sarebbe stata una forte infiltrazione di militanti jihadisti del network di Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqim). Sarebbero stati loro, già un anno fa, a colpire il consolato Usa a Bengasi, assieme ad altri gruppi armati, ma il “travaso” di miliziani sarebbe stato completato dopo le operazioni francesi nel nord del Mali: le forze armate libiche non avrebbero l’equipaggiamento necessario a contrastare questa infiltrazione e non sarebbero in grado di controllare il vasto territorio desertico del sud, dove i miliziani di Aqim avrebbero costituito delle basi operative. Da una di queste, a maggio scorso, secondo il presidente del Niger Mahamadou Issoufou, sarebbero partiti i jihadisti responsabili del duplice attentato costato la vita a 20 persone. Una conferma indiretta della presenza di Al Qaida è stato poi il raid delle forze speciali statunitensi che pochi giorni fa ha portato alla cattura di Abu Anas al-Liby, provocando anche la reazione del premier Zeidan che ha protestato con Washington per la violazione di sovranità subita dal suo Paese e ha chiesto che il terrorista, sospettato di aver partecipato agli attentati contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania nel 1998, fosse restituito alle autorità libiche per essere processato in patria.

L’operazione contro Ali Zeidan, tuttavia, per quanto potrebbe essere in qualche modo legata alla presenza dei network jihadisti, non rientra nel modus operandi delle cellule di Aqim e rinvia piuttosto alla rivalità tra fazioni e gruppi armati per il controllo della Libia post-Gheddafi. Infatti, il rapimento del primo ministro libico, sequestrato e rilasciato dopo poche ore, è stato rivendicato dalla “Camera dei rivoluzionari di Libia”, uno dei tanti gruppi di ribelli che non ha deposto le armi dopo la caduta del Colonnello. Nel Paese, di fatto, ci sono almeno quattro poteri armati principali: l’esercito, la polizia ufficiale, e poi le milizie del ministero della Difesa (il cosiddetto Libyan shield, a sua volta formato da diverse milizie semi-autonome) e quelle che fanno capo al Supreme security commitee (Comitato supremo per la sicurezza), che dipende dal ministero dell’Interno. Oltre a ciò, ci sono milizie locali che agiscono come forze di autodifesa regionali o cittadine. Questo mix è complicato dall’intreccio delle affiliazioni politiche, familiari e claniche, che il regime di Gheddafi ha usato con grande oculatezza per evitare che si creassero blocchi di potere potenzialmente concorrenti che oggi rallentano (o impediscono?) la formazione di strutture di governo nazionali. Il risultato è una miscela instabile e potenzialmente esplosiva. Manca, finora, un innesco: ma il raid contro Zeidan induce gli analisi più pessimisti a pensare che si possa essere vicini a una situazione di completo collasso di quel poco di stato rimasto dopo la guerra, del tutto insufficiente a ricostruire un tessuto istituzionale credibile.

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