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2/11/2013

La guerra faziosa a portata di mano: ridisegnare ancora il Medioriente
di Ramzy Baroud
traduzione di Erica Celada

Le acque calde del Golfo sembrano tranquille a guardarle da dove sono seduto, ma difficilmente una tale tranquillità riflette i conflitti che questa regione continua a generare. L’euforia della cosiddetta primavera araba è ormai svanita e quel che resta è una regione ricca di risorse ed oppressa da una storia facilmente manipolabile, in uno stato di sconsiderata transizione. Nessuno riesce ad intravedere a che cosa assomiglierà il futuro, ma le possibilità sono numerose e probabilmente tragiche.

Durante le mie numerose visite nella regione, non ho mai incontrato una tale mancanza di comprensibilità per quanto riguarda il futuro, nonostante il fatto che le linee di combattimento siano state elaborate come mai prima d’ora. I governi, gli intellettuali, le sette ed intere comunità sono schierati agli opposti in merito a molte questioni. Questo avviene a vari livelli in tutto il Medioriente, in base all’ubicazione del conflitto.

Alcuni paesi sono direttamente coinvolti in conflitti sanguinosi e significativi – rivoluzioni abbandonate, come in Egitto, o rivolte trasformatesi in guerre civili assolutamente distruttive come in Siria. Al contrario, coloro ai quali per ora viene risparmiata l’agonia della guerra, sono coinvolti comunque nel finanziamento di diversi partiti di guerra, nel trasporto di armi, nell’addestramento di combattenti e nella diffusione di campagne mediatiche a sostegno di una parte contro l’altra. Non esiste più quel concetto elusivo come l’oggettività dei media, nemmeno in termini relativi.

Eppure, in alcuni casi, le linee non sono state nemmeno tracciate con una qualche certezza. Tra le fila degli oppositori siriani al regime Ba’ath a Damasco, i gruppi sono troppo numerosi per poterli contare e le loro alleanze oscillano in maniera tale che ben pochi nei media sembrano notarli o aver cura di segnalarli. Noi parliamo arbitrariamente di una “opposizione”, ma in realtà non vi è davvero nemmeno una piattaforma politica o militare unificata, che sia il Consiglio Supremo Militare, il Consiglio Nazionale Siria o la Coalizione nazionale siriana. In una mappa interattiva, formulata da Al-Jazeera specialmente in merito a quelle che sembrano delle conclusioni su larga scala, il consiglio militare “sostiene di comandare circa 900 gruppi, per un totale di almeno 300.000 combattenti”. L’affermazione sull’attuale controllo su questi gruppi si può contestare facilmente giacché vi sono numerosi altri gruppi che agiscono sulla base degli ordini delle proprie agende oppure unificati in diverse piattaforme militari senza fedeltà ad alcuna struttura politica, né di Istanbul né di altrove.

È facile tuttavia associare il perpetuo conflitto con il presunto Medioriente, intrinsecamente violento. Per quasi due decenni, in molti hanno avvertito che l’intervento militare americano in Iraq avrebbe alla fine “destabilizzato” l’intera regione. Il termine “destabilizzare” è ovviamente un eufemismo, dal momento che Israele ha fatto molto più della sua parte per destabilizzare numerosi paesi, occupandone alcuni e distruggendone altri. Ma le prospettive di destabilizzazione politica sono diventate molto più inquietanti quando il Paese più potente al mondo ha deciso di investire gran parte della sua forza e delle sue risorse finanziarie per compiere il lavoro sporco.

Nel 1990-1991, poi di nuovo nel 2003 ed un’altra volta nel 2006, l’Iraq è stato utilizzato come un gigantesco campo di sperimentazione bellica, di costruzione statale e di guerra civile provocata dagli americani. La regione non aveva mai sperimentato una divisione simile per soddisfare orientamenti così settari, come fece invece in queste occasioni. La motivazione addotta dagli Stati Uniti alla guerra era che la maggioranza sciita era sfacciatamente oppressa dalla minoranza sunnita. Essi hanno riorganizzato uno dei più complessi scenari politici del mondo nel giro di poche settimane, sulla base di un progetto ideato dagli ‘esperti’ di Washington con ben poca esperienza di vita reale. Non solo l’Iraq è stato lacerato a brandelli, ma l’azione è stata ripetuta più volte per adattarsi all’americano incapace di comprendere la storia.

L’Iraq continua a soffrire, anche dopo il presunto ritiro dell’esercito statunitense. In migliaia sono morti in Iraq negli ultimi mesi, vittime etichettate come membri di una o di un’altra setta. Ma la malattia irachena si è ormai trasformata in una condizione regionale. E come gli Stati Uniti, quando invadono gli stati sovrani politici e ne riorganizzano i confini politici, così i gruppi come Stato islamico dell’Iraq ed al-Sham (ISIS) operano ovunque trovino la loro vocazione senza alcun rispetto per i confini geografici. Formatosi in Iraq nel 2006 come piattaforma per i vari gruppi jihadisti come al-Qaeda in Iraq, ISIS è stato un elemento fondante della feroce guerra in corso in Siria. Nonostante la sua cattiva reputazione, sembra avere ben pochi problemi a trovare però l’accesso alle risorse. Peggio ancora, in alcune zone della Siria in realtà vige un’economia piuttosto solida, che dà maggiori privilegi a gruppi come questo piuttosto che ai gruppi siriani.

Tali gruppi non sarebbero mai esistiti in Iraq o non sarebbero stati in grado di muoversi con relativa facilità verso altri paesi, se non fosse stato per l’invasione degli Stati Uniti. Loro operano come eserciti privati , divisi in piccoli gruppi di combattenti agguerriti in grado di navigare a loro modo attraverso le frontiere e prendere il controllo di intere comunità. Al-Qaeda, un gruppo a malapena conosciuto 12 anni fa, è ormai diventata una delle parti interessate nel futuro di tutti paesi del Medioriente.

Per i paesi che non stanno sperimentando il tipo di sconvolgimento provato in Siria e in Iraq, tuttavia capiscono che comunque è troppo tardi per giocare il ruolo di spettatore. Si tratta di una vera e propria guerra in fieri e non c’è tempo per la neutralità. Preoccupanti previsioni del cambiamento fisico dello scenario della regione sono decisamente ben avviate e sembra che pochi paesi ne saranno risparmiati.

Il recente articolo di Robin Wright sul New York Times “Imagining a remapped Middle East” è il tipico esempio di speculazione realizzato dai politici americani e dall’élite dei media riguardo il Medioriente. E lo hanno applicato sul serio, prima e dopo l’invasione americana dell’Iraq, dove hanno ritagliato i paesi arabi in qualunque combinazione si adattasse agli interessi degli Stati Uniti, in una tipica formula di divisione e regole. Questa volta però, le prospettive sono spaventosamente serie e reali. Tutti i principali attori, anche se apparentemente opposti tra loro, stanno contribuendo infatti alla plausibile divisione. Secondo Wright, non solo i paesi potrebbero diventare delle nazioni più piccole, ma alcuni dei territori “ritagliati” potrebbero convergere nelle zone sottratte ai paesi vicini.

Anche le “città-stato, oasi di molteplici identità come Baghdad, enclavi ben armate come Misurata, la terza città della Libia, o zone omogenee come Jabal al-Druze in Siria meridionale, potrebbero tornare in auge, anche se tecnicamente all’interno dei paesi” ha scritto. La mappa d’accompagnamento era intitolata: “Come cinque paesi potrebbero diventare 14”.

Qualora si realizzassero tali eventi, la previsione di per sé racconta di un conflitto in Medioriente innegabilmente soggetto all’instabilità, dove i paesi sono ora coinvolti in guerra. Le nuove linee di combattimento sono ora faziose, riportando anche i sintomi dell’incessante guerra civile in Iraq. In realtà, i protagonisti sono più o meno gli stessi, tranne il fatto che il “gioco” ora si è diffuso fino a superare i confini porosi dell’Iraq ed invadere spazi molto più ampi, dove i militanti hanno il sopravvento.

Da qui, le calde acque del Golfo sembrano tranquille, ma lo sono in modo ingannevole.

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