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26 Dic 2013

Egitto e Turchia, la parabola triste dell’islam politico
di Lorenzo Biondi

Il partito di Erdogan sconvolto dalla "Tangentopoli turca" e dalle lotte intestine. Al Cairo il governo mette fuori legge la Fratellanza musulmana. È la fine di un ciclo politico

C’era una volta l’irresistibile ascesa dell’islam politico. Da una parte la Turchia delle tre vittorie elettorali di Recep Tayyip Erdogan. Dall’altra l’Egitto dei Fratelli musulmani, usciti trionfanti dalla rivoluzione del 2011. È una casualità, ma nelle ultime ore entrambe quelle vicende hanno subito un contraccolpo da cui difficilmente potranno riprendersi in modo indolore.

In Turchia il partito di governo, l’Akp, è al centro di una grossa inchiesta per corruzione, che è arrivata a lambire persino il premier Erdogan. Dietro l’inchiesta si nasconde anche uno scontro di potere tra le diverse fazioni dell’islam politico turco: quella più vicina al primo ministro e quella legata a Fetullah Gülen, finanziere e filantropo auto-esiliatosi negli Stati Uniti. Ciascuno dei due gruppi, nel tempo, ha “colonizzato” interi settori degli apparati dello Stato, sottraendone il controllo alle élite kemaliste. Fino al paradosso di questi giorni: alcuni magistrati (vicini a Gülen) dispongono l’arresto di diversi uomini politici e la polizia (recentemente riconquistata da Erdogan) si rifiuta di attuarli.

Lo scontro politico diventa scontro istituzionale. E rischia di compromettere le conquiste dell’ultimo decennio, il faticoso percorso della democrazia turca per liberarsi dall’ingombrante tutela dei militari.

Esercito contro islamisti: in Egitto stesso dualismo, tutt’altro copione. Ieri il governo egiziano – controllato dai militari – ha messo fuori legge la Fratellanza musulmana, il partito che appena un anno e mezzo fa, con Mohamed Morsi, aveva conquistato tredici milioni di voti, prima della nuova ondata rivoluzionaria della scorsa estate. Il decreto prevede che il semplice sostegno verbale agli Ikhwan, i Fratelli, o il possesso di letteratura “apologetica” possa essere punito con pene che arrivano ai cinque anni di carcere.

L’occasione per il giro di vite l’ha fornita un attentato di martedì scorso nella città di Mansoura, sul delta del Nilo, in cui sono morte 14 persone. La Fratellanza non ha rivendicato l’esplosione (a differenza di un gruppo estremista, Ansar Beit al Maqdis), ma le altre forze politiche – incluso il partito del premio Nobel Mohamed ElBaradei – hanno subito puntato il dito contro gli islamisti. E il ministero dell’interno non ci ha pensato su due volte, inserendo la Fratellanza nella lista delle organizzazione terroristiche. In Egitto chi fornisce sostegno logistico e militare a un gruppo terrorista rischia la condanna a morte.

L’anno di governo dei Fratelli musulmani è stato fallimentare sotto molti punti di vista: sul piano delle libertà non sono riusciti a scendere a compromessi con le forze laiche; sul piano dell’economia si sono susseguiti gli insuccessi. Ma il loro ritorno alla clandestinità è la chiusura di una stagione. La Fratellanza era illegale durante il regime di Hosni Mubarak (anche se, negli ultimi anni, era “tollerata”); poi la stagione rivoluzionaria e la prese del potere; adesso il ritorno alla macchia. Coi militari nuovamente in controllo della scena politica, in attesa che l’uomo forte Abdel Fattah al Sisi decida di farsi incoronare presidente dal popolo egiziano. E col rischio che gli Ikwhan proseguano sulla strada della resistenza armata.

Storie diverse, quelle di Egitto e Turchia. Ma in entrambi i casi il 2013 è stato annus horribilis degli islamisti di governo. Al Cairo come ad Ankara, la loro crisi rischia di minare profondamente la stabilità dei due regimi.

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