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Guarda anche l’articolo: Sudan, la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta


http://www.sdfamnesty.org
23 ottobre 2013

Sudan, la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta
di Katia Marinelli

Una nuova ondata di proteste ha travolto il Sudan. L’instabile economia che il Paese fronteggia dal luglio 2011 ha portato il presidente al-Bashir ad attuare delle politiche anticrisi, già contestate in passato. Tra le riforme che il presidente ha annunciato pubblicamente per evitare il collasso dell’economia nazionale, è quella sulla sospensione dei sussidi al carburante ad alimentare il malcontento dei cittadini sudanesi. In una notte, il 23 settembre, il prezzo della benzina raddoppia. Diventa impossibile per famiglie e studenti permettersi il biglietto dell’autobus. L’esasperazione accende spontaneamente la protesta.

Wad Madani è il teatro dei primi disordini che in poco tempo si sono  diffusi nelle strade di Khartoum, Kassala, Port Sudan, Gadarif, Sinaar e Nyala (anche se la natura della protesta a Nyala non è strettamente economica). Non appena i manifestanti, cittadini comuni tra cui molti giovani, si sono mobilitati, immagini di palazzi governativi avvolti da un fitto fumo nero e veicoli in fiamme hanno invaso i social network. L’immediata risposta violenta delle forze di sicurezza ha portato alla morte di due manifestanti già il primo giorno di contestazioni, anche se la smentita è arrivata puntuale.

Arresti indiscriminati e pestaggi, come ha testimoniato la giornalista e scrittrice Rania Mamoun, hanno rafforzato la protesta. “Quello che mi è successo rientra nella tradizione politica del nostro Paese: i sudanesi vengono arrestati, torturati, uccisi a sangue freddo dalle forze di sicurezza e di polizia. Nel tardo pomeriggio del 23 settembre io e i miei fratelli siamo stati arrestati per aver manifestato in modo pacifico contro una decisione economica che avrebbe peggiorato la nostra situazione finanziaria. Mio fratello è stato colpito tre volte alla testa e ha la clavicola rotta e segni di contusione su tutto il corpo. Io sono stata accerchiata da soldati che mi hanno colpito con forza, trascinata per strada, molestata e minacciata di stupro. Mia sorella ha lividi sulla testa e sulle braccia. Siamo stati più di un’ora nella stazione di polizia, ammanettati e costretti a restare seduti per terra e subire aggressioni verbali, senza nemmeno poter andare all’ospedale”.

A Khartoum la protesta viene tempestivamente soffocata con gas lacrimogeni e l’impiego di proiettili, di gomma e non solo, scaricati sulla folla. Il giorno più sanguinoso, il 25 settembre, conta più di 100 morti. Alcuni testimoni sostengono che gli incendi alle pompe di benzina siano stati appiccati dalle forze governative per giustificare l’attacco contro i cittadini disarmati. Amnesty International e Human Rights Watch confermano che la reazione adottata dal governo risponda all’ordine: “Sparare per uccidere”. Molti corpi mostrano ferite d’armi da fuoco alla testa o alla schiena. 

Il tentativo di offuscare la brutale repressione adottata dalle forze di sicurezza ha coinvolto anche i media. Immediata la censura imposta alla stampa. Alcune testate (Al Intibaha, Al Ayaam, Al Jareeda) si sono rifiutate di pubblicare il giornale senza poter menzionare gli scontri. Nel momento in cui fotografie e video di morti e di abusi hanno cominciato a circolare sui social media, il 25 settembre si è verificato un blackout: internet, reti wifi e applicazioni per smartphone come WhatsApp ma anche i più semplici servizi SMS hanno smesso di funzionare. Il sangue versato sulle strade durante le proteste ha ampliato e radicato la protesta trasformandola in un movimento per chiedere le dimissioni del governo e riforme politiche ed economiche.

“Libertà, pace e giustizia” è ciò che chiede il Sudan dopo aver contato oltre 200 morti e 700 arresti, nonostante fonti governative dichiarino 33 morti, poliziotti inclusi.

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