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03.06.2013

La fine di un’epoca
di Bernard Guetta
Traduzione di Andrea Sparacino

Le rivoluzioni arabe e le manifestazioni in Turchia sono fenomeni molto diversi. Non stiamo assistendo ad alcuna “primavera di Istanbul”, ma l’esplosione del malcontento nei confronti della maggioranza islamica costantemente al potere dal 2002.

Le rivoluzioni arabe e le manifestazioni in Turchia sono fenomeni molto diversi. Non stiamo assistendo ad alcuna “primavera di Istanbul”, ma l’esplosione del malcontento nei confronti della maggioranza islamica costantemente al potere dal 2002 rappresenta comunque un segnale inquietante per il governo.

Non si tratta della crisi di un regime, perché la Turchia è una repubblica parlamentare e nessuno contesta la regolarità delle tre elezioni che hanno permesso al’Akp, il Partito giustizia e sviluppo, di assumere e mantenere il controllo del paese. Inoltre l’economia turca è in pieno boom, e la crescita del paese è paragonabile a quella della Cina. In dieci anni il reddito medio è triplicato, e la fiducia nel futuro è talmente alta che i figli dell’emigrazione del dopoguerra parto dalla Germania, dalla Francia e dall’Olanda per tornare in patria, dove riescono a trovare lavoro più facilmente che nei paesi Ue grazie alle loro competenze e al loro multilinguismo.

In Turchia, infatti, la disoccupazione dei giovani diplomati non è affatto un’emergenza, diversamente da quanto accadeva (e accade ancora) nei paesi arabi, dove è stata una delle principali cause delle rivoluzioni. Ma allora perché il progetto di un centro commerciale in un parco di Istanbul ha provocato una reazione così forte in tutto il paese?

La risposta è semplice: la Turchia (quella delle città, ma non solo) è un paese infinitamente più moderno e progressista di quanto non lo sia l’Akp del primo ministro Recep Erdogan. Prodotto dell’islamismo, il partito ha saputo ottenere il sostegno della maggioranza della popolazione mettendo da parte ogni tentazione teocratica e accettando la laicità scolpita nella costituzione da Kemal Atatürk negli anni venti, quando il governo ha addirittura vietato il velo nelle amministrazioni e nelle scuole. Contemporaneamente l’Akp ha cavalcato l’aspirazione nazionale di entrare a far parte del’Unione europea, e in questo modo oltre alle classi sociali più basse ha conquistato anche gli industriali, sedotti dal suo liberalismo economico, e una parte della classe media rivolta all’Europa, che nel partito ha visto un mezzo per sbarazzarsi del potere politico dell’esercito.

In passato l’Akp e la Turchia hanno vissuto una luna di miele, ma ora le cose sono cambiate. Gli “islamo-conservatori”, infatti, hanno accettato la democrazia e la separazione tra chiesa e stato, ma non hanno rinunciato al loro conservatorismo estremo e all’autoritarismo incarnato dall’attuale primo ministro. Il dialogo e la consultazione sono concetti sconosciuti a Recep Erdogan, convinto di poter fare ciò che vuole perché eletto dal popolo. L’Akp pensa ancora che la sua missione sia quella di restituire alla religione il ruolo che ha perduto e di ripristinare le vecchie usanze combattendo l’aborto, il consumo di alcool e l’interdizione del velo.

Questo approccio però non rispecchia i desideri di una società giovane, europea e in gran parte laica. La vicenda del parco sacrificato al cemento ha scatenato lo scontro, mostrando improvvisamente una rabbia collettiva che unisce i giovani e tutte le opposizioni nella lotta contro l’autoritarismo, il puritanesimo e lo strapotere del denaro.



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