Originale: Aljazeera
http://znetitaly.altervista.org
28 luglio 2013

Ragioni e torti degli egiziani
di Marwan Bishara
capo analista politico di Al Jazeera.
Traduzione di Giuseppe Volpe

In Egitto, un paese tremendamente polarizzato e pericolosamente teso, i fatti sono d’intralcio.

Ciascuna parte afferma le proprie verità e nega la legittimità degli altri, scaricandoli come fanatici o venduti. I partiti egiziani sono indaffarati e demonizzarsi a vicenda e in tale processo stanno trasformando il sogno di un governo migliore in un incubo di orrore e violenza.

Accuse e controaccuse di interferenza straniera e di metodi inaccettabili possono arrivare fino a un certo punto, anche se denaro, religione, coercizione e manipolazioni sono stati effettivamente utilizzati. Il motore del cambiamento in entrambe le “rivolte” è stato l’insoddisfazione della gente nei confronti dello status quo, indipendentemente dal fatto che le aspettative fossero realistiche o idealistiche.

Comunque, ora che i partiti si aggrediscono a vicenda, possiamo aspettarci un’intensificazione di ciò e, forse peggio, un aggravamento della tensione nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, salvo che quelli che sono in errore e insistono nell’avere ragione si comportino con modestia e saggezza.

Disinformazione

Dal 25 gennaio 2011, quando sono state abbattute le barriere della paura e la gente si è guadagnata il potere di esprimersi liberamente, anche espressioni di odio represso e di istigazione, prive di qualsiasi scrupolo ed etica, si sono fatte strada nell’arena pubblica in questi tempi incerti.

Oggi l’Egitto è preda di innumerevoli voci, insinuazioni infondate e di propaganda travestita da informazione. Quasi tutti gli sviluppi sono affrontati, inquadrati e presentati sulla base di convinzioni politiche e ideologiche meschine. Con questo non si vuol dire che la neutralità sia realistica o persino condizione necessaria per una riflessione lucida. Ma l’obbiettività, in termini di presentazione di fatti verificabili, indipendentemente dalle conseguenze, è stata anch’essa assente nel dibattito attuale in Egitto e, frequentemente, a proposito dell’Egitto.

La demonizzazione è forse la parte peggiore di tutte, considerando che presto o tardi gli egiziani di ogni estrazione sociale e di ogni generazione dovranno vivere vicini, in pace e in armonia.

Ciascuno schieramento si sta ritrincerando in un senso immaginario di rettitudine; ciascuno schieramento, compreso l’esercito, afferma di difendere la rivoluzione, sempre la propria rivoluzione.

Peggio ancora, i rumorosi giornalisti e canali mediatici stanno ulteriormente confondendo la situazione, affermando che la rivolta del 30 giugno correggerà gli errori della rivoluzione del 25 gennaio al fine di tornare ai giorni dell’era Mubarak.

Gli errori della Fratellanza

E’ un fatto verificabile che la Fratellanza Mussulmana non ha avviato la rivoluzione e tuttavia è divenuta una componente strumentale e potente della sollevazione popolare contro il regime di Mubarak.

La Fratellanza, come le altre fazioni della rivoluzione, si è affrettata alle elezioni senza arrivare a un accordo riguardo alla tesaurizzazione degli obiettivi della rivoluzione nello stato e nella sua costituzione. Ciò ha reso ogni idea che avrebbe potuto unire i gruppi da partner, un oggetto di contesa nelle loro battaglie politiche per il potere.

Ed è anche un fatto che i vecchi gruppi islamisti, meglio organizzati, sono andati a vincere le elezioni, in pieno, contro un’”opposizione” divisa. Ma avrebbero potuto essere in grado di  affrontare i residui del vecchio regime nella burocrazia, polizia e nell’esercito o nel cosiddetto “stato profondo”, adottando un approccio inclusivo nei confronti dell’opposizione, per creare un governo nazionale davvero unificato.

Hanno tentato di tranquillizzare l’esercito, come nel novembre del 2011 quando hanno dimostrato un’innaturale indifferenza nei confronti della repressione e della violenza inflitte ai dimostranti nelle strade attorno a piazza Tahrir e a via Mohamed Mahmoud per mano delle forze di polizia, che hanno portato alla morte di 40 persone, alcune delle quali sono state colpite al volto.

E non hanno mostrato la maturità politica necessaria, per non parlare dello zelo rivoluzionario, per appoggiare un processo politico e costituzionale davvero inclusivo. Hanno invece insistito nell’imporre una visione angusta del nuovo Egitto.

L’opposizione non cambia

Se la rivoluzione del 25 gennaio è stata motivata dal rifiuto del regime di Mubarak e da speranze di una vita migliore, libera e più prospera, la rivolta del 30 giugno è stata mossa da un rifiuto del “dominio della Fratellanza” e da quello che è percepito come il suo tentativo di dirottare la rivoluzione e di imporre il suo programma islamista.

Beh, con una distinzione verificabile importante: il presidente precedente era un dittatore che aveva vinto elezioni proforma mentre l’ultimo ha vinto elezioni libere.

L’impazienza dell’opposizione nei confronti di Morsi, anche se comprensibile, considerando tutti i fattori citati in precedenza, non avrebbe dovuto indurla ad associarsi con i generali, per quanto informale e temporanea possa essere tale collaborazione. Il suo movimento popolare ha imposto una considerevole pressione al governo che, se fosse continuata e fosse evoluta in una disobbedienza civile di portata nazionale, avrebbe potuto portare alla caduta del governo.

Ha scelto, invece, la via più breve e forse più vantaggiosa di deporre un presidente eletto; con la forza. E resta piuttosto vistosamente in silenzio mentre l’ex presidente Morsi rimane in custodia dell’esercito. E’ addirittura più strano che si sia attesa che la Fratellanza Mussulmana accettasse l’appello a un dialogo e a partecipare a un processo di riconciliazione nazionale mentre il presidente Morsi rimane agli arresti.

La banalità della forza

In tutto questo i generali non sono innocenti. Guardano ai problemi politici vedendo solo problemi di sicurezza.

Sì, l’esercito egiziano ha dimostrato che all’epoca della rivolta del 25 gennaio è appartenuto allo stato e non al regime, quando si è schierato con il popolo. L’esercito ha preso la decisione giusta ed è stato celebrato per questo.

Questa volta, tuttavia, si è schierato con una parte contro un’altra in un modo piuttosto rapido e inquietante.

Gli ammonimenti contro il caos possono essere stati giustificabili. Che il ministro della difesa Abdel Fattah al-Sisi abbia sollecitato la riconciliazione solo una settimana prima di minacciare il presidente con un ultimatum di 48 ore, dopo di che l’esercito ha fatto il suo ingresso, non promette nulla di buono per il futuro della democrazia. I generali sono stati corretti nell’ammonire contro un crollo totale. Ma il ministro della difesa Sisi non sembra rendersi conto dell’ironia dell’aver detto in un discorso  ai suoi ufficiali che lui, un generale, era soltanto un tramite che riferiva la volontà del “popolo” a un presidente eletto.

Anche se Sisi giustifica la fretta nell’interferire con la necessità di evitare instabilità e violenze, il suo colpo di stato ha avuto come effetto l’aggravamento che presumibilmente desiderava evitare, con altro potenzialmente in arrivo, ahimè.

Nonostante la sua insistenza nell’affermare di non aver tradito il presidente, è più probabile che quello che è parso essere un frettoloso spodestamento del presidente Morsi, celi un processo più lungo e deliberato di liberare il paese dal dominio islamista, un processo che ha coinvolto tattiche destabilizzanti, come la carenza di carburanti, eccetera.

Il fatto che i generali non abbiano assunto, e forse non vogliano assumere, le redini del potere non significa che non stiano comandando da dietro le quinte. In realtà il più recente discorso di Sisi, che ha sollecitato manifestazioni nazionali per attribuire maggiori poteri all’esercito, dichiara che egli è lieto di guidare dalla piazza e accanto alla piazza.

Come in tutti gli eserciti del mondo, il ruolo dell’esercito egiziano consiste nel difendere il paese e la sua sovranità, non nel promuovere la democrazia. Come ho sottolineato in analisi precedenti, per la sua stessa struttura piramidale, un esercito è un’istituzione autoritaria.

In Egitto, dove l’esercito domina una vasta rete di interessi e di privilegi speciali, non è chiaro perché voglia ripristinare il processo democratico. L’esercito più probabilmente sfrutterà il caos in corso per conservare il proprio potere, piuttosto che per accelerare il ripristino della democrazia, a meno che, ovviamente, finisca sotto una grande pressione popolare.

E’ responsabilità dei partiti politici del paese che sono stati in prima linea nella rivoluzione mettere da parte le proprie differenze per salvaguardare le conquiste della rivoluzione e farne progredire gli obiettivi. Ciò richiede maturità politica e che i partiti pongano la rivoluzione e gli interessi del paese al di sopra dei loro meschini interessi di partito.

Più facile a dirsi che a farsi? Sì, forse. Ma non c’è altra via. Anche se ci vorranno anni e molte vite, gli egiziani avranno comunque necessità di confrontarsi e ideare insieme il proprio futuro.

Un nuovo realismo

L’ottimismo riguardo alla transizione alla democrazia si è dimostrato una pia illusione mentre gli egiziani prendono la via più lunga verso il raggiungimento di una visione comune del nuovo Egitto, la loro seconda repubblica.

La storia può essere dalla parte di quelli che si oppongono alla dittatura e che hanno deposto un dittatore a favore di “pane, libertà e giustizia sociale”. Ma anche se il tempo è fondamentale, il futuro non è legato a un timer da cucina.

Ho scritto in The Invisible Arab [L’arabo invisibile] che questa rivoluzione non è una gara dei cento metri. E’ più simile a una maratona o, in realtà, a una staffetta.

“Ogni impennata di democratizzazione dell’ultimo secolo”, ha scritto in Foreign Affairs lo storico Sheri Berman, “ […] è stata seguita da una risacca, accompagnata da vaste discussioni sulla realizzabilità e persino sulla desiderabilità del governo democratico nelle aree in questione.”

La lezione che ci viene da due secoli di trasformazione dopo la rivoluzione francese è che le dittature possono essere imposte e deposte in tempi più brevi di quelli necessari per arrivare a una democrazia costituzionale.

Si può solo sperare che invece di ripetere gli errori dei loro predecessori che hanno impiegato troppo a realizzare un cambiamento positivo, gli egiziani imparino dalle lezioni della storia.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:  http://www.zcommunications.org/when-egyptians-are-right-and-wrong-by-marwan-bishara

Originale: Aljazeera

 

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